Qualche tempo fa ho riletto La noia, pubblicato nel 1960, e ho ritrovato un romanzo magnifico e modernissimo. La conferma che Alberto Moravia (1907-1990) ha superato la prova della fuffa e della ciccia, indispensabile, secondo una mia personalissima teoria, per verificare il valore autentico di un autore. La ricetta è tanto semplice quanto infallibile. Bisogna aspettare che lo scrittore muoia. Poi, a esequie avvenute, consiglio di lasciare passare qualche anno per permettere a un sottile velo di oblio di ricoprire la sua opera. L’ideale è che l’autore in questione venga un po’ dimenticato. Come appunto è successo a Moravia, che da vivo era insopportabile. Sì, perché a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale e per più di quarant’anni Moravia è stato la figura dominante della vita culturale italiana. Una presenza continua e per certi versi quasi ossessiva. Interventi e dichiarazioni a go-go su tutto, firme a raffica su manifesti e appelli per le cause più strampalate, inutili reportage di viaggi in Africa altrettanto inutili, recensioni cinematografiche più che dimenticabili, interviste televisive, protagonista addirittura della vita mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate al suo fianco. Poi, subito dopo la morte, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Anche la famosa, o per meglio dire famigerata, “corte di Moravia”, composta da un codazzo di amici, allievi e seguaci, autoinvestitasi di un potere quasi assoluto nel mondo intellettuale italiano, è rientrata nell’ombra, senza che peraltro nessuno ne sentisse la mancanza.
Da allora ogni tanto salta fuori qualcuno a lamentarsi per il cono d’ombra in cui è finito Moravia, ma si sbaglia. E di grosso anche. In realtà c’era proprio bisogno di questo silenzio. È stato un vento benefico e rigeneratore, che come una mareggiata ha spazzato via le tante cose inutili del Moravia versione grillo parlante e ha lasciato sul terreno solo quanto di buono il Moravia scrittore ha prodotto, e che non è poco. Parlo di alcuni suoi libri. Il primo, Gli indifferenti, scritto quando era giovanissimo e che lo rivelò come narratore di razza, e ancora di più La noia.
Sono due romanzi che racchiudono la sostanza più autentica di quello che resta di Moravia, e che riletti oggi non hanno perso niente. Anzi, gli anni trascorsi dalla loro pubblicazione ne confermano l’attualità e ci dicono quanto profondo fosse lo sguardo del loro autore. A guardare bene due libri legati tra loro, perché l’“indifferenza” al centro del primo la ritroviamo sotto forma di “noia” nel secondo. Il sentimento intorno al quale si sviluppano le due storie è lo stesso: l’incomunicabilità, l’incapacità di entrare in rapporto con le persone, le cose e in definitiva con la vita. Basta leggere le parole che all’inizio de La noia dice Dino, il protagonista:
«La noia è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà: per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta a un dormiente, in una notte d’inverno. La tira sui piedi ed ha freddo al petto, la tira sul petto ed ha freddo ai piedi, e così non riesce mai a prendere sonno veramente».
La noia è la storia di Dino, un pittore che smette di dipingere alla prima riga del primo capitolo, e del suo rapporto amoroso con Cecilia, spinto agli estremi della disperazione. Ma soprattutto è un ritratto dell’uomo di oggi sperduto e senza appoggi, che sperimenta la propria inadeguatezza. Straordinaria la figura della ragazza, vero simbolo di un mondo dominato dall’incomunicabilità. Cecilia non ha pensieri, non ha memoria, non ha immaginazione, è incapace di veri sentimenti e si esprime solo attraverso il sesso. Anche quando parla sembra tacere, tanto le sue parole sono insignificanti e staccate dalla realtà: «Ti piace questo ricevimento?» le chiede Dino. E lei risponde: «è un ricevimento». E ancora: «Com’è la tua casa?», «è una casa, come ce ne sono tante, non c’è niente da descrivere».
Eppure via via che Cecilia si rivela limitata e banale, tanto più Dino la trova affascinante. Quando poi scopre che lei lo tradisce e non lo ama, il desiderio aumenta. Sempre più ossessionato, Dino tenta di possederla attraverso un’attività sessuale sfrenata, poi con il denaro, infine le offre addirittura di diventare sua moglie, ma lei resta imprendibile. Rifiuta di sposarlo e con i suoi soldi fa un viaggio insieme all’amante. Ormai disperato, Dino tenta di uccidersi, ma è proprio durante la convalescenza, quando i suoi sentimenti verso la ragazza non sono più avvelenati dal desiderio del possesso, che impara ad amarla. Un personaggio inquietante questa ragazza che ricorda molto la Laide di Un amore di Buzzati. Da un lato è la personificazione della noia e dall’altro l’immagine della vita, monotona, scontata e prevedibile, ma proprio per questo misteriosa e affascinate.
E allora diciamolo forte e chiaro. Moravia è come i grandi fuoriclasse del calcio. Maradona, Pelè, Rivera sono nati per giocare a pallone, il resto che hanno fatto è fuffa. Allo stesso modo, Moravia è nato per scrivere romanzi, tutto il resto è fuffa.