11 Luglio 2022

“O mondo, plumbeo idolo...”. Nikolaj Zabolotskij, poeta sovietico (in stato di arresto)

Anche Boris Pasternak parla di lui, inserendolo nella schiera dei “buoni poeti” della Russia sovietica, appena sotto il cerchio delle stelle fisse, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Aleksandr Blok, Vladimir Majakovskij. Quando Pasternak scrive la sua Autobiografia – dominata da una severa nobiltà, di chi cammina, con grazia, sul cornicione della Storia, convertendo il vetro in verità –, nel 1957, Nikolaj Zabolotskij aveva ormai mutato il proprio ritmo lirico, modulandolo sui crismi dei nuovi tempi, grigi, tra paludi: sarebbe morto l’anno dopo, a Mosca, in ottobre. È vero, in vecchiaia Zabolotskij sembra ritrarsi dal fragore poetico, dalle pirotecnie verbali, entro una norma più cauta, paesaggistica, à la Pasternak. Eppure, in una poesia del 1956, Il cardo, il poeta riprende un topos della letteratura russa – Chadži-Murat, autentico capolavoro di Lev Tolstoj, si apre proprio sull’immagine indelebile del cardo, che diventa il cardine della storia: “Mi stavo incamminando verso casa, quando scorsi un cardo d’un rosso vivo, in piena fioritura…” – cavando meraviglie:

“Mi hanno portato un mazzo di cardi
e l’han messo sul tavolo, ed ecco
ho davanti un incendio, un subbuglio,
un girotondo vermiglio di fuochi.
Queste stelle dalle punte aguzze,
questi spruzzi d’aurora boreale
squillano e gemono come sonagli,
accendendo di dentro i loro fanali.
È un’immagine dell’universo,
organismo intrecciato di raggi,
ardore d’una lotta incompiuta,
sfolgorio di spade levate…”.

Nato a Kazan’ nell’aprile del 1903, figlio di un agronomo, cresciuto a Leningrado, Zabolotskij, “uno dei più dotati e brillanti poeti russi delle ultime generazioni” (così una nota di Anjuta Maver, del 1961), è noto, soprattutto, per aver costruito, insieme a Daniil Charmes e ad Aleksandr I. Vvedenskij, “OBĖRIU”, l’ultima autentica avanguardia letteraria sovietica, prima che la Rivoluzione si accartocciasse in coercizione. A differenza dei suoi compagni di via, Zabolotskij – il più talentuoso, il più poeta – riuscì a sopravvivere all’orda staliniana e alla guerra; dichiarato nemico del popolo dal 1934, scomparve letteralmente dalla letteratura di allora: imprigionato durante le retate del ’37, spedito nei Gulag, ne uscì dieci anni dopo, minato nel corpo, non nel cuore.

In Italia il nome di Nikolaj Zabolotskij è pressoché ignoto: l’anno scorso Del Vecchio Editore – lode a loro – ha proposto la seconda raccolta del poeta russo, Il trionfo dell’agricoltura. Che strano. Eppure, Zabolotskij ha goduto del rispetto – prossimo all’esaltazione – di due tra i più autorevoli slavisti italiani: Angelo Maria Ripellino e Vittorio Strada. Il primo dedica a Zabolotskij, poeta che occupa “un posto particolare nella storia della poesia sovietica”, parole decisive nella Poesia russa del ’900 – autentico tesoro, anche per aristocrazia di stile – per identificarne l’estro lirico:

“Zabolotskij ci introduce in un mondo bislacco e stralunato. Spostando le cose dalle loro superfici consuete, imbrogliando i legami concettuali, egli deforma la realtà in apparenze che rassomigliano ai riflessi di specchi mostruosi. E le dimensioni nella sua scrittura sono così storpiate che al lettore sembra di attraversare come un gigante le vie di quartieri minuscoli oppure di ridursi alla maniera d’un nano dinanzi alle cose che crescono, madornali… Le sue liriche, come dettate dalla fantasia d’un bambino, procedono con un assiduo mutare dei tempi verbali, affastellando le cose l’una sull’altra senza correlazione. Così incollate e sovrapposte, le scene che ne risultano hanno spesso l’aspetto delle pitture dei ‘naïfs’ o, per restare in Russia, del vecchio ‘lubòk’ popolare”.

