Novembre. Nel ghetto di Drohobyč i giorni sono tutti uguali, gemelli. Stessi pilastri di terrore, ore come nastri a lutto, aria piena di spine, torbida, viola. Il 19 novembre del 1942 Bruno Schulz, dopo troppi tentennamenti, aveva scelto di scappare. Gli avevano fornito denaro e documenti falsi. Non che fosse un ebreo osservante: per un periodo, lo aveva sedotto l’idea di farsi cattolico. “Gnomo, minuscolo, dalla testa enorme… era un espulso dalla vita, uno che sguscia furtivo, sul margine”: così lo ricorderà, vent’anni dopo, Witold Gombrowicz. Forse camminava sul maggese dei muri, tosando la sera, Bruno Schulz. Nel 1933 aveva pubblicato Le botteghe color cannella, un libro che diventerà, come si dice, ‘di culto’. Quattro anni dopo esce Il Sanatorio all’insegna della Clessidra. I racconti di Bruno Schulz – raccolti nel 2008 da Einaudi, per la cura di Francesco M. Cataluccio – hanno un magnetismo ambiguo. Spesso le sue frasi recano una purezza che spaura: “Gli esegeti del Libro ritengono che tutti i libri abbiano come meta l’Autentico. Essi vivono soltanto una vita presa a prestito, che nel momento di prendere il volo torna alla sua fonte antica”, scrive ne Il Libro, racconto che produce rigagnoli di pace.

Il 19 novembre del 1942 un funzionario della Gestapo di nome Karl Günther, si avvicina a Bruno Schulz, lo scrittore. Gli spara in testa. Per strada. Il corpo dello scrittore resta così, per strada, su una via di Drohobyč, sobborgo di Leopoli, per tutto il giorno. I passanti lo sorpassano, impotenti. Un amico, di notte, seppellisce il corpo dello scrittore in una fossa comune. Il corpo di Bruno Schulz scompare dalla storia, come se non fosse mai esistito. Esiste una genia di scrittori e di poeti il cui corpo è scomparso, mai più ritrovato, o tumefatto, maledetto fino all’irriconoscibile. Hart Crane, Osip Mandel’štam, Paul Celan, Marina Cvetaeva, Mary Carolyn Davies. Sono quasi un canone. Un canone dei corpi deturpati.

Bruno Schulz sapeva disegnare. Nelle sue incisioni, donne di severa avvenenza, seminude, tengono sotto i piedi orde di uomini adoranti, spesso brutti. Le opere di Bruno Schulz appassionarono Felix Landau, SS di stanza a Drohobyč, che assunse lo scrittore come “ebreo personale”. Lo incaricò di affrescare la sua villa, compresa la camera dei figli. Di Felix Landau possediamo un diario che registra il quieto repertorio delle sue efferatezze; così ad esempio, nel luglio del 1941: “Bisognava sparare a ventitré persone, tra loro due donne. Bisognava trovare un posto adatto per ucciderle e seppellirle. I prescelti si sono radunati con le pale per scavare le fosse. Due di loro stavano piangendo. Gli altri hanno avuto un coraggio inattaccabile. Strano, io resto impassibile. Del tutto impassibile. Nessuna pietà, niente”. 

Ritenuti scomparsi, i murales di Schulz realizzati per commissione della SS sono stati riscoperti nel 2001 e segretamente sottratti da alcuni funzionari dello Yad Vashem. Ne nacque un contenzioso, irrisolto e violento: le opere di Schulz restano custodite presso l’Ente per la memoria della Shoah di Gerusalemme. Intorno alla biografia di Schulz e all’eredità della sua opera ruota l’ultimo libro di Benjamin Balint, Bruno Schulz: An Artist, a Murder, and the Hijacking of History (W.W. Norton, 2023). Del libro hanno scritto un po’ tutti, dal “New York Times” allo “Spectator”; è piaciuto anche a Patti Smith. Come nel caso dello studio precedente, dedicato ai manoscritti perduti di Kafka – Kafka’s Last Trial, 2018 –, Balint indaga le eredità trafugate, le opere perdute, l’amore che rovina nel reato. Ora è a Gerusalemme: lo abbiamo intervistato.

Dopo il libro che ha ricostruito la storia dei manoscritti perduti di Kafka, cosa la ha portata a scrivere una biografia di Bruno Schulz e della sua eredità?

