18 Agosto 2020

“Io non dico se non il mio schifo per il linguaggio della tenerezza, quei filamenti viola, quel sangue annacquato”. Le prose di Alejandra Pizarnik

Non è la vocazione di un prologo contraddire o demoralizzare il lettore. Tuttavia sarebbe disonesto e persino scortese non porre di fronte alla prosa di Alejandra Pizarnik una avvertenza: voi che entrate in questo universo dovrete abbandonare i luoghi comuni che accompagnano il nome di questa scrittrice. Sono gli stessi, in effetti, che fanno da zavorra alla ricezione delle opere di altre scrittrici: pazzia e suicidio. Nel caso della Pizarnik, la leggenda della sua morte ha finito col produrre una sorta di “racconto della passione” che la ricopre col velo di un Cristo femminile. Questo racconto reitera sempre la questione del mal de vivre della scrittrice argentina, trasponendola in chiave di suicidio. Sono gravi le conseguenze di questa patologia consistente nel “legare” in questo modo la vita e l’opera. La malinconia, la solitudine e l’isolamento, quando emergono nella produzione scritta di una donna, sono tratti che ammettono di essere interpretati come la prova di uno squilibrio psichico di tale natura da condurre la loro autrice al suicidio o alla pazzia. Se lo scrittore è uomo, invece, e la sua opera o vita o entrambe manifestano una struttura simile – l’elenco è lungo, da Hölderlin e Rimbaud a Kafka e Beckett –, tale struttura viene accolta solitamente come una conferma dell’atteggiamento visionario dell’autore. È inutile dire che le deviazioni o più semplicemente le abitudini di uno scrittore sono argomentazioni melodrammatiche, non criteri di lettura dell’opera letteraria. La morte della Pizarnik, si sia suicidata o meno, è così rilevante per la comprensione della sua produzione quanto il gas e il forno di quel gelido appartamento londinese per capire le opere di Sylvia Plath.

Alejandra Pizarnik cercava, come lei stessa confessa in uno dei testi raccolti in questo volume, una “scrittura densa e piena di pericoli a causa della sua eccessiva diafanità”. E del fatto che ci riuscì pienamente fa fede la sua opera poetica. Questa scrittura è fonte di incessante perplessità: come può sostenere così tanti registri senza minare gravemente unità e coerenza? Questo fatto, innanzitutto, è sorprendente, ma si tratta di una impressione superficiale che una lettura più accorta si appresta a dissipare e che svanisce dopo aver letto i testi in prosa raccolti qui. Come le poesie, anche la prosa della Pizarnik è attraversata dalla stessa esaltazione riconosciuta da Anna Achmatova nella scrittura poetica di Marina Cvetaeva; una esaltazione che innalza le parole e che fa sì che, all’avviare un testo – poesia o prosa che sia – il piano in cui si colloca la voce sia lo stesso che raggiungono solitamente i grandi poeti quando concludono i propri.

Risulta opportuno sottolineare due aspetti della prosa della Pizarnik. I racconti, in primo luogo, costellati da temi e figure ricorrenti nella sua opera poetica: la seduzione e la nostalgia impossibili, la tentazione del silenzio, la scrittura concepita come uno spazio cerimoniale dove esaltare la vita, la libertà e la morte, l’infanzia e i suoi miraggi, gli specchi e il loro doppio minaccioso… Non pochi di questi racconti si inseriscono in una tradizione canonica dell’ambito letterario francese particolarmente caro all’autrice e che vede come figure di spicco, nel suo caso, Lautréamont, Henri Michaux e Georges Bataille. Autori ammirati dalla Pizarnik, a cui vanno aggiunti André Pieyre de Mandiargues che conobbe personalmente. Risulta meno rilevante, in questo senso, l’estensione dei racconti rispetto alla concentrazione in essi di un lavoro di scrittura che cerca di esaltare i poteri del linguaggio. È questo, e non la morte o la pazzia o il suicidio, il grande motore dell’opera della Pizarnik… Dopo aver letto questi testi, si comprende meglio la straordinaria complicità che esisteva tra la Pizarnik e Cortázar. Aldilà della loro “opera seria”, che costituisce in entrambi i casi una delle esperienze più piene della lingua spagnola, sono i cronopios indiscutibili della nostra tradizione letteraria.

Ana Nuño

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Contro  

Io cerco di evocare la pioggia o il pianto. Ostacolo delle cose che non vogliono farsi strada nella disperazione ingenua. Questa notte voglio essere acqua, che tu sia acqua, che le cose scivolino come il fumo, imitandolo, dando segnali ultimi, grigi, freddi. Parole nella mia gola. Sigilli ingoiabili. Le parole non sono bevute dal vento, è una bugia dire che le parole sono polvere, magari lo fossero, così io, adesso, non farei suppliche da pazza imminente che sogna subite scomparse, migrazioni, invisibilità. Il sapore delle parole, quel sapore seme vecchio, ventre vecchio, osso che disorienta, animale bagnato da un’acqua nera (l’amore mi obbliga alle smorfie più atroci davanti allo specchio). Io non soffro, io non dico se non il mio schifo per il linguaggio della tenerezza, quei filamenti viola, quel sangue annacquato. Le cose non celano niente, le cose sono cose, e se qualcuno si avvicina adesso, e mi dice pane al pane e vino al vino mi metterò a ululare e dare testate contro ogni muro infame e sordo di questo mondo. Mondo tangibile, macchine prostituitesi, mondo usufruibile. E i cani mi offendono con i loro peli offerti, leccando lentamente e lasciando la loro saliva sugli alberi che mi fanno impazzire. (1961)

