03 Agosto 2018

Il mistero delle ultime parole di Lev Tolstoj, lo scrittore che voleva vincere la morte

Sono uno che setaccia le parole ultime, quelle sul ciglio della morte. Si ritiene, infatti, che la prossimità con la morte, di per sé, preluda a una rivelazione suprema. Non è così: di solito le parole ultime sono quelle più banali, dette in stato di demenza, non certo di grazia, riassumono la nullità adornata di ricordi dell’uomo che le ha pronunciate.

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Ad ogni modo, setaccio le parole ultime perché alta è la speranza, in fondo, che una parola riassuma magicamente una vita, che esista la formula che vince la morte, che accada quella parola capace di vincere la menzogna della grammatica.

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Le parole ultime dei grandi scrittori, di solito, hanno un potere rivelativo eccezionale. Bizzarria: uno scrittore, di solito, non ha niente da dire, scrive. Ed è raro che abbia molto da dire, agonizzante.

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Ricordo un fatto sconcertante. Moriva Tonino Guerra, nel tardo marzo del 2012. Il poeta della bellezza e dell’ottimismo, la ‘spalla’ di Federico Fellini, in punto di morte, dicevano dicesse parole alate del tipo amatevi tutti come io vi ho amati. Fatto è che Tonino Guerra odiava quasi tutti quelli che mendicavano la sua presenza e le sue parole. Un amico d’infanzia, il poeta Gianni Fucci, mi rivelò che Tonino Guerra, morendo, gli avrebbe sussurrato una cosa del tipo, ‘l’uomo è malvagio, tutto è malvagio’. Mi parve interessante. Scrissi un articolo nel giornale per cui lavoravo, allora. Mi diedero dell’avvoltoio. Lo fui.

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Il caso di Lev Tolstoj è anomalo e incommensurabile per il soggetto (il più grande romanziere di ogni tempo) e per il contesto. Tolstoj muore in fuga, a 82 anni, scappando da tutto, dalla moglie (“Ti ringrazio per i 48 anni di vita onesta che hai passati con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, proprio come io ti perdono con tutta l’anima quelli che puoi aver avuto tu verso di me”, scrive, nella più glaciale lettera coniugale mai scritta, pochi minuti prima di partire), dalle pastoie della famiglia, dai ‘tolstojani’ (i seguaci dei suoi insegnamenti di vita), dalla letteratura, da se stesso. Il 27 ottobre del 1910, alle 4 di notte, Tolstoj, il più grande romanziere di ogni tempo, con micidiale energia, scappa e pensa di poter iniziare una nuova vita.

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La prima fuga è in forma scritta, risale al 1881, si chiama Confessione. Lev Tolstoj ricapitola la sua vita e disintegra tutto: non riconosce più alcun valore alla famiglia, alla letteratura, alla Chiesa Ortodossa, perché niente ha senso, tranne la frugale semplicità dei Vangeli. Scrive della seduzione del suicidio. Il libro viene ritirato dal commercio, sarà pubblicato clandestinamente a Ginevra, lo scrittore di Guerra e pace e di Anna Karenina diventa il santone e il fuggitivo, il sessomane e il pentito.

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I diari di Tolstoj sono il referto di una implacabile inquietudine. “Stamane di nuovo discorsi e scenata”; “Sempre la solita penosa reciproca finzione”; “Il solito sentimento di pena”; “Sono sempre e sempre più oppresso da questa vita”; “Cresce il sentimento di vergogna e il bisogno di fare qualcosa”. La famiglia è un mattatoio: Tolstoj riesce a vivere solo costretto dalla colpa e dalle spine. Infine: non gli basta più niente. Fugge.

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“Solo alcuni uomini eccezionali riescono a sentire e a comprendere il linguaggio enigmatico della morte in rari istanti di estrema tensione. A Tolstoj questa comprensione fu concessa”: Lev Sestov scrive un saggio fondamentale su Lev Tolstoj, s’intitola In sede di giudizio finale ed è raccolto in un libro edito da Adelphi, Sulla bilancia di Giobbe.

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Tolstoj ha l’ossessione permanente della morte, dell’annientamento, è come un Giobbe capace di scuoiare a mani nude un lupo siberiano. In Guerra e pace interpreta le paure del soldato che flirta con la fine, con il definitivo: “Un solo passo oltre questa linea, che ricorda la linea che separa i vivi dai morti, e… l’ignoto, il dolore, la morte. E cosa c’è di là? Chi c’è di là?”. A terra, gravemente ferito, sul suolo di Austerlitz, il principe Bolkonskij sussurra, fuori dal tempo, “Com’è tutto diverso… Come sono diverse queste nuvole che corrono nel cielo alto e sconfinato. Come mai prima non lo vedevo questo cielo sublime? E come sono felice d’averlo finalmente conosciuto. Sì! tutto è vano, tutto è inganno, al di fuori di questo cielo infinito. Nulla, nulla esiste all’infuori di esso. Ma neppure esso esiste, non esiste nulla tranne il silenzio, tranne la quiete”. L’ossessione diventa spasmo ne La morte di Ivan Il’ic: “Non ci sarò più. E cosa ci sarà? Non ci sarà niente. E dove sarò, quando non ci sarò più? Davvero la morte? No, non voglio?”.