In entrambi i casi, ho voluto gettare nuova luce sulla vita di due dei più grandi scrittori del XX secolo e sul destino della loro opera, oltre a compiere una indagine sulla questione più ampia di chi possiede l’arte e chi ne rivendica la tutela. Gli affreschi di Schulz, come i manoscritti salvati di Kafka, hanno provocato controversie internazionali, non solo su chi abbia il diritto di curare le opere d’arte orfane e di interpretarne i significati, ma anche su chi possa affermare un diritto di tutela sull’eredità degli ebrei uccisi durante la Shoah. In entrambi i casi, i Paesi implicati hanno utilizzato un ‘noi’ nazionale legandolo al nome del singolo artista ebreo: la Germania e Israele, nel caso di Kafka, la Polonia e Israele nel caso di Schulz. In entrambi i casi, sono rimasto affascinato dal modo in cui Israele pretende di parlare a nome della diaspora, come utilizza il principio del kinnus, cioè della ‘chiamata a raccolta’, estendendo la ‘Legge del ritorno’, che garantisce cittadinanza israeliana a ogni ebreo nel mondo, anche ai manufatti ebraici.

Un disegno di Bruno Schulz

Che cosa significa scrivere per Bruno Schulz?

“Il ruolo dell’arte”, ha detto Schulz, “è quello di essere una sonda nel senza nome, nell’innominabile”. Ha descritto il suo primo libro, Le botteghe color cannella, come “un’autobiografia, o meglio, una genealogia spirituale, una genealogia per eccellenza, in quanto segue l’albero genealogico spirituale fino a quelle profondità in cui si mescola con la mitologia”. Mosso da un impulso autobiografico, Schulz ha scritto “per sentire che il mio mondo confina con altri mondi, e che su quei confini tali mondi si incrociano, si compenetrano”.

Spesso si parla dei legami di parentela letteraria tra Kafka e Schulz: cosa, piuttosto, li distingue?

I critici paragonano Schulz a Kafka per la precisione dei paesaggi onirici. Isaac B. Singer ha detto che Schulz “ha scritto a volte come Kafka, a volte come Proust, altre volte raggiungendo una profondità che nessuno di quei due ha mai raggiunto”. Schulz e Kafka, nati a nove anni di distanza l’uno dall’altro, erano entrambi cittadini ebrei dell’impero austro-ungarico. Entrambi temevano le convenzioni del matrimonio e hanno sofferto la rottura di diversi fidanzamenti. Entrambi erano ossessionati dal padre e hanno dato ai loro alter ego il nome Josef (Josef K. è protagonista de Il processo di Kafka; Josef è il nome del bimbo narratore di Schulz). Entrambi erano figli di padri autodidatti, impiegati nel settore tessile.

Agli occhi del figlio tubercolotico, Hermann Kafka, un uomo vigoroso, dominante, pieno di vita, simboleggiava l’autorità. Nella famiglia Schulz, il padre, costretto a letto, colpito dalla tubercolosi, esigeva l’assistenza del figlio. Il suo declino, la sua decrepitezza raffigurano un mondo austro-ungarico ormai in decomposizione. Czesław Miłosz ha osservato che l’esuberanza di Schulz “lo differenza dall’ascetico Kafka… ma la sua percezione della decadenza non è meno potente di quella di Kafka”. Se in Schulz la figura paterna collassa (fonte di ispirazione a tratti volitiva), in Kafka recide i legami filiali. 

Nell’immaginario di Schulz, il masochismo diventa metamorfosi: non del figlio (il Gregor Samsa kafkiano, ad esempio, mutato in mostruoso insetto), ma del padre, che prende sempre nuove forme. In una delle storie di Schulz, il padre si muta in uno scarafaggio indifeso. “Forse era tra quegli insetti morti che Adela trovava ogni mattina sdraiati a pancia in su, con le zampe ispide, e che raccoglieva con disgusto nella sua paletta, per buttarli via”. Altre volte, il padre si muta in vigile condor (in …), in enorme mosca (), in scorpione o in un (non kosher) granchio, che la madre serve alla famiglia per cena (L’ultima fuga di mio padre).

Nel mondo di Kafka la metamorfosi è improvvisa e irreversibile; nell’immaginario di Schulz è graduale, fluida. Il padre, che esiste in un crepuscolo del tempo, potrebbe essere una mosca al mattino e, rientrato in sé, chino sui registri contabili del negozio, nel pomeriggio.

C’è poi la storia degli affreschi di Schulz dipinti per Felix Landau, la SS di stanza a Drohobyč…

L’estetica masochistica che trasuda dalle opere di Schulz aveva catturato l’attenzione di Felix Landau, ufficiale delle SS, un sadico. I due uomini stipularono un contratto, non certo tra pari, che sanciva un rapporto di protezione e di predazione. In cambio dei suoi servigi, cioè dell’abdicazione del suo io artistico, Landau concesse a Schulz lo status di suo ‘ebreo personale’ (Leibjude). Ciò permetteva a Schulz razioni extra. Landau, autoproclamatosi Judengeneral, o ‘Generale degli Ebrei’ di Drohobyč, ordinò a Schulz, dalla primavera del 1942, di dipingere il proprio ritratto, i ritratti delle fidanzate degli ufficiali della Gestapo, di creare murales per diversi edifici di Drohobyč, perfino per la camera dei propri figli.

