12 Settembre 2024

Sia lode all’indomabile irrequietezza di Colin Wilson, un outsider di genio

Un filosofo sopravvalutato e un romanziere sottovalutato. In estrema sintesi, questo è quello che penso di Colin Wilson. Opinione del tutto personale la mia, perché il giudizio della critica è stato diametralmente opposto: prima lo ha esaltato come pensatore e poi ha stroncato in modo sistematico i suoi romanzi. Ma andiamo con ordine.

Colin Wilson (1931-2013) è stato un saggista, un romanziere, uno studioso di psicologia criminale, di esoterismo, di archeologia, di magia, di fantascienza e l’ideatore di una sua personalissima filosofia esistenziale. Insomma, quel che si dice, per usare un eufemismo, un intellettuale poliedrico. Nato a Leicester in una famiglia proletaria, il padre era un calzolaio, abbandonò la scuola a 16 anni e si mise a fare tutta una serie di lavori più o meno precari: operaio, assistente di laboratorio, impiegato delle tasse, portiere d’ospedale, barista. In realtà, la sua vera occupazione era quella di lettore bulimico dedito a farsi una cultura enciclopedica.

Chiamato alle armi nella RAF, pensò bene di fingersi omosessuale per essere congedato. Intanto si era sposato, gli era nato un figlio e si era trasferito a Londra dove, tra un lavoro saltuario e un altro, ben presto il suo matrimonio era andato a farsi benedire. A quel punto, senza arte né parte e più squattrinato che mai, per risparmiare sull’affitto passava le notti in un sacco a pelo nel parco di Hampstead Heath, mentre di giorno si trasferiva nella sala lettura del British Museum, dove cercava di scrivere un romanzo.

Da tutto questo gran calderone in cui ribollivano la prodigiosa immaginazione e la sterminata creatività di Colin Wilson, invece di un romanzo nel 1956 venne fuori L’Outsider, un saggio filosofico che diventò immediatamente il manifesto del “neoesistenzialismo”, qualunque cosa questo termine volesse dire. Uscito nelle librerie la stessa settimana della prima teatrale di Ricorda con rabbia di John Osborne, L’Outsider consacrò, contro la stessa volontà dell’autore, Colin Wilson tra le fila degli Angry Young Men, i giovani arrabbiati della letteratura inglese. Il librò esaurì la prima tiratura di 5.000 copie in un solo giorno e fece guadagnare in un anno a Wilson più di ventimila sterline, che all’epoca erano un sacco di soldi. Nonostante non fosse un testo facile e di consumo diventò un best seller tradotto in più di trenta lingue.

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L’Outsider

Per parlare di L’Outsider bisogna andare al giorno di Natale del 1954, in una piccola stanza in affitto a Brockley, nella zona sud di Londra. Come racconta lo stesso Wilson:

«Mi colpì il fatto di essere nella posizione di molti dei miei personaggi preferiti della narrativa: Raskolnikov di Dostoevskij, Malte Laurids Brigge di Rilke, il giovane scrittore di Fame di Hamsun: solo nella mia stanza, completamente alienato dalla società. Non era una condizione di cui andassi fiero… Ma qualcosa dentro di me mi aveva spinto a scegliere l’isolamento. Iniziai a scriverne sul mio diario, cercando di individuarne la causa. Improvvisamente, capii di avere per le mani il soggetto di un libro. Capovolsi il diario e scrissi in testa alla pagina: “Note per un libro L’outsider in letteratura”».

Wilson parte dal concetto che per il 99 per cento della loro vita la maggior parte degli esseri umani si trova in uno stato non troppo lontano da quello di piccioni lobotomizzati che nulla comprendono della realtà. Consapevole che tutto ciò che lo circonda è irreale, l’outsider osserva volontariamente dall’esterno il mondo; è uno che «vede troppo e troppo lontano», in possesso di una spiccata sensibilità che lo rende consapevole del reale significato dell’esistenza e capace di trasformare la propria vita in una sorta di avventura mistica. Nel quadro di questa visione “neoesistenzialista” il compito principale dell’individuo è ritrovare la consapevolezza di se stesso, elevandosi a un livello superiore di coscienza da raggiungere attraverso quella che Wilson definisce “intensità visionaria”.

