16 Gennaio 2024

Sia lode a P.G. Wodehouse, lo scrittore “disimpegnato” per eccellenza

Divertimento allo stato puro. Non trovo altre definizioni per i libri, circa una novantina, che Pelham Grenville Wodehouse ha continuato imperterrito a scrivere nella sua lunga vita, cominciata nel 1881 a Guilford in Inghilterra e terminata nel 1975 a Long Island negli Stati Uniti. Wodehouse è lo scrittore “disimpegnato” per eccellenza. Non ha mai voluto dimostrare niente, né spiegare alcunché; nei suoi romanzi non troverete alcun approfondimento psicologico dei personaggi, nessun interesse per i temi sociali o tanto meno politici, ma solo e soltanto la ricerca del puro divertimento. Le gag, i fraintendimenti, i colpi di scena si susseguono a ritmo incalzante per andare a incastrarsi tra di loro con una impressionante naturalezza grazie a un’impareggiabile tecnica e all’abilità di inserire la battuta e il tono giusti al momento giusto. Un meccanismo perfetto, oliato nel corso degli anni e che funziona sempre a meraviglia.

Sono capolavori della letteratura? No. Sono ingranaggi narrativi perfetti? Sì.

Provate a prendere a caso uno dei suoi romanzi, apritelo a una pagina qualsiasi e mettetevi a leggere; anche senza sapere niente della trama, delle vicende narrate fino a quel punto, dopo poche righe non riuscirete a trattenere prima un sorriso e poi, sperando che nessuno vi prenda per matto, una fragorosa risata. Fregatevene bellamente del dibattito se la sua è grande o piccola letteratura. Leggetelo e divertitevi. Se non vi divertite cominciate a preoccuparvi.

Potete leggere e rileggere all’infinito le storie di Jeeves, il maggiordomo coltissimo e imperturbabile oppure di Bertram Wooster, il nobile incolto e totalmente inetto, e ogni volta resterete piacevolmente impigliati nella ragnatela umoristica costruita da Wodehouse.

“Jeeves, chi era quel tale che, guardando una cosa, si sentiva simile ad un altro nell’atto di guardare un’altra cosa? Ho studiato questo passo a scuola, ma adesso mi sfugge”.
“Immagino che il signore faccia allusione al poeta Keats, il quale paragonava le emozioni avute alla prima lettura dell’Omero di Chapman, a quelle che sconvolgevano l’animo dell’eroico Cortés allorché, con occhi d’aquila, fissava il Pacifico”. 
“Buon Dio, Jeeves! C’è qualcosa che non sai?”
“Non saprei dirlo, signore”.

La stessa cosa vale per il ciclo del Castello di Blandings dove regna incontrastato lo sconclusionato Lord Emsworth, perennemente impegnato nella coltivazione della zucca più grande e nell’allevamento della scrofa più grassa del circondario. Il tutto sempre ambientato in un Inghilterra aristocratica e decadente fuori dal tempo, che ha continuato a sopravvivere fino a oggi, still alive and kicking come dicono da quelle parti, solo grazie alla ineguagliabile abilità di Wodehouse.

A smentire il vecchio luogo comune, non del tutto infondato, secondo cui gli umoristi e i comici sono degli individui tristi e malinconici, Wodehouse non era affatto un tipo malinconico; semmai era noioso, anzi con tutta probabilità è stato uno degli uomini più noiosi di ogni tempo. Chi lo ha conosciuto racconta che parlava solo di lavoro, sempre concentrato sui tempi di consegna dei manoscritti e sui diritti d’autore. Gli unici interessi alternativi, si fa per dire, erano le rose che coltivava nel suo giardino e poi

“la buona vecchia tazza di tè, non troppo calda, non troppo dolce, non troppo forte, senza troppo latte e nemmeno una goccia versata sul piattino”

che immancabilmente alle cinque del pomeriggio prendeva insieme a sua moglie.

Indifferente anche alle tentazioni della carne, si era sposato molto giovane con Ethel Newton, una ragazza noiosa e bruttina quanto lui; in ogni caso la sua anima gemella visto che il loro fu un matrimonio riuscitissimo e sereno fino alla fine.

Per il resto basta conoscere un po’ la sua vita per capire che tipo fosse. Da giovane al termine degli studi si impiegò in banca per qualche anno, ma appena raggiunse il successo con i primi libri si dedicò a tempo pieno alla scrittura e non si interessò a nient’altro per il resto della vita. Tutte le mattine inforcava gli occhiali, infilava la pipa in bocca e si metteva a scrivere. All’inizio di ogni storia preparava una dettagliatissima scaletta che poi seguiva fedelmente senza lasciare niente al caso. Praticamente un impiegato del buonumore. Nel suo caso, parafrasando l’espressione “lucida follia”, possiamo parlare di “lucido umorismo”. Lucido come il suo inconfondibile cranio pelato a forma di prugna che gli valse il soprannome di plum, prugna in inglese.

Ho sempre pensato a lui come a un uomo afflitto da una sorta di disfunzione genetica che lo portava a essere del tutto privo della dimensione tragica della vita. Il che, a dire la verità, gli causò anche qualche guaio. Nel 1940 con l’Europa in pieno dramma Wodehouse non si accorse di niente, così una bella mattina si ritrovò i tedeschi alla porta della sua casa in Francia e, in quanto cittadino inglese, venne deportato per un anno in un campo di internamento. I nazisti ci misero poco a capire la natura di Wodehouse e la sua assoluta estraneità a qualsiasi coinvolgimento politico, e decisero di usarlo a proprio vantaggio; così, liberato dalle autorità tedesche fu invitato a Berlino per tenere cinque conversazioni radiofoniche nelle quali pensò bene di scherzare alla sua maniera sulla guerra, la prigionia e sulla gloriosa resistenza della vecchia Inghilterra.

«C’è molto di buono da dire a proposito dell’essere internati. Ti tiene fuori dalle osterie e ti aiuta a rimanere in pari con le letture. Il guaio principale è che ti tiene lontano da casa per molto tempo. Molti giovani uomini, al loro esordio nella vita, mi hanno spesso chiesto “Come faccio a farmi internare?”. Bene, ci sono diversi metodi. Il mio fu comprare una villa a Le Touquet sulla costa francese e rimanerci fino all’arrivo dei tedeschi. Questo è probabilmente il metodo migliore e più semplice. Tu compri la villa e i tedeschi fanno il resto».

Per usare un eufemismo, non era il momento. Gli inglesi sotto i bombardamenti tedeschi avevano poca voglia di ridere e non la presero bene, così al termine del conflitto gli rinfacciarono queste facezie, minacciando di mandarlo sotto processo per tradimento. Wodehouse, pur ammettendo che forse avrebbe fatto meglio a stare zitto, si offese e decise di trasferirsi per sempre negli Stati Uniti e di prendere la cittadinanza americana. Soltanto nel 1975 fece pace con la madrepatria ricevendo le insegne di baronetto. A quel punto dichiarò alla stampa che non aveva nient’altro da chiedere alla vita e infatti dopo poche settimane morì in piena serenità.

Silvano Calzini

Gruppo MAGOG