Come sappiamo, nelle Mille e una notte, Sherazade, nella camera reale, deve raccontare al tiranno storie affascinanti per ritardare la propria esecuzione. Pur sottomesso, Schulz sperava che finché avesse continuato a dipingere per Landau, suo ‘diavolo guardiano’, la sua vita sarebbe stata risparmiata.

Invece… mi dica cosa ha scoperto intorno alla morte di Schulz.

Il 19 novembre del 1942, era giovedì, proprio il giorno in cui aveva progettato di scappare da Drohobyč grazie a documenti falsi, Schulz viene ucciso per strada da un nazista, a un centinaio di metri dalla casa in cui era nato. Aveva cinquant’anni. Cercando testimonianze oculari di quell’omicidio, ho raccolto cinque diversi resoconti. Quello più diffuso – e forse il più terribile – indica l’omicida in Karl Günther: avrebbe ucciso Schulz per ripicca contro Felix Landau, reo di aver assassinato il suo ‘ebreo personale’. Secondo gli uomini della Gestapo, più tardi, quel giorno, Günther avrebbe detto a Landau: “Tu hai ucciso il mio ebreo, io ho ucciso il tuo”. Il corpo di Schulz è rimasto in mezzo alla strada per tutto il pomeriggio e la notte. La sua tomba – come tante altre sue cose – non è mai stata ritrovata. Il cimitero ebraico dove potrebbe essere stato sepolto, fu demolito nel dopoguerra, durante la dominazione sovietica.

In che modo la morte atroce, assurda di Schulz si lega alla sua opera?

Una delle prime menzioni di Schulz, poco dopo la guerra, apparve in una nota. In un settimanale polacco del 1948, come didascalia a un ritratto di Schulz, si legge: “Morto sei anni fa a Drohobyč, assassinato dai nazisti”. Da allora, alcuni degli ardenti ammiratori di Schulz, come i custodi dei suoi affreschi allo Yad Vashem, hanno avuto un po’ troppo a cuore le tragiche circostanze della sua morte: quasi che essa fosse inscritta nei suoi esordi, quasi che il destino dello scrittore fosse quello di un predestinato. Sebbene l’assassinio colori inevitabilmente la sua posizione letteraria, credo che sarebbe miope ridurre la vita di Schulz a quell’evento. Schulz non ha previsto la Shoah e non ha intriso di terrore la propria scrittura. Le sue narrazioni, per quanto influenzate da quello che chiamava “l’oscuro presagio della decadenza”, non sono turbate dai sentori dell’orrore a venire. Sebbene abbia subito diverse umiliazioni sotto il dominio nazista e abbia creato i suoi ultimi lavori sotto la coercizione nazista, la Shoah è un elemento secondario nella sua arte.

Dove dovrebbero essere custoditi, a suo avviso, i murales di Schulz, chi è il custode di quella eredità?

Scrivendo il mio libro, non mi sono lasciato guidare dall’impulso di ‘prendere una posizione’ né di giudicare le affermazioni dello Yad Vashem in merito al ‘diritto morale’, ma dalla domanda sul senso dell’eredità di Bruno Schulz. Questa domanda mi ha portato a capire due cose: intanto, che la scrittura di Schulz nasce dall’impossibilità ad appartenere a qualcosa, a qualcuno, foss’anche un ‘genere’; poi, che nella sua vita Schulz si è allontanato sempre dalla tentazione o dall’invito di una appartenenza collettiva. Insomma: Schulz non è di casa in alcun luogo – il che significa che è ovunque. In un tempo come il nostro, di nazionalizzazione del patrimonio culturale, in cui ci si appropria degli artisti come di un oggetto di prestigio culturale, questa affermazione può apparire ingenua, ma in modo sottile ci riporta a Kafka, quando scrive che i nostri beni, nazionali o personali essi siano, non ci servono mai come crediamo. “Tutto ciò che possiedo”, scrive Kafka, “è diretto contro di me. E ciò che è diretto contro di me non è più in mio possesso”.

Che cosa è bene leggere, a suo avviso, per penetrare nel mondo di Schulz?

Per entrare nella magia verbale inquietante e sensuale di Schulz, dove mondano e mitologico si scontrano, bisogna leggere Le botteghe color cannella (1933) e Il sanatorio all’insegna della clessidra (1937).

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