«Il problema dell’outsider equivale a una maniera di vedere il mondo che possiamo definire “pessimistica”…  L’outsider accusa i filosofi di voler comprendere il mondo senza prima avere compreso se stessi… La prima domanda di qualunque filosofia non dovrebbe essere “Che cos’è l’universo?” ma “Cosa dovremmo fare delle nostre vite?”; in altre parole il suo scopo non dovrebbe essere la creazione di un sistema intellettualmente coerente ma la salvezza dell’individuo».

Seguendo questo filo conduttore, Wilson passa in rassegna alcune personalità che secondo lui non si sono adattate alla vita ordinaria e sono cresciute fino a raggiungere una consapevolezza più intensa della realtà: pensatori, artisti e scrittori come Sartre, Camus, Hemingway, Hermann Hesse, Dostoevskij, Vaclav Nižinskij, George Bernard Shaw, Thomas Edward Lawrence, William James, Vincent van Gogh, tutti provvisti ai suoi occhi di uno spirito di ricerca a cavallo tra esperienze devastanti del nulla e momenti di intuizione suprema.

L’Outsider è scritto in uno stile accessibile a tutti ed è una lettura più che godibile, ma le conclusioni a cui arriva l’autore sono discutibili e non prive di contraddizioni, per non parlare di un certo egocentrismo di fondo da parte di Wilson, che, a mio parere, è il suo vero grande limite. Il valore autentico del libro sta nelle domande che solleva più che nelle risposte a cui arriva; di fatto con il pretesto di parlare degli altri, in realtà Wilson parla soprattutto di se stesso e quella profonda insoddisfazione esistenziale all’origine della sua ricerca è la vera perla nascosta da ricercare in tutta la sua opera. Partito con l’idea di dare vita a un sistema definito e di arrivare a una dimensione di assolutezza, il libro finisce per dare al lettore un’idea di provvisorietà. Cosa che considero più un pregio che un difetto.

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La trilogia di Gerard Sorme

I romanzi di Colin Wilson non sono altro che la versione “fiction” delle idee esposte ne L’Outsider. Molti sono stati definiti dei gialli filosofici o anche thriller metafisici. Di fatto le storie presentate, molto spesso legate a omicidi seriali a sfondo sessuale, sono un pretesto per trasmettere quei concetti sulla coscienza e sull’esperienza estrema che costituiscono la base della filosofia neoesistenzialista dell’autore. È stato lui stesso a dirlo:

«Per me la narrativa è un modo di filosofare… La filosofia può essere solo un’ombra della realtà che cerca di afferrare, ma il romanzo è del tutto più soddisfacente. Sono quasi tentato di dire che nessun filosofo è qualificato per fare il suo lavoro a meno che non sia anche un romanziere».

A partire dalla cosiddetta “Trilogia di Gerard Sorme”, costituita da Riti notturni, uscito nel 1960, L’uomo senza ombra del 1963 e Il dio del labirinto del 1970 (sia grazia a Carbonio Editore per la loro pubblicazione in Italia), tre romanzi con uno stesso protagonista, Gerard Sorme, che per molti versi è la personificazione dell’outsider presentato da Wilson nel suo primo libro. Il fil rouge che tiene legati i tre libri è il tentativo di Sorme di superare i limiti, i condizionamenti e tutti i vincoli impostigli dalla società che lo frenano e gli impediscono di capire realmente il mondo.

