“La bocca pura e la bocca impura”. Giuda iscariota, enigma insolubile
Letterature
Valerio Ragazzini
Scopro per caso – non ho l’ambizione di organizzare il diario a chi trasmuta il caos in disegno – in una bancarella bolognese il Diario di Mircea Eliade. Lo apro. 28 giugno 1984. “Ieri sera con gli Ionesco e Cioran abbiamo cenato da Colette e Claude Gallimard. Ero di cattivo umore, apatico e, infine, depresso. La conversazione generale: si è parlato soprattutto di malattie… Ho ricevuto oggi, per espresso aereo, tre volumi di Piero Scanziani. Tutti con la stessa dedica: ‘A frate Mircea, frate Piero’. Apro a caso il Libro bianco. Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. Il testo mi sorprende: di Piero Scanziani so nulla. Come mai? Lo immagino, quel giorno di giugno di 35 anni fa, nella testa di Eliade, tra Cioran, Ionesco, Gallimard. Il “nuovo scrittore” cui allude Eliade è in realtà quasi un coetaneo: Scanziani è nato a Chiasso nel 1908, il grande storico delle religioni è più vecchio di un anno. Di certo, sarà la sua ultima ‘scoperta’: Eliade muore nell’aprile del 1986, negli anni che gli restano farà di tutto per promuovere la conoscenza degli scritti di quello che ritiene un grande scrittore. Sarà Eliade, infatti, a candidare, per due volte, lo scrittore svizzero al Nobel per la letteratura. Scanziani, scomparso nel 2003, è effettivamente un personaggio affascinante. Cresciuto tra Losanna, Como e Milano, pratica, giovanissimo, il giornalismo, nella “Gazzetta Ticinese”; a Roma lavora presso l’Ismeo e diventa amico del filosofo Massimo Scaligero. In Svizzera dal 1938, aiuta i fuoriusciti – da Indro Montanelli a Sem Benelli e Alberto Mondadori –, è il primo giornalista a dare la notizia della caduta del governo fascista. Scrive libri importanti – da Le chiavi del mondo a Libro bianco –; soprattutto, è un uomo in ricerca. I suoi viaggi sfrenati, in tutti i continenti, lo portano a scoprire gli Entronauti – così il libro del 1969 – cioè quegli uomini che, al contrario dei ‘cosmonauti’, hanno compiuto un viaggio dentro e non fuori di sé. Tra questi “cercatori di Dio” – emozionante il viaggio all’Athos – instaura un rapporto particolare con Sri Aurobindo, di cui, nel 1973, per Elvetica Edizioni – editrice che ha pubblicato la quasi totalità della sua opera – scrive una biografia narrativamente efficace. “L’uomo, una transizione. Da dove a dove? Cosa siamo, adesso? Una coscienza serrata in sé, staccata dagli altri, ostili. Siamo una coscienza ansiosa di felicità e ne trova solo parvenze: piaceri brevi che, al rovescio, sono lunghi dolori. Siamo un ego piccino, talvolta fanfarone, più spesso intimidito. Non possediamo neanche il corpo fisico, non è nostro l’animo (avido), non la mente (ragionevole)”, scrive Scanziani. Grazie all’avvocato Andrea Mascetti, instancabile cultore di terre incognite e di uomini anomali, entro in contatto con la moglie di Scanziani, Magì, che ne custodisce l’opera e la memoria. Leggere una lettera di Mircea Eliade, in francese (“Cher Piero Scanziani, comment vous remercier?”), dalla grafia screziata dagli anni, è stata una inattesa emozione. “Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri. (Una cataratta, per ora inoperabile, limita la mia lettura a tre, quattro ore al giorno). Dopo Aurobindo, l’appassionante Avventura dell’uomo, poi I cinque continenti e gli straordinari incontri di Entronauti! M’inoltro, adesso, meravigliato in Libro bianco… Vorrei parlarle più a lungo. Ahimé! Scrivo con fatica (artrite reumatoide) e non sono capace di dettare (ho provato il dittafono, ma i risultati mi deprimono!) Ancora una volta, grazie! In tutta sincerità e amicizia, il suo Mircea Eliade”. Era il 21 luglio 1984, Eliade scriveva da Eygalières, in Provenza. Fu l’inizio di una amicizia. Da una testimonianza di Tommaso Romano sappiamo che anche Ernst Jünger conosceva il lavoro di Scanziani (“Sorprendentemente conosceva l’opera di Vittorio Vettori, di Elémire Zolla e di Piero Scanziani”), per altro tradotto in diverse lingue. A noi il compito, ora, di sbucciare la patina di oblio che lo cela. (d.b.)