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Un viso

Un viso di fronte ai tuoi occhi che lo guardano e per piacere: che non ci sia un guardare senza vedere. Quando guardi il suo viso – per passione, per necessità come quella di respirare – succede, e di questo te ne rendi conto molto più tardi, che neppure lo guardi. Ma se lo hai guardato, se lo hai bevuto come solo può e sa fare una assetata come te. Adesso sei in strada; ti allontani invasa da un viso che hai guardato senza sosta ma all’improvviso, fluttuante e incredula, ti arresti perché ti sei appena chiesto se hai visto il suo viso. Combattere con la scomparsa è arduo. Cerca urgentemente in tutte le tue memorie perché, grazie a una simmetrica ripetizione di esperienze, sai che se non te lo ricordi pochi istanti dopo averlo guardato questo oblio significherà i più desolanti giorni di ricerca.

Fino a che lo rivedrai di fronte al tuo e con rinnovata speranza lo guarderai un’altra volta, decisa, questa volta, a guardarlo sul serio, davvero anche questo ti risulta impossibile poiché è la condizione dell’amore che hai nei suoi confronti.

Parigi, maggio 1962

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Le unioni possibili

La disseminata rosa imprime urla nella neve. Crollo della notte, crollo del fiume, crollo del giorno. È la notte, amore mio, la notte caliginosa e smarrita che ribolle le sue consuetudini nella immonda grotta del sacrosanto presente. Meravigliosa ira del risveglio nella astrazione magica di un linguaggio inaccettabile. Ira dell’estate. Mondo a pane e acqua. Solo la pioggia si rivolge a noi con la sua offerta inimmaginabile. La pioggia alla fine parla e dice.

Meticolosa iniziazione dell’abitudine. Irritati cristalli nei giardini graffiati dalla pioggia. Il possesso del preteso passato, del popolo incandescente che fiammeggia nella notte invisibile. Il sesso e le sue virtù di ossidiana, la sua acqua fiammante che si imbatte contro gli orologi. Amore mio, la singolare quiete dei tuoi occhi smarriti, la benevolenza dei grandi sentieri che accolgono morti e more selvatiche e tante sostanze vagabonde o addormentate come il mio desiderio di incendiare questa rosa pietrificata che infligge aromi di infanzia a una creatura ostile alla sua memoria più vecchia. Maledizioni eiaculate in piena estate, guardando il cielo, come una cagna, per ripudiare l’influsso sordido delle voci vetrose che si schiantano nel mio udito come una onda in una conchiglia.

Sia visto il mio corpo, sia affondata la sua luce adolescente nella tua accoglienza notturna, sotto ondate di tremore precoce, sotto ali di timore tardivo. Sia visto il mio sesso e che ci siano suoni di creature edeniche che suppliscano il pane e l’acqua che non ci danno.

Si chiude una grotta? Giunge per lei una strana notte di fulgori che decide di custodire gelosamente? Si chiude un paesaggio? Quale gesto palpita nella decisione di una clausura? Chi inventò la tomba come simbolo e realtà di ciò che è ovvio?

Volti vuoti per le strade, alberi senza foglie, carte nei fossati: scrittura della città. E cosa farò se tutto questo lo so a memoria senza averlo mai capito? Ripetono le parole di sempre, erigono le stesse parole, le evaporano, le dissanguano. Non voglio sapere. Non voglio sapere di sapere. Allora chiudere la memoria: i suoi giardini mentali, il suo canto di chi veglia all’alba. Il mio corpo e il tuo finendo, ricominciando; ricominciando cosa? Trepidazione di immagini, frenesia di sostanze viscose, notti cannibali attorno al mio cadavere, permissione di non vedermi per qualche ora, elevato vegliare affinché niente e nessuno si avvicini. Amore mio, nelle mani e negli occhi e nel sesso ribolle la più fiera nostalgia degli angeli, nei gemiti e nelle urla c’è un volere l’altro che non è altro, che non è nulla…

*

Diffidenza

Mamma ci parlava di un bianco bosco della Russia: “… e facevamo pupazzi di neve e gli mettevamo i cappelli che rubavamo al bisnonno…”.

Io la guardavo con diffidenza. Che cos’era la neve? Perché facevano pupazzi? E prima di tutto, che cosa significa un bisnonno? (1965)

Alejandra Pizarnik

*i testi sono tratti da: Alejandra Pizarnik, “Prosa completa”, Lumen, 2002 (con l’introduzione di Ana Nuño); la traduzione e la cura sono di Mercedes Ariza

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