13 Dicembre 2022

“Toby Dammit” o dell’esteta nichilista. Incursione nel film di Fellini

Toby Dammit di Fellini (1968) è un folgorante episodio di una pellicola – divisa in tre distinte storie – altrimenti mediocre, e ispirata a tre racconti di Edgar Allan Poe: Tre passi nel delirio.

Fellini dichiara in una intervista di non aver nemmeno letto il racconto dell’autore americano di culto, prima di lavorare al film (sarà poi vero?). Una cosa è certa: la pellicola è una tragica deriva dagli esiti funesti che poco ha a che vedere con la lettera del testo d’origine e segna però in maniera eteroclita il sodalizio tra il pessimismo acre e sarcastico di Fellini e il decadentismo funereo di Poe.

Toby Dammit è un attore bruciato dall’alcol e dalle droghe ingaggiato per una produzione italiana quanto meno bizzarra, se non dichiarativa di quanto ci si prenda sul serio, in questo Paese e nel mondo del suo cinema, anche in contesti che sfiorano il ridicolo e la parodia involontaria: trattasi del primo western di matrice cattolica dall’apparato allegorico pretenzioso e caricaturale che un prete illustra con voce unta allo stravolto protagonista, mentre procedono in auto a un evento mondano comprendente il lancio dell’attore in Italia.

La sequenza del viaggio in auto, attraverso una Roma sulfurea, sanguigna e calata in un tramonto rubescente – qui la fotografia di Giuseppe Rotunno, che si fa di un giallo sporco tendente all’arancio sottolinea il tono cancrenoso e corrotto di una città caotica e malata, con simboli carichi di degrado, punte mistiche e plutoniche assieme –, è una sequenza da antologia. Parrebbe quasi il corrispettivo neoterico dell’incipit caotico e orticante di Delitto e castigo di Dostoevskij. In questo segmento della pellicola Dammit incontra anche una zingara che vuole predirgli il futuro, ma dopo aver visto il palmo della sua mano, si ritrae turbata e inorridita lasciando presagire qualcosa di innominabile che non verrà manifesto se non nel finale della pellicola. Ma l’attore non se ne cura, è in un limbo atarassico e febbrilmente assente, attraversa tutta la storia come uno spettro di carne –fioco come lume sul punto di estinguersi, e defilato anche se sovraesposto e sempre chiamato al centro della scena – che più non riesce a incarnarsi in una vita propria e degna di questo nome.

Egli giunge in aeroporto – qui l’armamentario visivo non prescinde dal montaggio sonoro che è incalzante, corale e cacofonico, risultando tale da dare un rilievo quasi sinestetico alla percezione sensoriale dello spettatore – ed ha da subito una visione: una bambina biancovestita, pallida e dal sorriso maliziosamente luciferino, satanicamente maliardo, che lo invita a giocare a palla con lei.

Questo incipit si colloca in un andamento circolare della pellicola, chiudendosi il film proprio con l’immagine spettrale della bimba, rappresentazione ardita e perturbante, attrattiva e assieme repulsiva, del diavolo stesso, con un plesso ossimorico di fattezze innocenti e sorridente, maligna perversione.

Una delle parti del film nodali, per il Fellini che avremmo poi conosciuto nei lavori seguenti, risulta essere una cerimonia di premiazioni che consiste di un bagno di onirica, devastante decadenza. Una impietosa carrellata di eccessi e personaggi caricaturali, circensi: altrettante artificiose maschere di degrado e esibita vacuità, eccessivamente truccate e simili a fenomeni da baraccone pallenti illuminati crudamente dalla ridondante luce di scena nel mezzo di una bruma da racconto gotico. Quella che risulta essere una kermesse inflittiva e un involontario esercizio di sadismo sul protagonista sempre più assente e fuori luogo, consumato da un edace fuoco interiore e disgustato, annoiato (interessante e massimamente suggestiva la livida scala dei colori di queste sequenze).

Appena prima l’attore veniva intervistato in tivù, dovendo subire l’umiliazione – “che vergogna…” egli dice tra sé e sé durante l’intervista – di ridicole domande da rotocalco che seguono una linea artante e inane, e che egli si trova a destrutturare per mezzo di una sarcastica e caustica eleganza da dandy evasivo e graffiante. Abbiamo un’anticipazione, qui, di ciò che Fellini esprimerà senza veli in una delle sue ultime opere, ovvero Ginger e Fred (1986). Nell’intervista Dammit dichiara di non credere in niente se non nel diavolo… Questo nichilismo iconoclasta e distruttivo almeno quanto autodistruttivo, è la cifra di ogni condotta del protagonista, egli pare un esteta, sul modello di quello di Kierkegaard, svuotato e nauseato dalla vita stessa, in cerca di stimoli sempre nuovi e pronto a bruciarli subito nel fuoco della propria febbrile ricerca di appagamento del desiderio; egli è già assuefatto ad ogni eccesso, incapace di godere se non nella catartica, lustrale scena del suo grido animale: il solo momento, forse, in cui egli è vero e se stesso veramente. Ad una rappresentazione del mondo dello spettacolo spietatamente seriale e vacua, corrisponde una serialità nella ricerca dell’eccesso all’interno della vita del protagonista: entrambi sono insensate a artificiose, entrambi sono piccole dinastie di attimi simili a vuoti simulacri.

L’attore riceve in premio, secondo un accordo pregresso con la produzione, una macchia sportiva che non sta nella pelle per poter utilizzare. Mentre si scaglia a velocità altissima per le strade dei sobborghi di Roma, fino a perdersi, egli ruggisce con la voce facendo il verso al potente motore, urla con stentorea foga, il suo è un ringhio animale che suona come un inno di guerra alla vita e alla sua esangue insensatezza… Giunge presso un ponte crollato senza avvedersi dello strapiombo celato dalle nebbie e vede nuovamente, da banda opposta, la satanica bimba che lo invita di nuovo a giocare. Egli preme l’acceleratore proiettandosi in avanti, verso il vuoto, e un cavo d’acciaio lo decapita. La bimba raccoglie la sua testa come fosse il suo macabro e ultimo trofeo.

Toby Dammit è perfettamente nella parte, la sua è una perenne smorfia di assenza e disperazione, ardente sentimento di disgusto per tutto e tutti, sopra le righe perché lo richiede il personaggio, ma non scevro di sottili sfumature nella sua pallida maschera di dandy maledetto.

Toby Dammit ha perso ogni traccia di senso e genuinità, e certamente l’innocenza, e un diavolo in forma di bambina viene a reclamare la sua vita come ultimo passo verso un cupio dissolvi che già in vita era più della cogenza della vita stessa.

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