Parto dalla fine. Scanziani candidato al Nobel per la letteratura. Oggi, in Italia, la sua opera è quasi introvabile: cosa è accaduto?
È molto semplice: la Casa Editrice che lo pubblicava, l’Elvetica Edizioni di Chiasso è scomparsa dal mercato e contemporaneamente il mercato editoriale in crisi, ha finora impedito che una Casa Editrice con le carte in regola s’interessasse della sua opera. Anche il fatto che io abiti alla periferia dell’italianità, a Lugano, con scarse possibilità di contatti importanti ha contribuito. È un vero peccato che un tale scrittore con migliaia di lettori innamorati dei suoi libri non sia presente in libreria.
La candidatura al Nobel coincide con il rapporto con Mircea Eliade, che scrive parole di elogio altissimo sul suo lavoro. Come nasce e si articola il rapporto tra i due?
Il rapporto nacque grazie a un critico letterario amico di entrambi: Vittorio Vettori che li fece conoscere ed incontrare. Piero era un lettore appassionato di Mircea e Mircea lo divenne rapidamente di lui, tanto da presiedere il Comitato che lo propose al Nobel per due anni di seguito.
Tra i nomi decisivi nella vita di Scanziani, spicca Sri Aurobindo, di cui scrive una biografia narrativamente assai convincente, per altro. Che rapporto ha avuto Scanziani con Aurobindo? So che è un legame testimoniato da una messe di lettere…
Scanziani era in quel momento a Berna, responsabile del Servizio italiano dell’Agenzia telegrafica svizzera, l’equivalente alla nostra ANSA. Il mondo era in subbuglio. Era il 1939. La ricerca sembrava essersi inaridita. L’11 aprile 1939 diceva: «Non v’è certezza da nessuna parte, né al Nord né al Sud, né in Occidente né in Oriente. L’esistere è puro orrore, tanto vale uccidersi, unica prova di se stesso». Il giorno dopo tutto cambiò. Lo scrittore ha narrato in quattro versioni l’evento del 12 aprile 1939: nel 1978 autobiograficamente in Corrispondenza con Nata, nel 1941 e 1983 tramite John protagonista del romanzo I cinque continenti, nel 1969 tramite il narratore (che è l’autore stesso) in Entronauti e nel 1995 ne Il fiume dalla foce alla fonte. Le prime tre versioni sono analoghe, ma non identiche. La mattina del 12 aprile si svegliò e il libraio, che ne conosceva i gusti, gli aveva fatto avere in casa in visione un pacchetto di libri. Due attirarrono la sua attenzione: Aphorismes et pensées, La mère, autore uno sconosciuto Aurobindo. Chi era costui? Altri pensieri, altre madonne, che noia! Stava già per scartarli, quando la curiosità gli fece aprire una pagina, lesse una frase ed ecco cosa accadde. Qui (aggiungendo qualche frase da I cinque continenti) diamo la versione di Entronauti, che è seguita da indicazioni chiarificatrici. “Istantaneo, sovra il mio capo un confine si apre, una chiusa si solleva, un argine si rompe e dall’alto impetuosa su di me scroscia la gioia: una cascata diamantina sulle mie angustie, inebriante impeto di grazia, evidenza lampante, soavità sfavillante, presenza gloriosa, irrompere incontenibile d’una forza sublime, intenzionale, amorevole nella mia esiguità, onde ignorate e pur non nuove si spargono giubilanti fin nelle membra, nel sangue, nel respiro. L’anima è inebriata dalla prossimità divina. Non reggo in piedi, mi sdraio, immobile, attonito, ammutolito dal miracolo, incredulo che a me immeritevole sia dato tale prodigio, impossibile e irrefutabile. Chiudo gli occhi e liquefatto m’abbandono alla voluttà soverchiante, m’abbandono alla certezza, finalmente finalmente. Come dirlo e come tacerlo? È una testimonianza. Durò una settimana, decrescendo. La mente intanto aveva ripreso a discorrere, a ragionare, a rinvenire spiegazioni plausibili, ad ammucchiare tutto entro i suoi limiti. Questo suo esagitarsi m’era penoso.»