Insomma, poesia che fatica ad attecchire su questi schermi, italici, dominati, liricamente, da sentimenti ombelicali, emozioni smunte, ironia a richiesta, in ogni caso, ‘che si capisca’.

In particolare, Ripellino accenna a Colonne di piombo (“Stolbtsy”), opera prima di Zabolotskij, pubblicata a Leningrado nel 1929, “con la tiratura minuscola di 1200 esemplari”. Quel libro

“conteneva una poesia strana. Sembrava un frutto fuori stagione. Pareva destinato a passare inosservato in quella temperie in cui tante cose ben gravi venivano a maturazione. Invece quel piccolo libro ebbe numerose recensioni e fu riconosciuto il fatto più importante di quell’annata poetica. E non poteva essere altrimenti. Perché Stolbtsy, che segnavano l’atto di nascita di un nuovo poeta, erano legati da fili sottili, pur nella loro solitaria singolarità, con la realtà dell’epoca e del paese dove erano usciti alla luce”.

Zabolotskij aveva 25 anni, diventò il pioniere di una poesia allegramente funerea, scandita dal candore dei cinici, dei bimbi malvagi; Vladimir Majakovskij si sarebbe sparato al cuore l’anno dopo. Zabolotskij aveva esordito sul rasoio dell’abisso.

Colonne di piombo uscì in Italia per Editori Riuniti, nel 1962, per cura di Vittorio Strada (da cui abbiamo estrapolato il brano precedente, dall’introduzione, miliare). Il libro uscì nella collana “Scrittori sovietici”, che coniugava autentici capolavori – le poesie di Sergej Esenin, L’anno 1905 di Boris Pasternak, i Racconti di Odessa di Isaak Babel – a un incessante lavoro di ricerca (I vivi e i morti di Konstantin Simonov, Vele scarlatte di Aleksandr Grin, Antimondi di Andrej Vozenesenskij, per dire di alcuni). La collana nacque con “l’esigenza di conoscere organicamente la letteratura maturata sul terreno storico dell’esperienza socialista… rifiutando ogni facile schema interpretativo”. Impensabile, oggi, accordare a una impresa editoriale le virtù della visione e la perizia della ricerca, tesi come siamo alle statistiche, alle classifiche, all’intrattenimento – e semmai al solito torbido accademismo.

In una delle poesie più belle, il poeta è nel bosco, assiste al respiro dei suoi maestri – “la voce di Puškin… gli uccelli di Chlèbnikov” – s’immerge nell’orda di spettri:

“Ed io – vivo – vagavo sopra i campi,
entravo senza paura nel bosco,
e i pensieri dei morti in diafane colonne
intorno a me si levavano ai cieli”.

Il poeta volge le spalle alla città, s’intride di eterno, panteismo spiccio, comunione dei geni:

“E tutte le esistenze, tutti i popoli
serbavano una vita imperitura,
ed io stesso ero non figlio della natura
ma suo pensiero! Suo fluttuante intelletto!”.

È il 1937 e Zabolotskij prevede, forse, la vita fatua, in fuga, da afferrare alla gola: l’epoca fatiscente lo riconnetterà al corpo, arrestandolo, poco dopo.

Nikolaj Zabolotskij (1903-1958)

**

Il canale di cinta

Alla mia finestra, su tutto il quartiere,
regna il canale di cinta.

I carrettieri come padiscià,
avviluppati i cavalli nel rame delle placche,
incedono paludati nelle camicie
col balordo sussiego di sciattoni.   
Attorno si allineano le birrerie,
in esse seggono i carrettieri
e nelle finestre una folla di musi equini
guarda, ciondolando presso il palo,
nelle finestre un consesso di musi equini
guarda, con gli occhi strabuzzati.
E dietro al consesso di quei musi,
scorre la folla lunga mezza versta,
gridano i ciechi in sfolgorante coro,
protendendo le dita d’acciaio.
Un rigattiere lancia brache in aria,
batte le mani, canta come un gerfalco:
il rigattiere è il signore di tutte le brache,
a lui è soggetto il corso dei mondi,
a lui è soggetto il moto delle folle,
il roteare delle brache stucca la folla,
ed essa, dimentica del suo onore,
se ne sta tutta languidezza e fascino,
incapace di staccare gli occhi!
Urla rigattiere, fischia come un mostro,
scaglia le brache sotto le nuvole!
Ma davanti al popolo compatto
si muove un’altra fiumana:
uno porta su un piatto uno stivale,
un altro canta “cagnolino barbone”,
un terzo, terribile e vermiglio,
suona il tamburo su una pentola.
Non si ha più la forza di resistere:
la folla è prigioniera, la folla è assoggettata,
la folla va come un sonnambulo,
protendendo i palmi delle mani.