Riti notturni non è altro che una variazione della storia di Jack lo Squartatore in cui l’omicidio a sfondo sessuale viene presentato come un tentativo di dare un senso alla vita. Qui Gerard Sorme è un giovane intellettuale incapace di vedere il denaro e la carriera come il cardine della propria esistenza. Un po’ annoiato, sfida le convenzioni sociali e grazie a una modesta rendita può permettersi di vivere senza lavorare in una camera ammobiliata a Londra. Sogna di diventare uno scrittore e da tempo è impegnato a scrivere un romanzo del quale non arriva mai alla fine. Intanto nel quartiere di Whitechapel una serie di delitti di donne sembra evocare quelli commessi nella stessa zona un secolo prima dalla buonanima di Jack lo Squartatore. 

Coprotagonista assoluta del romanzo, una Londra effervescente che sta per lasciarsi alle spalle i grigi anni del dopoguerra per esplodere e diventare la Swinging London. Ovviamente non mancano le citazioni letterarie e filosofiche, se no che libro di Colin Wilson sarebbe. Il nucleo forte del romanzo è che l’omicidio viene visto come un mezzo estremo per fuggire dall’ordinario e dalla “morale del gregge”, accedendo a un più alto orizzonte di senso e consapevolezza.

«Uccide per lo stesso motivo per cui il santo pratica la meditazione e il poeta scrive della natura. È una fuga dalla propria personalità… Senza questa ipersensibilità, la fuga non sarebbe necessaria. Vogliono vivere la vita con maggiore intensità e l’unica porta rimasta aperta è l’omicidio».

Quello su cui si concentra Wilson è il rapporto tra la psicologia dell’assassino e quella di Sorme, che viene presentato come un’anima inquieta, solitaria, perennemente alla ricerca della folgorazione decisiva in grado di dare un senso non solo alla sua esistenza, ma a quella dell’intera umanità.

Nel secondo capitolo della trilogia, L’uomo senza ombra, c’è un Gerard Sorme più maturo, sempre alla ricerca di quel potere spirituale che giace inutilizzato in ognuno di noi e che ha bisogno di un evento scatenante per manifestarsi, la combinazione segreta per accedere a un livello superiore di consapevolezza dell’esistenza e che qui si presenta sotto le vesti dell’estasi sessuale. E allora via con la danza delle amanti; Sorme ne ha contemporaneamente due, poi anche di più, di età diverse fino a quando non ne incontra una che sembra depositaria della chiave per disvelare la realtà. A complicare le cose però scende in campo la magia occulta, altro tema che sarà sempre molto caro a Wilson, che avanza la propria candidatura a quel ruolo di consapevolezza spirituale di cui Sorme è alla ricerca.

«Suppongo che facciamo sesso in maniera troppo casuale. Ma il sesso è un atto di magia, un incantesimo di ciò che non si vede, delle forze stranamente pazienti e intelligenti dell’evoluzione».

Raccontato così come un misto di sesso e occultismo il romanzo potrebbe fare pensare a un prodotto pornografico. Oltre tutto l’editore, senza neanche consultare l’autore, ha avuto la bella pensata di utilizzare come sottotitolo Il diario sessuale di Gerard Sorme. Ma non fatevi ingannare. Il libro, tra flussi di coscienza e rimandi letterari e filosofici, è, per così dire, Colin Wilson allo stato puro.

Nell’ultimo romanzo della trilogia, Il dio del labirinto, sono passati alcuni anni dalle vicende del libro precedente e il nostro Gerard Sorme adesso è sposato, ha una figlia, è diventato uno scrittore di successo ed è andato a vivere in Irlanda, quando un editore americano gli commissiona una ricerca sulla figura di Edmond Donnelly, un libertino irlandese del Settecento presunto autore di un testo sulla deflorazione delle vergini e membro di una misteriosa Setta della Fenice. Sorme inizia il lavoro e scopre che sia la figura di Donnelly sia i temi trattati dalla setta hanno molti punti in comune con la sua teoria della sessualità e dunque il romanzo è la storia del viaggio in questo labirinto fatto di filosofia, di letteratura e di sesso.  