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Come si sa, la fuga di Tolstoj dura poche albe: il primo di novembre, alle ore 18.35, approda nella stazione di Astàpovo, con 38 di febbre, subito ospitato nella camera del capostazione. Astàpovo è un posto dimenticato da dio ed è lì che il dio degli uomini ha deciso che deve morire Tolstoj: oggi Astàpovo si chiama ‘Lev Tolstoj’ ed è abitata da 8mila anime. Alle 6 e 5 minuti del 7 novembre, dopo una settimana di agonia, Lev Tolstoj muore – la piccola stazione di Astàpovo, nel frattempo, è diventata il centro del mondo: vi convergono giornalisti, preti che vogliono ungere lo scrittore – che rifiuta ogni forma di conciliazione con la Chiesa di Russia – parenti, amici, seguaci, agenti della polizia segreta e la moglie Sonja, un vampiro.

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Boris Pasternak ha vent’anni quando muore Lev Tolstoj. “A casa seppi che Tolstoj, partito da Jasnaja Poljana e costretto a interrompere il viaggio per un malore, era morto nella stazione di Astàpovo, e che mio padre era stato chiamato là con un telegramma. Ci preparammo in fretta e ci dirigemmo alla stazione Pavelec per prendere un treno di notte… La terra arata riposava; balenava dai finestrini del vagone e non sapeva che lì vicino, vicinissimo, era spirato il suo ultimo gigante, colui che per lignaggio avrebbe potuto esserne il re; che avrebbe potuto essere il beniamino dei beniamini, il signore dei signori, per ricchezza d’ingegno raffinata da tutte le sottigliezze del mondo; e che pure, per amore e devozione alla terra, aveva camminato dietro all’aratro di legno, aveva indossato le vesti e la cintura dei contadini”. Pare un passaggio di consegne, di genealogia.

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Nel 2010 Barbara Alberti scrive un libro interessante, Sonata a Tolstoj. Durante la scrittura, abbiamo avuto un discreto dialogo. Soprattutto, lei mi ha fatto un dono straordinario: la fotocopia della prima pagina de Il Giornale d’Italia di lunedì 21 novembre 1910 (calendario europeo). Titolo totale: “Tolstoi è morto stamane alle 6, ad Astapovo”. Nell’articolo, Tolstoj viene descritto “come il più ardito rivoluzionario dei nostri tempi, anzi di tutti i tempi”. L’onorevole socialista Claudio Treves non è indulgente: “In Tolstoi l’anarchia ha consumato il suo più grande delitto: ha ucciso l’artista. Anna Karenina è morta quando Tolstoi scoperse la non resistenza al male e disse che la salvezza è in noi”.

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Le ultime parole dell’uomo che ha scritto le parole più risonanti hanno, davvero, l’impatto di una rivelazione divina. Secondo Il Giornale d’Italia le ultime parole pronunciate da Tolstoj sono queste: “Vi sono sulla terra migliaia di uomini che soffrono: perché volete soltanto occuparvi di me?”. Grosso modo, questa è la versione di Vladimir Pozner, autore del libro, ‘in presa diretta’, Tolstoj è morto (1935; Adelphi, 2010). “Invito tutti voi a non dimenticare che a questo mondo ci sono milioni di persone che soffrono, mentre voi vi preoccupate solamente di Lev”. Sembra il tono di un predicatore da pulpito più che quello di un agonizzante. Secondo Igor Sibaldi, autore del magnetico Album Tolstoj (Mondadori, 1994), “La sera del 6, le ultime parole di Tolstoj: ‘La verità… Io amo tanto… come loro…’”. Secondo Serena Vitale, in una edizione Garzanti di Guerra e pace: “Le sue ultime parole, raccolte dal figlio Sergej, furono: ‘Andarsene, bisogna andarsene. Andrò in qualche posto dove nessuno possa disturbarmi… Lasciatemi in pace…’”. Sergej è il primogenito di Tolstoj, ed è, particolare non irrilevante, “l’unico ad approvare la fuga del padre” (Igor Sibaldi), uno dei pochissimi che gli è accanto negli ultimi istanti (la moglie lo vedrà, mai accolta, solo da morto).

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Le ultime parole di uno scrittore come Lev Tolstoj, l’intellettuale più noto e temuto del mondo occidentale, l’uomo che ha insegnato a Gandhi la disobbedienza non violenta, sono un atto politico, un gesto prezioso, da tutelare, da divulgare a dovere. Nelle tre versioni ricalcate, due sono analoghe, corrispondono all’agiografia: Tolstoj si occupa, ancora, generosamente, degli altri, delle “milioni di persone che soffrono”, impilando un inno all’amore universale e alla ricerca della verità (già… ma quale verità?). Secondo il figlio Sergej, invece, Tolstoj pensa, alla fine, a se stesso, non gli importa di altro, continua la sua fuga, in foga, anche nel regno dei morti. (d.b.)

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