Sono neri attorno i castelli delle fabbriche,
è alto sotto una nube un fischio di sirena,
e di nuovo camminano i mustanghi
su un colonnato di gambe rigogliose.
Urlano lamentose le carrette,
il fango esploso schizza via,
e sul canale dormono gli storpi,
appoggiandosi a bottiglie vuote.

1928

*

Passeggiata

Gli animali non hanno nome.
Chi gli ha ordinato di nominarsi?
Una sofferenza uniforme
è la loro sorte invisibile.
Discorrendo con la natura, il toro
si allontana nei prati,
sopra gli occhi magnifici
stanno le alte corna.
Ragazza bruttina, la roggia
giace tra le erbe, quieta,
ora ride ora singhiozza,
con i piedi nascosti sotterra.
Perché piange? Perché si strugge?
Perché mai è ammalata?
Tutta la natura ha sorriso,
come un’alta prigione.
Ogni piccolo fiorellino
agita la piccola mano.
Il toro versa bigie lacrime
e sta, opulento, a pena vivo.
E attraverso l’aria deserta
s’aggira leggero un uccello,
per una canzone antica
affatica l’esile gola.
Gli brillano innanzi le acque,
ondeggia la grande selva,
e ride l’intera natura,
morendo ad ogni istante.

1929

*Qui si replicano due poesie da: Nikolaj Zabolotskij, “Colonne di piombo”, Editori Riuniti 1962, a cura di Vittorio Strada

*

Gli Ivanòv

Stanno in piedi gli alberi burocratici
quasi penetrando in ogni casa;
è finito da tempo il loro bivacco da nomadi,
vivono fra i cancelli, sotto chiave.
Tumultua la calca dei viali,
fortemente compressa dalle case.

Ma ecco, tutte le poste si spalancano,
ovunque passa un bisbiglio:
vanno all’ufficio gli Ivanòv
con le solite brache e le solite scarpe.
Vuote tranvie levigate
porgono loro le proprie panche;
gli eroi salgono, acquistano
fragili assicelle di biglietti,
seggono e le tengono davanti,
senza infatuarsi del rapido viaggio.

E il mondo serrato da piatte case
sta come un mare dinanzi a noi,
mugghiano le onde dei selciati
e attraverso le pale delle ruote
semplici sirene si dimenano
con gomitoli di capelli ranciati.
Altre, vestite da sguardinelle,
non possono stare rinchiuse:
con le gambe facendo balletti,
camminano.
                        Ma dove andare,
a chi portare la boccuccia vermiglia,
a chi dire quest’oggi “micino”,
presso quale letto buttare le calosce,
strappando l’automatico sul petto?
Che non ci sia dove andare?

O mondo, plumbeo idolo mio,
sferza con larghe ondate
e concedi riposo a codeste sgualdrine
sul crocicchio a gambe in aria!
Dorme quest’oggi il mondo minaccioso,
nelle case calma e pace.
Vi troverò davvero un angolino,
dove mi aspetti la mia fidanzata,
dove le sedie siano messe in fila,
dove la credenza somigli a un Ararat,
fasciato da un merlettino di carta,
dove sia un tavolo e il samovàr
dalla lorìca di ferro a tre piani
brontoli come un generale casalingo?

O mondo, avvolgiti in un solo quartiere,
in un solo selciato infranto,
in un solo fondaco sparso di sputi,
in una sola topaia,
ma sii pronto alle armi:
un Ivanòv bacia una sgualdrina!

1928

*Questa poesia è proposta nella traduzione di Angelo Maria Ripellino

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