10 Marzo 2021

“Era libero, fino all’estasi”. Witold Gombrowicz & Dominique de Roux

Nel 1971, cinquant’anni fa, Dominique de Roux consacra uno dei mitici “Cahier de L’Herne” a Witold Gombrowicz, forse lo scrittore a lui più affine, esegeta del disastro, quello con cui ha lavorato in stretta prossimità. L’aveva incontrato, tramite Christian Bourgois, nel 1967, con l’idea di registrare una serie di interviste; lo leggeva, con avidità, da quattro anni. Insieme, elaboreranno “Entretiens avec Gombrowicz” (Belfond, Parigi, 1969), che poi sarebbe diventato “Testament. Entretiens avec Dominique de Roux” (1977). Gombrowicz, letteralmente, muore mentre il libro sta per essere composto: è il suo autentico “Testamento” (che così viene edito da Feltrinelli nel 2004). Il “Cahier Gombrowicz” consacra lo scrittore di “Cosmo” tra i sommi ‘irregolari’ del secolo, quelli che De Roux, eresiarca dell’editoria francese, cercava ovunque – si era occupato, tra gli altri, di Céline e di Pound, di Borges e di Michaux, di Gustav Meyrink, di Raymond Abellio, di H.P. Lovecraft e di Solzenicyn. Nel volume – di 480 pagine – sono raccolte le corrispondenze con Bruno Schulz e Jean Debuffet, ci sono testimonianze di Uwe Johnson e Günter Grass, di Czeslaw Milosz e di Cioran, di Bobi Bazlen, di Renato Barilli e di Giuseppe Ungaretti, che aveva preso a male parole WG in seguito alla pubblicazione di un suo saggio incendiario “Sur Dante” (1968), in cui – all’apparenza – sfotteva il Sommo Poeta. Qui si traduce un brano di De Roux tratto dal “Cahier” (titolo: “Le pota u noir”) e un paio di lettere tra i due. Piero Sanavio – che per L’Herne aveva curato un “Cahiers” dedicato a Ungaretti – incontra Gombrowicz nel 1968, dedicandogli, nel 1974, per Marsilio, il primo saggio importante, in Italia, “Gombrowicz: la forma e il rito”. Lo ha descritto, con carisma giornalistico, così: “Monsieur Gombrowicz, un signore di media statura che spesso fuma la pipa, ha i capelli bianchi tagliati corti sulla nuca come un ex ufficiale e la pelle rossa di chi vive molto al sole. Asmatico. Ma non vive al sole, non esce mai di casa. Dall’appartamento al terzo piano dove abita, place du Grand-Jardin, guarda gli alberi e la campagna che sempre più recede dietro le costruzioni moderne, più fitte e brutte ogni stagione. Vive con Rita, la sua giovane compagna canadese (bionda: un bel volto angoloso, irregolare) e un cane bastardo, pezzato, grasso sui fianchi: Psina (in polacco: ‘piccolo cane’). Quando non riposa o non fuma la pipa o non guarda dalla finestra, Monsieur Gombrowicz scrive”. Lì WG accenna ai dialoghi con De Roux. “Ho appena terminato un libro, gli Entretiens, con Dominique de Roux. Sono una persona cronicamente svogliata. Ogni scusa è buona per non lavorare. Cerco sempre di prendermi delle vacanze e non far nulla”. Il libro di Sanavio è bello, sarebbe da ripubblicare, ora. “Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”, scrive Sanavio; il primo capitolo s’intitola “L’arte non esiste”, il secondo “L’anormalità”. Chissà perché, i grandi scrittori evocano sempre pioggia.  

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“Vedi, mio caro, perdo tutte le ambizioni, come certi vecchi perdono i denti, le cose non mi interessano più per il loro impatto personale. Del resto, tutto è così: tutte le possibilità di espansione, oggi, tutte le direzioni dell’essere impegnato nelle cose del mondo sono, in realtà, se le guardiamo senza i veli illusori della menzogna che ci fanno vivere, o meglio, sopravvivere al cospetto della grande notte, chiuse, serrate in anticipo, tranne forse per certe questioni spirituali che sono sufficienti a se stesse. Per questo, ti senti un po’ fuori posto. Il che, te lo assicuro, non mi spaventa affatto. Quindi, che dire ancora, foss’anche qualcosa di assolutamente normale, se non che la corrente spazzerà via tutto, tutto, in una volta. Saremo ancora o non saremo più, che importa…”.

Mi parlava così, e ciascuna parola era un lago, profondo. Sbattuto all’ultimo piano del residence, ai margini di una terrazza circolare, il suo sguardo vagava su quel mondo di pinete, ovunque, giorni passati a fissare quel luogo. Come il Gran Maestro degli Assassini nella fortezza proibita di Alamūt, che non viveva d’altro che della meditazione, che non viveva d’altro che della sola meditazione solitaria. A volte il suo viso attento cercava di localizzare Vence, foresta in fiamme, pirogenesi, attraverso i dati immobili uno spietato ritorno verso l’interiore, il recesso pacificato di un vasto riposo.