Chi era colui che aveva provocato tutto questo? Trovò carta e penna e gli scrisse una lettera in italiano, chiedendo spiegazioni. Aurobindo rispose tramite il suo segretario di lingua francese P. Barbier-Saint-Hilaire, nome di ashramita: Pavitra. Vi fu uno scambio di lettere e un viaggio in India molti anni più tardi: Sri Aurobindo non c’era più, ma Piero incontrò Mère e tante persone che in seguito divennero amiche e amici fraterni. Aurobindo lo accolse come suo discepolo e, cosa incredibile, tutto ciò lo riavvicinò alla sua religione d’origine, il cristianesimo. Racconto tutto questo in un articolo pubblicato su Letture, qualche anno fa.
L’amicizia con Massimo Scaligero, legami fuggevoli con il fascismo, il trasferimento in Svizzera alla promulgazione delle leggi razziali. Come vive Scanziani gli anni terminali del Ventennio, la Seconda guerra, il rapporto con Scaligero?
Scanziani giunse a Roma nel 1929 dopo il fallimento di un’impresa editoriale paterna in cui era stato coinvolto. Aveva una lettera di raccomandazione del padre a un suo amico, Piero Parini, alto funzionario del Ministero degli esteri. Dopo un mese di anticamera, quando era finanziariamente alla canna del gas, fu finalmente ricevuto e gli fu offerto di lavorare come impaginatore per mettere insieme uno dei primi settimanali a rotocalco intitolato Il legionario e destinato agli italiani all’estero. Conobbe nel frattempo, tramite Edoardo Anton, compagno di liceo e figlio del celebre drammaturgo Luigi Antonelli, Massimo Scaligero che diverrà amico, maestro e ispiratore, nonostante fossero praticamente coetanei. Racconta egli stesso quegli anni in parecchi testi. A un certo punto si accorsero che Scanziani faceva il giornalista in Italia senza essere italiano e gli si pose il dilemma se diventarlo, rinunciando alla propria originaria cittadinanza svizzera, oppure essere licenziato. Secondo la legge nessuno poteva fare il giornalista, se non fosse stato cittadino italiano. Non accettò di abbandonare la propria cittadinanza e si trovò disoccupato. Gli fu però offerto di andare in Svizzera dove un neonato “fascismo svizzero” aveva bisogno di un giornalista per mandare avanti un proprio settimanale. Siamo al 1934. La terribile esperienza è ben descritta in Gaia Grimani, Piero Scanziani: la vita come frontiera. Ne riporto le pagine essenziali: “Tuttavia Parini aggiunge che vi sarebbe una possibilità di lavoro a Lugano, avendo egli fatto il nome di Piero agli esponenti di un neonato “fascismo svizzero”: erano un certo Nino Rezzonico e un colonnello della Svizzera francese, tale Arthur Fonjallaz. Piero non li aveva mai sentiti nominare. Siamo nel 1934, egli era lontano dal Ticino dal 1929, non aveva nessun interesse per la politica, anzi la teneva in sospetto, dopo l’esperienza alla Gazzetta ticinese. (…) Scanziani rimane perplesso alle parole di Parini, tuttavia la sua disastrosa condizione economica non ammette scelte. Da tre mesi non paga l’affitto dell’appartamentino nel sottoscala d’una villetta in viale Gorizia 17, dove vive con la moglie incinta e il primogenito d’un paio d’anni. (…) Dopo l’iniziativa di Parini, incominciano a farsi notare attorno a Scanziani i fascisti luganesi, primo fra tutti il “duce” Nino Rezzonico. L’intento è di convincerlo ad andare a Lugano a metter ordine nel caotico settimanale Il fascista svizzero e svolgervi lo stesso lavoro d’impaginazione e di coordinamento fatto per Gazzetta ticinese e per Il legionario. Rezzonico fa vita straricca e segue il capo svizzero, il colonnello Fonjallaz, che poi risulterà sovvenzionato dal fascismo italiano. Intanto comincia a Roma una nuova azione per convincerlo. Se accetterà di andare a Lugano, lo rassicura Parini, non solo riceverà uno stipendio dall’editore svizzero, ma il Parini gli garantisce che Il legionario gli darà l’incarico d’una collaborazione regolare per articoli sui problemi degli emigranti italiani nella Confederazione. Le promesse non saranno mai mantenute: arrivato a Lugano il