Anche se il protagonista non si chiama Gerard Sorme, e quindi tecnicamente non fa parte della “trilogia”, sarebbe imperdonabile non parlare di Arrivederci a Soho, il secondo romanzo di Wilson uscito nel 1961. Nonostante l’apparente leggerezza e spensieratezza, o molto più probabilmente proprio grazie a loro, il libro riesce a essere molte cose diverse nello stesso tempo: un romanzo di formazione, un racconto picaresco, un documentario d’epoca, una favola, un’indagine sulla libertà. O, più semplicemente, per stare alle parole dell’autore:

«una storia su un giovane di provincia che, come me, ha lavorato come manovale nel tentativo di evitare il lavoro d’ufficio e che va a Londra in cerca di una vita più interessante».

Presentandolo come “romanzo beat” tanto per cambiare la critica dimostrò di non avere capito niente del libro, che invece voleva essere «un deliberato contrattacco a tutta la filosofia della Beat Generation e a quella roba degli Angry Young Men», come scrisse lo stesso Wilson in una lettera al suo editore. Per gli amanti di Londra, quorum ego, il romanzo è una sorta di bengodi perché nelle sue pagine c’è la Soho di quel tempo: confusionaria, scapigliata e trasgressiva, ma soprattutto c’è l’humus senza tempo della capitale inglese; quello autentico fatto di sensazioni sospese nell’aria e di effluvi di dubbia origine. Chi ha Londra nel cuore sa bene che è una città sostanzialmente di puzze. Se non vi piacciono i cattivi odori, girate al largo e andate a farvi friggere. Spiace constatare che l’unica edizione italiana esistente di Arrivederci a Soho è un vecchio tascabile degli anni Sessanta della Lerici: possibile che non ci sia un editore italiano disposto a ripubblicare il libro?

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Colin Wilson e il suo alter ego

Inutile dire che Gerard Sorme è l’alter ego del suo creatore, che nel personaggio ha messo dentro tutto se stesso. La trilogia di Gerard Sorme è, almeno in parte, un’autobiografia di Colin Wilson in bilico tra finzione e realtà. Il protagonista di Riti notturni è un giovane aspirante scrittore poco equipaggiato per affrontare la vita, con in testa un sacco di idee e soprattutto tanta confusione. Senza dubbio è quello che amo di più perché le sue inquietudini, i suoi smarrimenti sono, o per meglio dire, sono stati anche i miei, i vostri, quelli di tutti. Poi negli altri due libri troviamo un uomo e uno scrittore ormai affermato sempre impegnato a cercare una conferma, qualunque essa sia, alle sue teorie. Nonostante il passare degli anni, continua nella ricerca dell’assoluto; la sua è una eterna rincorsa verso una piena consapevolezza. A volte ha avuto l’impressione di averla raggiunta, di riuscire quasi a toccarla, poi gli è di nuovo sfuggita.

Il rapporto tra Colin Wilson e Gerard Sorme ricorda molto da vicino quello tra François Truffaut e Antoine Doinel, il personaggio alter ego del regista francese che compare in cinque dei suoi film. Anche qui passando da un libro all’altro troviamo un protagonista in continua trasformazione, ma allo stesso tempo sempre molto simile a se stesso. Le maggiori similitudini sono senza dubbio con Baci rubati, film considerato minore dallo stesso Truffaut, ma che da sempre nel cuor mi sta. Quelle insicurezze, quelle fughe improvvise, quelle relazioni con tante donne diverse, quel coming of age di Sorme assomigliano tanto alle insicurezze, alle fughe, alle relazioni, al coming of age di Doinel. In entrambi i casi alla fine ne viene fuori un misto tanto inestricabile quanto affascinante tra il personaggio e il suo creatore. Anche qui è d’obbligo citare Arrivederci a Soho, il cui protagonista in realtà si chiama Harry Preston, ma a tutti gli effetti è l’alter ego di Wilson elevato alla massima potenza.

