Che il cognome sia mutilo non è per felicitare la facilità – è ispirazione, liberazione, una soglia con i rasoi. Anna Świrczynska, nata a Varsavia nel 1909, diede al cognome natura di lama: si faceva chiamare Anna Swir. Da qui, a divinare la topografia del destino, la scrittura che desta spilli e frantumi di vetro, il cristallino della crudeltà, una nitidezza perentoria, a leghe di tremori. Anna Swir, si direbbe, conosce l’arte di dividere i nodi: il verso che ha sentore di arcana norma, che non ricama intorno alle cose perentorie – azzanna, ammazza. La legge del taglione è impressa nelle sue poesie, che gli svagati dicono ‘femministe’ – senz’altro, ‘femminili’ –, cioè: la passione che lascia senza braccia, la sequela degli abbandoni, la purezza che significa lasciare gli amanti in un sudario di irrichieste pretese.
Fu povera, Anna Swir. Padre pittore in disarmo, madre bellissima, votata alla privazione. A Varsavia, studiò letteratura polacca medioevale; agli anni Trenta risalgono i primi esercizi lirici, nel 1936 è pubblico il primo libro, Wiersze i proza. Segue, l’impegno nella resistenza polacca, l’impiego come cameriera e infermiera, lo sfoggio di sé nelle riviste clandestine. Nel 1944 rischia di essere giustiziata, per attività sovversiva, antinazi: all’ultimo, ha salva la vita. Dopo la guerra – che “mi ha reso un’altra donna” – Anna si sposta a Cracovia, scrive libri per bambini, si impiega come editor, adatta testi per il teatro locale. Arrangia la scrittura ai tempi. Il matrimonio, quarantenne, con l’attore Jan Adamski le procurò una svariata gamma di infelicità e una figlia, battezzata, tra l’altro, dal futuro papa Wojtyla. “Il matrimonio durò poco – ebbe svariati amanti”, sintetizza Czesław Miłosz, affascinato dalla figura e dalla poesia di Anna Swir, tra le più importanti del Novecento polacco, a suo avviso. Il culto del corpo come frontaliere dello spirito è parte della poesia di Anna Swir, che alla potenza carnale lascia conseguire l’esangue editto della solitudine.
In Italia, Anna Świrczynska ha trovato poco spazio: Paolo Statuti ha tradotto una selezione dei suoi testi come Sono nata una seconda volta (Joker, 2017), mentre Felice come la coda di un cane è la proposta di Andrea Ceccherelli, Marcin Wyrembelski e Claudia Caselli (La Parlesia, 2019). Nel mondo inglese è stato Czesław Miłosz, Nobel per la letteratura nel 1980, a tradurre Anna Swir: Happy as a Dog’s Tail esce nel 1985, la poetessa era morta l’anno prima, di cancro. Nel 1996 è pubblica, invece, l’antologia Talking to My Body. “La carne è la sua materia”, ha scritto Miłosz, “la carne in amore, estatica, colta nel dolore, resa alla paura, carne che trema per la solitudine, resa al parto, vista mentre riposa, mentre avverte lo scorrere del tempo o la contrazione del tempo nel puro istante”.
Più che il famelico, è la sete a definire le poesie di Anna Swir. Che l’anima, infine, sfugga finalmente dal corpo, come un rivolo d’acqua, un belato di vento, da un foro sulla punta del piede. Che se ne vada, senza debiti, come un amante senza giacca.
***
Come la coda di un cane
Felici come una cosa di scarsa importanza
liberi come una cosa che non importa a nessuno.
Come ciò che non ha premio
e a cui nessuno dà valore.
Come chi è da tutti deriso
e che della derisione ride.
Come una risata senza motivo.
Come l’urlo che urla per sé solo.
Felici per ciò che non accade
per tutto ciò che accade.
Felici
come la coda di un cane.
*
Sbattere la testa contro il muro
Come un bambino
ho messo il dito nel fuoco
per diventare
santa.
Come gli adolescenti
ogni giorno sbattevo la testa contro il muro.
Da ragazza
sono scappata dalla finestra della
soffitta, sul tetto:
sono saltata giù.
Da donna:
pidocchi lungo il corpo
scoppiettavano mentre stiravo la maglia.
Ho atteso sessanta minuti
per l’esecuzione.
Sei anni è durata la fame.
Poi ho messo al mondo un figlio
mi si è intagliato addosso
senza farmi dormire.
Un fulmine mi ha ucciso
tre volte e sono risorta per tre volte
senza l’aiuto di nessuno.
Dopo tre resurrezioni
ora riposo.
*
Verginità
Devi essere coraggioso per sopravvivere
almeno un giorno. Ciò che resta
non è altro che il desiderio – il vero prezioso.
Brama
che purifica come il volo, forgia come la fatica
modella l’anima
come l’opera
rifinisce la pancia.
È come un atleta, come un maratoneta
che nessuno farà mai
smettere di correre. Ed è questo
a permettergli obbedienza e durata.
Il desiderio
è il pasto dei forti.
È pari a una finestra
su un’alta torre: vi soffia
il più potente vento.
Il desiderio
verginità della gioia.
*
Io e la mia Persona
Ci sono momenti
di rara consapevolezza
in cui sono in compagnia
della mia persona.
Questo mi conforta e mi rassicura,
mi rincuora, dire,
come quando il mio corpo
è rincuorato dal vedere la sua autentica ombra.
Ci sono momenti
di rara chiarezza
in cui mi accompagno
alla mia persona.
Mi fermo
all’angolo di una strada, giro a sinistra
e mi chiedo cosa accadrebbe
se la mia persona svoltasse a destra.
Finora non è accaduto
ma ciò non risolve la questione.
*
Donna mai nata
Non sono ancora nata
cinque minuti prima della mia nascita.
Posso tornare
nella mia non nascita.
Adesso mancano dieci minuti
adesso manca un’ora alla mia nascita.
Torno indietro
corro
nella mia vita minore
nel negativo della vita.
Cammino attraverso la mia nascita come in un tunnel
dalle prospettive bizzarre.
Dieci anni prima
centocinquanta anni prima
cammino, i passi rimbombano:
fantastico viaggio tra epoche
che mi precedono, in cui non ero.
È così lunga la vita negativa:
non esistere somiglia all’immortalità.
Ecco il Romanticismo: avrei potuto essere una zitella,
ecco il Rinascimento: sarei stata
una moglie crudele, ignorata da un marito malvagio,
nel Medioevo avrei servito acqua in una taverna.
Cammino ancora
i miei passi recano
il loro eco:
attraverso la vita minima
varco il rovescio di una vita.
Raggiungo Adamo ed Eva
e non vedo altro che oscurità.
Ora la mia inesistenza muore
come la fine di una finzione matematica.
Banale come è la morte
se fossi davvero nata.
*
Aprirò la finestra
È durato troppo a lungo il nostro abbraccio.
Ci è piaciuto inabissarci fino all’osso.
Ho sentito le ossa frantumarsi, ho visto
i nostri due scheletri.
Ora aspetto
che tu te ne vada, che
il rumore delle tue scarpe
non si senta più. Ora voglio il silenzio.
Stasera dormirò da sola
sulle lenzuola della purezza.
Solitudine:
prima igienica misura.
Solitudine:
allargherò le mura della stanza
aprirò la finestra
per far entrare l’aria larga, gelida
sana come la tragedia.
Entreranno pensieri
e preoccupazioni umane
i dolori del prossimo, la santità altrui.
Converseranno dolcemente e con fermezza.
Non venire più.
Soltanto di rado
sono un animale.
Anna Swir