È così difficile trovare un autore che ci rappresenti! In fondo, la solitudine ontologica dell’uomo si ripropone ogni volta anche tra gli scaffali delle librerie. Cerchiamo di completarci con cose e persone, fallendo nella maggior parte dei casi. Eppure, viviamo con questo intimo e inestinguibile bisogno di vederci riconosciuti. Se qualcuno ha pensato ed espresso quello che tra compiacimento e tortura non ci ha mai dato pace, un poco ci sentiamo sollevati – inutile negarlo. È un senso di vicinanza che scioglie il freddo in cuore, nel segno del mal comune mezzo gaudio.
Credo che il motivo per cui leggo e rileggo Houellebecq – e aspetto il suo romanzo in trepidante attesa – stia nel fatto che, dall’autore francese, io mi sento rappresentato. Non è mai stato così con nessun altro. Ho amato molti libri, passando e ripassando con bramosia inquieta tra le loro righe. Eppure, qualcosa mi è sempre mancato. Nessuno ha mai detto fino in fondo la verità di ciò che sento. Sartre mi è piaciuto. Il Camus di Lo Straniero mi ha fatto quasi paura perché vi ho scorto molto di me. Persino Giuseppe Culicchia, almeno in Tutti giù per terra, ha anticipato in buona misura molte delle tragedie che avrebbero segnato il mio ingresso nella traumatica età della ragione. Ma avvertivo un residuo di inespresso, qualcosa che era ancora lì e andava messo nero su bianco. Tant’è che allora decisi di dirlo io, senza attendere ulteriormente che fosse qualcun’altro a farlo in mia vece. Poi, a un certo punto, per puro caso un amico, durante una serata in comitiva, in cui eravamo i soli a pensarla in un certo modo, mi fece il nome del francese: “C’è uno scrittore che sostiene esattamente quello che stiamo dicendo noi”. Non potei resistere alla tentazione.
Seppi fin da subito che Houellebecq era quello giusto, come i pochi fortunati a cui capita di incontrare la donna della loro vita. Mi immersi in Le particelle elementari rimanendo folgorato. C’era tutto quello che avevo sempre pensato, solo espresso più chiaramente e sistematizzato. Mi colpì in particolare quella strana forma ibrida, e così ben equilibrata, tra il saggio e la narrazione. Non sono mai stato del resto un amante dei romanzi basati sull’intreccio, tra inutili complicazioni della trama e psicologismi talmente spinti da lasciarmi del tutto indifferente. “Il mio scopo non è di incantarvi con sottili notazioni psicologiche. Non ho l’ambizione di strapparvi applausi per la mia finezza e il mio spirito. Questo genere di cose lo lascio agli scrittori che usano il proprio talento per descrivere i differenti stati d’animo, i tratti del carattere, ecc. […] Tutta questa mole di dettagli realistici, questo dar vita a personaggi plausibilmente differenziati, m’è sempre sembrato, scusate l’ardire, una grande stronzata”, così sta scritto in Estensione del dominio della lotta. Sinceramente, non potrei essere più d’accordo. Odio i romanzi dove ci si perde nelle idiosincrasie dei personaggi, o nelle descrizioni iperrealistiche come avviene nei russi dell’Ottocento. Mi piace una narrativa di contenuti, come la si suol chiamare. Dei gusti personali dei singoli protagonisti me ne sbatto, mentre amo quando a essere descritto è un certo periodo storico di cui ogni figura letteraria è una rappresentazione plastica – del resto, ha ragione Houellebecq quando dice che oramai siamo tutti molto simili, in questo tempo omologante, e ci differenziamo solo per stupidaggini, come il fatto che io non sopporto gli slip e tu invece hai un serio problema con i boxer.
