20 Ottobre 2020

“E mi domando cosa significhi vivere”. Federigo Tozzi, lo scrittore dell’esasperata sensibilità

Uno scrittore da centellinare pagina per pagina, riga per riga, parola per parola. Solo così è possibile apprezzarlo a pieno e coglierne tutte le sfumature. Mi riferisco a Federigo Tozzi (1883-1920), padre, insieme a Svevo e Pirandello, della narrativa italiana del Novecento. La stessa critica ha faticato non poco a riconoscerne la grandezza, scambiandolo a lungo per un verista regionale, mentre in realtà è un autore la cui opera esprime un forte disagio interiore, proiezione del malessere esistenziale dello stesso Tozzi, e che si collega al filo conduttore della migliore letteratura del secolo scorso. Il mondo che descrive nelle sue pagine viene da una sofferta esperienza personale. La sua è dunque un’opera fortemente autobiografica, ma nel senso più nobile; uno scavo dentro l’incapacità di vivere e di essere come tutti gli altri più che la storia del vissuto, il diario di uno sfasamento. In estrema sintesi, l’autobiografia di un’anima.

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Cresciuto in un ambiente ostile, alle prese con un padre-padrone rozzo e dispotico, lontanissimo dalla sua sensibilità, Tozzi per molti versi ricorda Kafka in questo mai risolto conflitto con la figura paterna. Uno scontro che ritroviamo nel suo romanzo più noto, Con gli occhi chiusi, scritto nel 1913, dove assistiamo al confronto aspro tra un padre che non vede nulla oltre gli interessi materiali e un figlio che invece vede fin troppo e proprio per questo preferisce tenere gli occhi chiusi e concentrarsi sullo sguardo interiore.

Il titolo del libro allude anche alla solitudine spirituale di Pietro, il protagonista, mai in sintonia con la vita reale e incapace di comunicare con Ghisola, la ragazza che ama. L’immagine che Tozzi ci dà di Pietro, «inutile agli interessi stava bene sul letto con gli occhi chiusi», richiama una cecità fisica che è soprattutto una incapacità spirituale di vedere. Come fosse accecato dalla sua esasperata sensibilità, infatti Pietro non riesce a vedere Ghisola come realmente è, molto diversa da lui, ma la idealizza e finisce per correre incontro a un’amara disillusione. La sua incapacità di vivere il rapporto amoroso così come fanno tutti lo avvicina a un altro grande personaggio della letteratura italiana: quell’Emilio Brentani raccontato da Svevo in Senilità.

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Anche gli altri protagonisti dei romanzi di Tozzi, da Il podere a Tre croci, hanno tutti smarrito il senso dalla vita e finiscono per perdersi nella loro solitudine. Personalità scisse, da un lato provano il sottile piacere di autoescludersi e dall’altro soffrono per la loro diversità emozionale. Sono personaggi che si sono lasciati alle spalle le sicurezze dei grandi romanzieri naturalisti e veristi dell’Ottocento e aprono la nuova stagione delle personalità andate in frantumi che hanno perso il senso della realtà, tutte concentrate nello scrutare la propria anima. Lo sguardo di Tozzi non è più rivolto all’esterno, ma è concentrato sull’interiorità. È lui stesso a dirlo: «Ai più interessa un omicidio o un suicidio; ma è egualmente interessante, se non di più, anche l’intuizione, quindi il racconto, di un qualsiasi misterioso atto nostro; come potrebbe essere quello, per esempio, di un uomo che a un certo punto della sua strada si sofferma per raccogliere un sasso che vede, e poi prosegue la sua passeggiata».

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Tutta la narrativa tozziana è percorsa da questo filo conduttore. Anche in Ricordi di un impiegato incontriamo una di queste figure, Leopoldo, costretto a vivere in un ambiente, prima familiare e poi di lavoro, in cui non si ritrova. Tozzi descrive così il suo disagio: «Tutte le volte che mi s’avvicina un uomo che io non conosco, ne ho paura; qualche volta anche se si tratta di un amico. Non ho paura propri di lui, ma delle conseguenze che ne posso derivare al mio spirito quand’egli cominci a parlare… E mi domando cosa significhi vivere».

E quindi anche lui finisce per rinchiudersi dentro di sé, nella profondità del proprio animo. Per capirlo e amarlo bisogna seguire i suoi occhi. Più di una volta lo ritroviamo fermo a osservare qualche particolare in apparenza di nessuna importanza, che però spalanca al lettore l’accesso alle sensazioni più segrete di Leopoldo. Il suo sguardo va al di là della banale realtà e supera i limiti dell’immaginabile. Brevi istanti magici, parenti delle intermittenze del cuore di Marcel Proust, e molto vicini anche a quelle figure solitarie e immobili presenti in tanti quadri di Edward Hopper. Sta qui la grandezza più segreta di Tozzi.

Silvano Calzini

*In copertina: Edward Hopper, “Mattina a Cape Cod”, 1950

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