settimanale di Rezzonico, Il fascista svizzero, aveva cessato le pubblicazioni e Il legionario, pur sollecitato, dimenticò i suoi impegni. Il Rezzonico finirà per picchiarsi per la strada con un suo rivale, l’avvocato Alberto Rossi, a frustate e pugni. Il Fonjallaz, intervenuto come proprietario della testata, aveva espulso il Rezzonico e il Rossi ne aveva preso il posto. Il settimanale riapparì e Piero riprese la sua ormai abituale fatica di factotum d’una pubblicazione che pagava male, quando pagava. Fonjallaz espulse ad un certo punto anche il Rossi e assicurò a Piero di versargli gli stipendi arretrati. Il Rossi affermava d’essere lui il proprietario della testata Il fascista svizzero e il Fonjallaz ne prese allora il sottotitolo “A noi”, incaricando Piero di curarne l’edizione. Egli accettò alla condizione che A noi non fosse più organo ufficiale del movimento fascista del Fonjallaz, ma si occupasse solo dei problemi del Ticino e ne difendesse l’italianità. Intanto Fonjallaz non pagava la tipografia né il redattore, Piero indebitatissimo era gravemente malato di ulcera duodenale. Aveva ventisei anni e, lasciando Lugano per Milano con moglie e figli alla fine del 1935, era alla disperazione. L’aspettavano a Milano diciotto mesi di disoccupazione e nel 1936 un’emorragia interna quasi mortale che lo tenne a letto per tre mesi in un appartamentino di viale Abruzzi”.
Poi accadde un fatto tra imprevisto: morì improvvisamente il responsabile del Servizio italiano all’Agenzia telegrafica svizzera. Piero sottopose la propria candidatura: non voleva restare in Italia che aveva appena varato le leggi razziali e, dopo un periodo come dattilografo alla Bayer, desiderava riprendere la sua professione. Ma la Svizzera non lo voleva, soprattutto i giornali ticinesi legati ai servizi dell’agenzia, per i legami, pur fuggevoli e casuali, con il fascismo svizzero. Negli anni, fino alla sua morte, il Canton Ticino, in modo particolare, ma anche suoi invidiosi detrattori d’oltre Gottardo, usarono questo pretesto del fascismo per tagliarlo fuori da ogni posto interessante, da ogni riconoscimento della sua opera. Vergognosamente lo stesso Dizionario storico svizzero dedica, nella sua biografia, gran parte del testo a lui dedicato alla sua presunta adesione al fascismo: in una vita di 94 anni, lo spazio di 18 mesi. Basterebbe a qualcuno in buona fede leggere le sue opere e vedere se vi si trova una sola riga in cui Scanziani esprima un’idea politica o segua l’una o l’altra ideologia. Ma tant’è. Durante la seconda guerra mondiale, tuttavia, dal 1938 al 1946 Scanziani visse a Berna come responsabile del Servizio italiano dell’Agenzia telegrafica svizzera dove fu assunto dopo una visita, insieme al direttore generale dell’Agenzia Telegrafica svizzera, a tutti i direttori di giornale ticinesi a cui promise che mai più si sarebbe interessato di politica ed essi s’impegnarono ad accettarlo senza pregiudizi: egli mantenne la promessa, ma gli altri non lo fecero e sempre fu oggetto di persecuzioni e calunnie. A Berna divenne un grande giornalista internazionale; oltre ai servizi di stampa, diffondeva i servizi radiofonici di Radio Monte Ceneri, che insieme a Radio Londra divennero i punti di riferimento per chi voleva sapere notizie non inquinate dalla propaganda di regime. Collaborò con United Press, Reuter, New York Times, Bund, Basler Nachrichten, Suisse, Corriere del Ticino, Gazette de Lausanne, Illustré. Fu il primo giornalista al mondo a dare l’annuncio della caduta del fascismo e dell’imprigionamento di Mussolini. Nel 1946, alla fine della guerra, volle tornare in Italia per far crescere i propri figli nella civiltà e nella lingua italiana, malgrado, per restare gli fossero stati offerti molti benefici economici. Tornato a Roma, riprese il rapporto d’amicizia e collaborazione con Massimo Scaligero che durò fino alla morte di Scaligero nel 1980.
Poi i viaggi. Scanziani viaggia molto, ovunque: cosa cerca, cosa scopre? Qual è il viaggio che lo ‘forma’?