Daniel Pennac, in una recente intervista, ha sentenziato che “i lettori di Houellebecq sono consumatori che odiano consumare”. Non è del tutto falso. Per una volta, ho sfiorato la straniante sensazione di trovarmi in accordo con lui. In effetti mi sento consumato, acquistato e non acquistante. Mi capita addirittura di contemplare uno scaffale del supermercato, come al protagonista di Estensione, solo per scoprire dopo qualche minuto che non mi serve realmente niente degli articoli esposti alla “cupidigia del pubblico”. Ma non è tutto così semplice…
Potrei amare anche Bukowski, per la smodata presenza della sessualità nei suoi libri, proprio come in quelli dell’autore di Piattaforma. Però, no, qualcosa di Bukowski mi lascia insoddisfatto. Adoro la sua prosa, così secca e fluida da scorrere veloce come la birra di mezza mattina. Trovo però che l’americano sia oltremodo naïf. Sono interessanti le sue folli esperienze, da cui lui trae non poche intuizioni pungenti. Ma in Bukowski manca del tutto la sovrastruttura culturale. La sua è una saggezza da barfly (“mosca da bar”), quando la sbronza è tale che o cadi in coma etilico o sei improvvisamente vittima di una qualche illuminazione sulla vita. Houellebecq è più simile a me: un osservatore distaccato e analizzante, affetto da una punta costante di amarezza, capace di farti ridere proprio nel momento in cui più ti fa male. È uomo di cultura, ma che giustamente non si prende troppo sul serio. Per lui il sesso non è colore e contorno della narrazione, ma chiave interpretativa, nella sua declinazione, di un’epoca – proprio come l’economia.
Ammiro inoltre la sua capacità nel mantenere uno stile sempre valido alternando nella sua produzione romanzi postmoderni, come Estensione e Le particelle elementari, fino ad arrivare a quello che potremmo definire il neonaturalismo di Sottomissione.
Dite quello che vi pare, ma lui ha in ogni momento il polso della situazione, di quello che gli sta accadendo intorno. Da quando, disoccupato, scrisse in preda alla disperazione il suo primo romanzo, fino a diventare un miliardario chiuso in un grattacielo del quartiere cinese di Parigi, nulla è cambiato: Houellebecq vede sempre il mondo con spietata ed empatica lucidità.
Ho sentito che il suo nuovo libro, terminato mesi addietro, preconizza la rivolta dei gilet gialli. Ciò non mi sorprende, casomai rinnova la mia convinzione. Ho letto l’incipit: “Odiavo Parigi, quella città ammorbata da borghesi ecoresponsabili mi ripugnava, può darsi che fossi un borghese anch’io ma non ero ecoresponsabile, andavo in giro con un 4×4 diesel – forse non avevo combinato granché di buono nella vita ma almeno avrei contribuito a distruggere il pianeta – e sabotavo sistematicamente il programma di raccolta differenziata varato dall’amministratore del palazzo buttando l’umido nel recipiente per il vetro e le bottiglie vuote nel cassonetto riservato alla carta e agli imballaggi”. Inutile precisare che sono già “in solluchero”, come quel sentimentale del giovane Holden travolto sulla strada da un male di vivere inimmaginabile prima dell’affermazione letteraria di Houellebecq.
Matteo Fais
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Non basta, non basta, non mi basta nulla. Non mi basta neanche il nulla, figuriamoci l’uomo, l’umano, il suo disagio, la sua disfatta, l’ansia cristica della dissipazione, il lasciarsi andare, il lasciarsi morire, la lascivia nichilista, la foga dell’annientamento. Questo è l’uomo da quando è uomo, nell’incarnazione di Abramo – disposto a sacrificare ciò che ha di reale, il figlio, per un filo di voce illusionista che ritiene Dio – nella follia di Edipo – che vince il mostro scoprendosi mostruoso – nella malia di Amleto – che sa che essere è non essere – e giù, deragliando e derapando nel dirupo umano, tra i russi che hanno a cuore non certo i dettagli narrativi – quelli piacciono sotto il cupolone di Albione – ma il deperimento dell’anima e il suo sfasciato ululato, e le ignominie di Beckett e le sconcezze di Genet e i bramiti di Camus… poi arriva lui, Michel Houellebecq, che con un talento miseramente ‘giornalistico’ ripete peggio degli altri le stesse cose, cambia la ‘quinta’, orienta la scrittura per i sottodotati attuali, per i dormienti, e giù applausi. Sinceramente, con tutta la mia pulviscolare ironia, Serotonina lo stronco prima ancora di leggerlo, MH scrive da vent’anni sempre le stesse cose.