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Un autore senza confini

Colin Wilson resta uno scrittore che non si finisce mai di leggere; allergico alle definizioni e alle classificazioni definitive. Quando all’inizio hanno provato ad appiccicargli addosso un’etichetta ne è venuta fuori una mezza catastrofe. Sì, perché non c’è dubbio che Wilson è stato vittima del successo travolgente di L’Outsider e del conseguente tritacarne mediatico, entrambi tanto improvvisi quanto fuori misura. Le recensioni entusiaste, le vendite stratosferiche e tutto il grande baccano sollevato dal libro per un breve abbagliante periodo lo hanno trasformato, agli occhi dei critici e anche ai suoi, nel pensatore in grado di portare l’umanità fuori dalle secche in cui era rimasta impantanata all’indomani della Seconda guerra mondiale, ricordiamo che il libro uscì nel 1956. Era un’altra epoca, ma oggi sappiamo bene come vanno a finire queste cose.

I media ben presto si stancarono di seguire le elucubrazioni mentali di Wilson e preferirono concentrarsi sulla sua vita privata, che al tempo era piuttosto agitata tra una moglie da cui era separato e una nuova fidanzata il cui padre, confondendo gli appunti di Wilson per un romanzo con i suoi diari privati, lo minacciò in pubblico brandendo una frusta da cavallo al grido di: «Sei un omosessuale con sei amanti». D’altra parte, anche lui ci mise del suo. Del tutto impreparato al successo e alla fama, si mosse come un elefante in una cristalleria. Basti dire che pensò bene di passare al “Daily Mail” i propri diari, quelli veri, così tutti scoprirono che amava autocelebrarsi come «il più grande genio letterario del nostro secolo». Insomma, un disastro.

Al culmine di questo grande bailamme, il suo editore saggiamente gli suggerì di andare via da Londra per un po’ di tempo. Wilson accettò il consiglio e si trasferì in un paesino della Cornovaglia dove poi ha passato il resto della vita insieme alla seconda moglie Joy e ai loro tre figli, circondato da trentamila libri e diecimila dischi di musica classica e jazz. Una sorta di esilio volontario se vogliamo, ma tutt’altro che sterile, dal momento che la sua bibliografia è sterminata e comprende oltre centottanta libri che spaziano tra i generi più diversi, dalla filosofia all’occultismo, dal giallo all’horror, dalla psicologia alla fantascienza, dall’archeologia alla musica classica. 

L’appassionata ricerca sui mille temi che gli stavano a cuore è andata avanti fino alla fine dei suoi giorni, ma i critici ormai lo avevano abbandonato. Lo accusavano di scarsa accuratezza a causa della formazione da autodidatta, gli rimproveravano una superficialità frutto dell’eccessiva eterogeneità dei temi trattati. La verità è che era semplicemente passato di moda.

In ogni caso, checché ne abbiano mai pensato la critica e lui stesso, Wilson non aveva la stoffa del filosofo. Per esserlo gli mancava una adeguata sistematicità di pensiero, si contraddiceva, tendeva a semplificare e per avvalorare le proprie tesi non si faceva scrupolo di deformare la realtà. Poco male, niente di grave. Il Colin Wilson che è rimasto e che in tanti continuiamo a leggere e amare è quello dei suoi romanzi: uno con le idee poco chiare, che confonde spesso la realtà con le apparenze, che se ne va in giro per una meravigliosa Londra in bianco e nero con la testa fra le nuvole. Uno che non ha né certezze né sicurezze, non tanto perché non le trova, quanto semmai perché non le cerca: non saprebbe che farsene. Uno che impara poco dagli intoppi, dalle delusioni, dalle sconfitte e dalle mille difficoltà della vita e continua a correre di qua e di là in cerca del grimaldello che gli permetta di aprire lo scrigno che custodisce il segreto dell’esistenza. Sono proprio questi suoi apparenti difetti che lo rendono affascinante ai nostri occhi. La sua indomabile irrequietezza e la sua eterna insoddisfazione hanno raggiunto per sempre il nostro cuore. Ed è già tutto.

Silvano Calzini

Gruppo MAGOG