Scanziani viaggiava alla ricerca di Entronauti, parola inventata da lui stesso, cioè di coloro che in ogni tradizione religiosa affermano di aver incontrato Dio faccia a faccia. Viaggia dall’ Europa, all’America, all’Asia sino all’India e all’Estremo Oriente sempre immerso in questa ricerca. Tutto ciò è narrato nel suo romanzo Entronauti, vincitore nel 1970 del Premio Cattolico Maria Cristina. In questo senso il viaggio che lo forma è senza dubbio l’incontro con l’India e, in particolare con l’Ashram di Sri Aurobindo. Però anche a Londra, l’incontro con Maggie, regina dell’onnipotenza, a Teheran quello con i Sufi e al Monte Athos il ritrovamento delle radici cristiane così ben espresso nell’ultimo capitolo di Entronauti: “Forse vado all’Athos a causa d’un rito che si svolse tanti anni fa, in una cappella che non c’è più, in un villaggio che non c’è più, fra gente che non c’è più. La cappella è diventata una grande chiesa, il villaggio è diventato quasi una città. Era un battesimo, il mio battesimo. È morto il prete che pronunciò la formula, è morto il padrino che la ripeté, è morto mio padre che mi reggeva fra le braccia, morti tutti gli altri intorno, sorridenti. Nulla sembra più vivo di quel giorno, nulla vivo in me che non ne ho memoria, né mai ne ho sentito il vincolo. Eppure se vado all’Athos è perché quell’acqua, quella formula, quella gente m’hanno reso cristiano. Ho girato il globo alla ricerca d’entronauti, quelli che trovano la via nel nome di Maometto o di Krishna o di Budda o dei Tantra o d’Aurobindo o di nessuno o di se stessi. Deve pur esistere ancora da qualche parte chi ha l’incontro sacro in nome di Cristo”.
Le chiedo anche della sua passione per i cani, di cui è straordinaria esperto. Come nasce, come si sviluppa?
Si sviluppa fin dall’infanzia ed è raccontata in un testo che precede il più celebre dei suoi libri di cinologia (in tutto una decina): Il cane utile, intitolato Viaggio intorno al molosso, in cui oltre a questo, narra anche come nacque la ricostruzione del mastino napoletano, razza andata totalmente dispersa e ricreata da Scanziani dal ‘46 al ’60, nella gabbia delle giraffe, vuota dopo la guerra, del Giardino zoologico di Roma.
A suo dire, quali sono i libri fondamentali di Scanziani, da ripubblicare? Quali erano le sue fonti letterarie, le sue amicizie? Da dove provenivano le sue ispirazioni?
Un editore accorto che esamini la sua opera non potrà non essere ammaliato da Avventura dell’uomo, Entronauti e Libro bianco, che hanno creato lettori appassionati in tutta Italia. Per Entronauti, a Roma si erano addirittura creati spontaneamente gruppi di lettura che si rinnovavano di anno in anno. Negli anni ’80 però, all’uscita della trilogia su L’Arte della longevità, L’Arte della giovinezza e L’Arte della guarigione si creò un fenomeno analogo, grazie al forte coinvolgimento televisivo con le partecipazioni a “Domenica in”, Maurizio Costanzo Show e tante altre trasmissioni condotte da Frizzi, Magalli. Bonaccorti, D’Amato, Battaglia, il povero Enzo Tortora e tanti altri. Molto interessanti trovo anche i romanzi Felix, finalista al Viareggio e Il fiume dalla foce alla fonte, per non parlare dei tanti inediti. Le sue ispirazioni letterarie nacquero sempre in collegamento con la ricerca spirituale o con la grande passione di naturalista. Aveva come modello Marcel Proust per la ricerca affannosa della parola appropriata, ma il suo stile è asciutto, da giornalista. È saggista e narratore, ma il narratore prevale, anche nei saggi, perciò si leggono d’un fiato e affascinano i lettori. Tra i suoi amici ricordo Massimo Scaligero, Edoardo Anton, Lanza del Vasto, Vittorio Vettori, Mircea Eliade, Geno Pampaloni, Emerico Giachery, Aldo Capasso, Giovanni Pischedda, Elemire Zolla, Cristina Campo, Grytzko Mascioni, Franco Enna, Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer, Giovanni D’Espinosa, Tommaso Romano, Fedele Mastroscusa e molti, molti altri.
*In copertina: Piero Scanziani (1908-2003) con la moglie, Magì