La posa. Leggete la posa, please, prima ancora dei libri. Houellebecq sta in posa – fotografica – fotogenica. Fa la faccia del vituperio, un abietto virile, con la sigaretta digerita in bocca, fa il lurido, fa schifo, anche se è pieno di soldi e di applausi. Si mette in posa. Fa la parte. Lo scrittore, però, rifiuta i ruoli, vive per evadere le forme, per verificarne l’idiozia. Gli scrittori violenti hanno un viso limpido, che lampeggia crudeltà. Nelle raffigurazioni secentesca, il re Davide è un bambino, è l’icona dell’innocenza, ma brandisce la spada, è lordo di sangue, rotea il cranio di Golia.
Il petulante. Il talento di Houellebecq – se tale è – è ‘giornalistico’, dicevo. Intuisce un problema ‘sociale’, edifica una palafitta narrativa, ci s’infossa, il trucco riesce sempre. Houellebecq ha bisogno della polemica e della politica, non può fare a meno del fango, del pubblico, non si disincastra dal giudizio. Per questo le sue opere più che degradanti e degradate sono degradabili, svaniscono una volta lette, come un buon reportage giornalistico. Insomma, Houellebecq non è diverso da Trump, di cui apprezza il biondochiomato carisma.
L’egida dell’ovvio. Houellebecq funziona perché scrive ciò che vogliamo leggere, si finge antipatico – ma io lo immagino mentre fa le fusa abbracciato a Winnie the Pooh – ha il vezzo dello str**zo, annaspa nell’ovvio – che, ovviamente, vende – come il suo amico Emmanuel Carrère, due facce della stessa medaglia cariata. Poi, certo, in Italia ci vorrebbe un Houellebecq, ma l’Italia, letterariamente, è terra di tanti mozzi, di una manciata di corsari, mentre qualche squalo scodinzola in mare aperto.
Umano troppo umano. Houellebecq sosta nel sottobosco dell’umano, nel retroterra, con il retrogusto del già letto e già digerito: è un clamoroso bluff. La letteratura, piuttosto, si muove verso l’al di là, oltre l’uomo, in direzione del disumano – per questo, su questo, Massimiliano Parente vince Houellebecq, non c’è partita, lo scontro è impari – oppure nell’alveo dell’oltreumano. Il caro vecchio Cormac McCarthy riduce Houellebecq a un barboncino dei buoni sentimenti, Witold Gombrowicz ne dissezionerebbe la barbarie formale, perfino Rudolph Wurlitzer, con il visionario, lisergico, sonnambulo Zebulon ha scritto un libro che vale Le particelle elementari ed Estensione del dominio della lotta – i ‘best’ di MH – messi insieme.
Lo stile. E poi, basta, basta questo. MH scrive male – è sufficiente a evitarlo. Uno scrittore che non dona decenza formale alla propria creazione è un petulante provocatore. Meglio Moravia, allora. Meglio Pavese. Meglio Tempo di uccidere di Flaiano. Meglio i racconti di Verga. Lo ripeto per l’ennesima: prima di MH, lo scrittore facile per un tempo fatalmente semplice, il romanziere per i trinariciuti dell’abisso nella tazzina di caffè, leggete Montherlant, leggete Jouhandeau. Già. Troppo. Ma io voglio il troppo, anelo all’irredento, mi fa voglia lo scandalo del linguaggio non chi pensa di fare oscenità perché piscia, in faccia a tutti, la propria incurante incuria.
Davide Brullo