Eppure, non era pressoché mutato dalla mia prima visita – luglio 1967 – dove, respirando, spirando, null’altro era che una forza spirituale, un prisma vivente, estraneo alla malattia, che getta luce ovunque, con una lentezza, si poteva dire, dovuta alla fatica, ininfluente. Si appassionava per cose fuori di lui, eretto in una illuminata solitudine. Finalmente installato, comodo, non sapeva trarre vantaggi da quello stato di tranquilla civiltà e mi confidò, con una segreta disperazione, forse, che se lo avessero portato in Italia o in Spagna, non avrebbe visto nulla, dalla finestra, se non il punto di vista dei suoi amici, di chi lo ha in custodia.

Il dolore che brucia e purifica più della vecchiaia, accresce la sua lucidità, porta la testimonianza al più alto livello. A rigore, avrebbe voluto scrivere i nostri colloqui, senza registrarli, “come uno zombi”. Ha accettato il mio progetto, modificato mano a mano che, intorno a una domanda, mi ha permesso di seguirlo, sorpreso di scoprire che sapeva ancora discorrere di letteratura a voce alta, soprattutto quando lo trovavo esagerato, e diceva che lo era, ed era così, eravamo a capofitto nel rischio di trovarci all’improvviso dentro una verità, una verità viva, nuda. In questo senso, senza cercare minimamente di cambiare la cultura o di sacrificarsi al cospetto della devastazione catastrofica della storia, si sentiva forte, sicuro di sé e della sua scienza, indifferente e leggero rispetto al mondo. Diceva quello che doveva dire. Quando ha scritto di Dante, si è attirato le ire di Ungaretti, che lo ha insultato tramite un telegramma. Avevano così poca importanza, per lui, i corsetti di quei profeti di lunga data, marinati e mummificati nel mistero subalterno del loro successo, nella loro scontrosa immodestia. Gombrowicz era libero, fino all’estasi, della propria libertà interiore, ed era sempre pronto ad agire di conseguenza: “Da me, nella mia casa, ho il diritto a dire”.

Dominique de Roux

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Dominique de Roux a Witold Gombrowicz

15 marzo 1968

Mio caro Witold,

l’unico atto che dovete fare: leggetelo. Questo dicevo agli studenti dell’Ovest, qui a Berlino, mentre preparavo una rivolta ripetitiva e cupa. Ho passato tre giorni a circolare tra i gruppi dell’estrema sinistra tedesca, fomentando un luteranesimo eliogabalesco. Il tuo lavoro mi è sembrato l’unico modo, il più importante, per rimuovere il formidabile possesso del passato su di noi. Questo Marx dalle mille braccia populiste che alleva in serie i rivoluzionari librari d’Europa nel frastuono delle carrozze, blocca ogni libertà, ogni approccio alla grandezza. E per realizzare nient’altro che trentenni alle spalle dei mercati. Tornerò lunedì, dopo aver tradotto alcune interviste; il che mi permetterà di giungere il 23 marzo. Con caro affetto, per non dire di Rita,

Dominique

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Witold Gombrowicz a Dominique de Roux

21 aprile 1968

Mio caro Dominique,

ebbene, attendevo tremante lo shock del tuo spirito apocalittico con il mio piuttosto campestre nei “Colloqui” [ergo: Dominique de Roux, Entretiens avec Witold Gombrowicz, Pierre Belfond, Parigi, 1968]. Ma tutto funziona a perfezione! Il tuo testo vibra, di possente intensità, l’antidoto adatto al tono che ho scelto. Dona una prospettiva diversa. Ma, attenzione! 1) Devi metterlo in relazione al mio tono. 2) A volte ci sono differenze troppo evidenti tra la mia interpretazione e la tua.

Ho iniziato a correggere la tua prefazione. Con piccole correzioni qua e là, riusciamo ad adattarlo molto bene al mio lavoro e a ciò che dico durante le interviste. Penso che questo non ti sconvolgerà: lo adeguo per farmi capire meglio, visto che non possiamo discuterne a causa della distanza che ci separa.

Attenzione! Il mio francese non è perfetto, ma alcune correzioni sono molto precise e mi paiono necessarie. Meditale e conservale, è il mio consiglio paterno. Se lo fai, avremo un risultato eccellente. Sono sbalordito nel vedere come basti mutare una parola, eliminare una frase, per giungere a una prossimità assoluta. Ovviamente, puoi fare come credi. Mio caro, la prefazione mantiene una profondità vertiginosa dall’inizio alla fine, quindi: grazie! Tuo,

Witold

Gruppo MAGOG