21 Settembre 2018

“Altri hanno potere, e si masturbano con quello”: frammenti di Alessandro Spina, lo scrittore italiano più grande (e mal capito, malcapitato)

Nonostante si firmasse Alessandro Spina, il più grande scrittore italiano degli ultimi tempi – più bravo, chessò, di Italo Calvino o di Pier Paolo Pasolini – si chimava Basili Khouzam, era figlio di siriani di Aleppo, nato a Bengasi nel 1927, direttore per un tot dell’industria tessile di famiglia – destino condiviso con Hermann Broch, che apprezzava – ed è morto cinque anni fa, in luglio.

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Lo so, anche a me le classifiche, in letteratura, fanno orrore. Ma ogni tanto occorre fare giustizia. Basili esordisce come Alessandro Spina nel 1960, con Giugno ’40. Impressionante l’adesione di Cristina Campo – “mi è sembrata una cosa di qualità molto rara, come da tempo non mi accadeva di leggere” – con cui Spina comincia un Carteggio di platino, edito da Morcelliana nel 2007. Tra i grandi libri, che comporranno l’imponente ciclo de I confini dell’ombra (Morcelliana, 2006), capolavoro polimorfico e polifonico della letteratura cosiddetta ‘coloniale’ (ma, va detto, tout court), ricordo Il giovane maronita, Le nozze di Omar, Il visitatore notturno. Nel 1976 Ingresso a Babele, pubblicato da Rusconi, approda al Premio Strega. “In una intervista al ‘Tempo’ Mario Praz, dopo aver deriso il libro premiato (dalla solita maggioranza di lettori/giudici pressoché governata dai grandi editori ecc.) disse che lui aveva votato per il mio romanzo, ‘il più meritevole’. A ognuno il suo premio, dunque!”. Per la cronaca, nel 1976 lo Strega va a Fausta Cialente.

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SpinaScrittore raffinatissimo e austero, figlio di Thomas Mann, di Robert Musil, di Hugo von Hoffmannsthal, Alessandro Spina eccelle nel racconto breve. Tra le mirabili Storie di ufficiali, amo L’astrolabio. Inizia così: “Il maggiore Lanzi indugiava davanti allo specchio, pareva ci camminasse. Somigliava al critico d’arte attento a cogliere la particolarità di un dipinto per accertarsi della paternità di un altro”. Che scrittura sofisticata a indugiare nell’indagine dell’uomo.

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Alessandro Spina pensava alla letteratura come forma e alla scrittura come alta espressione culturale: per questo è bandito e nelle antologie si continua a preferire un Cesare Pavese o un Moravia, che noia. In paesi culturalmente più attenti, di Spina si parla ancora.

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Perché fu grande? Senza maschere sperimentali né patine neorealiste, pensò alla scrittura come fosse un liutaio. Il libro come un oggetto da far risuonare. Fu malaccetto da chi pensava all’arte come a una variante della politica a un viatico per la carriera.

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Fu l’unico scrittore contemporaneo con cui cercai un rapporto almeno epistolare. Ci scambiammo qualche lettera. Non ci fu l’abboccamento – ma non m’importava. L’altezza di Spina permette ogni vertigine, ogni svenimento. Più avanti, probabilmente, pubblicherò le lettere che ci siamo scambiati. Di lui, continuai a scrivere con riverenza.

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Fu l’ultimo scrittore del Novecento figlio dell’Ottocento: avrebbe potuto discutere con Stendhal, litigare con Manzoni, fare a gara con Henry James.

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Scrittore che tracima in ogni cosa, Alessandro Spina ha pubblicato nel 2010, sempre per Morcelliana, il suo Diario di lavoro, cioè il cuore messo a nudo di un artista che conosceva le vette – gli altri sono ancora rasoterra. Ne ricalco alcune parti. (d.b.)

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Malgrado la Cirenaica sia stata una colonia italiana, la cultura italiana è estranea al paese, e non lo condiziona. Se non ci fosse questa contraddizione (lo scrittore che appartiene a una civiltà e vive in un’altra), il diario e la mia vita qui sarebbero diversi. Il senso della vita (e del diario) sta in questa tensione.

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Anche in una conversazione bene elaborata può restare qualche eccesso, della pedanteria: capita financo ai grandi. Proust, Mann, Musil… per fare qualche nome, avrebbero fatto bene qualche volta a guardarsene, solo Kafka forse, fra le stelle fisse del Novecento, è esente da ogni forma di pedanteria. Ognuno deve individuare il suo demone (ecco perché bisogna guardarsi dall’imitazione e dalle mode come dai consigli degli amici e dei nemici che vogliono ridurci al minimo comune denominatore).

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Ho fatto l’errore negli anni Settanta, forse, di lavorare troppo per la Libia (per un supposto pubblico libico): libri che pubblicavo in Italia. Come se Sartre avesse edito i suoi libri non a Parigi, ma in Afghanistan, in quattro copie. Ma c’è forse un secondo errore: i libri engagés invecchiano presto, vedi il caso di Sartre. Il Doctor Faustus (lasciamo da parte il talento dell’autore, ben più grande e complesso) si rivolge a un lettore ignoto, non tenta cioè di operare nella realtà. Per quella, c’erano i suoi famosi appelli alla radio durante la guerra (che si rileggono non senza turbamento).

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L’impressione di lavorare per le bottiglie (da affidare al mare) è paralizzante talvolta. Come fanno gli altri? Ma ognuno è immerso nella sua piccola tribù, paravento che gli cela il mondo. Altri hanno potere, e si masturbano con quello.

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Il capolavoro del romanzo italiano, I promessi sposi, è fatto per buona parte di riflessione. Insegnamento perduto – pare che il cosiddetto neorealismo non tenga conto della riflessione, come fosse estranea alla realtà.

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…pensavo, oggi, la pioggia rende malinconici: che guaio dover pubblicare un’opera dopo averla scritta. Eppure è inaccettabile di scrivere per i cassetti. Sì, pensavo, che peccato dover pubblicare in questo mondo (proprio così: mondo, non modo). Bisognerebbe che lo scrittore potesse portar via con sé, là, le opere, come il buon cristiano la sua vita pura, ed essere pubblicato, semmai, di là, dove forse tutti sanno tutte le lingue, dove puoi scegliere il pubblico nelle età più diverse e dove ce n’è di tempo! Insomma: è penosissimo dover ammettere che il senso della nostra vita è qui e basta, in tanta confusione.

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L’Italia ha gonfiato la Resistenza, se ne parla ogni giorno, e sgonfiato il colonialismo, non più di moda. Ci si vanta della Resistenza, ignorando ciò che la precede, tacendo che gli stessi uomini hanno servito il fascismo, sia pure, chissà, nolenti – e non ci si vergogna del colonialismo, senza accorgersi che è lo stesso atto, l’esaltare la Resistenza e il vergognarsi del colonialismo, soffocatore spietato di un’altra Resistenza. L’italiano rifugge dal senso di colpa (quel che ha pure impoverito il romanzo del dopoguerra).

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Inventario del possibile, non del reale.

Alessandro Spina

Gruppo MAGOG