Solo grazie al suggerimento di Cesare Cavalleri sono approdato a Teorema di Pasolini. In questo centenario così ridondante, fatto di rassegne e convegni, commemorazioni e pubblicazioni, potevo certamente cadere in altre sue opere; ma nella sua semplice e pura (sì, pura) rubrica di poesia, Cavalleri cita Teorema fra le cose più riuscite del Pasolini prosatore (diciamo prosa perché non è un romanzo e nemmeno poesia; più per esclusione che per altro). Una figura come Pasolini ben si presta a un centenario fitto di appuntamenti, tanto è sfaccettata e complessa la sua figura, e mi sentirei di consigliare, fra le pubblicazioni uscite, il Pasolini personaggio di Gian Carlo Ferretti (Interlinea).
Ho incominciato così il mio cammino, e mano a mano che procedevo mi rendevo conto di quanto Cavalleri avesse in fondo ragione, almeno per me. Teorema rappresenta la sua “prosa” più riuscita, con una trama semplicissima, come quella di ogni capolavoro: un giovane ospite arriva in una ricca famiglia borghese e ne sconvolge completamente il senso, l’ordine, le gerarchie. Il tutto a un livello morale, interiore, psicologico. Il libro, nato in contemporanea alla versione cinematografica (ma nettamente superiore, mio gusto personale), Pasolini raggiunge il giusto equilibrio fra poesia e pensiero.
Ognuno dei personaggi incontra a suo modo Dio, in una sorta di sollevamento del velo. La famiglia borghese così come ci viene presentata è famiglia solo di nome; il padre, la madre, il figlio, la figlia e perfino la domestica non interagiscono fra loro. Sono entità del tutto individuali, e raramente condividono gli spazi della villa in cui abitano, e quando questo accade regna un mesto silenzio, un silenzio cerimonioso e sterile.
L’arrivo del giovane ospite non è preceduto da un perché; arriva e basta. Ognuno dei membri della famiglia è attratto da questo giovane:
«Una bellezza così eccezionale, da riuscire quasi di scandaloso contrasto con tutti gli altri presenti. Anche osservandolo bene, infatti, lo si direbbe uno straniero, non solo per la sua alta statura e il colore azzurro dei suoi occhi, ma perché è così completamente privo di mediocrità, di riconoscibilità e di volgarità, da non poterlo nemmeno pensare come un ragazzo appartenente a una famiglia piccolo borghese italiana. Non si potrebbe neanche dire, d’altra parte, che egli abbia la sensualità innocente e la grazia di un ragazzo del popolo… Egli è insomma socialmente misterioso[…].»
C’è qualcosa in lui di particolare, unico, non convenzionale, una purezza, una tranquillità, una bellezza che sulle prime viene scambiata per sensualità. I famigliari cadono in questo errore, gli si approcciano con la loro mentalità borghese, una mentalità del possesso, che fa del corpo, e quindi del sesso, nient’altro che una merce da consumare. Il consumismo, sembra dire Pasolini, passa dagli oggetti ai nostri corpi, fino alla nostra anima, e i nuovi, meravigliosi elettrodomestici non li avremo pagati col denaro, ma con la nostra anima e il nostro corpo.
Ciascuno si butta sul ragazzo come fossero sotto ipnosi, offrono i loro corpi all’ospite come un sacrificio impuro, l’ennesimo sfregio alla purezza della vita commesso da un borghese. Ma l’ospite rifiuta questo sesso blasfemo (blasfemo perché atto di consumo) e ridonerà dignità con un rapporto di vero amore, anche sessuale, ma del tutto lontano dalla nevrosi dei corpi.
Questo purezza, questo sesso semplice, scevro da ogni costruzione, ogni idolatria, ogni artificio, rivela in quest’opera più che in altre quella ricerca di Pasolini durata tutta una vita; la ricerca di una sessualità svincolata dalle convenzioni, da non intendere con il banalissimo amore libero, ma in senso “infantile”, o meglio, “primordiale”. Lontana dalle costruzioni, e, forse, dai sensi di colpi di Pasolini stesso.
Tornando a Teorema, a un certo punto l’ospite deve andar via. Così com’è arrivato, così se ne va.
«A un certo punto si comprende come l’ospite non sia altri che Dio». Con queste parole, durante un’intervista, Pasolini compie il suo affondo. E l’incontro con Dio è devastante: ognuno esce da questo incontro non con l’animo rivoluzionato, ma direi sconfitto. Dove passa Dio restano individui svuotati, annichiliti, perché incapaci di affrontare la loro solitudine, incapaci di far fronte al suo amore. Il giovane, meraviglioso Dio, a un certo momento dovrà andar via, e i componenti della famiglia non riescono più a vivere, forse incapaci di amare realmente, incapaci di trascendere la fisicità dei corpi. Unica eccezione potrebbe sembrare quella della domestica, la quale torna fra la sua gente di campagna come una santa capace di miracoli. Ma anche in questo è impossibile non sentire la sottile tristezza di Pasolini, perché anche in questa santità si respira una grande solitudine, un cretinismo, potremmo dire. La serva è portatrice di quella sacralità perduta e ritrovata, ma come mero involucro. Su questo potremmo discutere a lungo, ma ci fermiamo qui.
La diaspora che investe la famiglia borghese con l’arrivo di Dio è totale, e i personaggi iniziano a muoversi fra le rovine delle loro esistenze, come finalmente consapevoli di quanto fosse tetra la “casa” in cui avevano abitato fino a quel momento. Forse perché il borghese è tanto lontano da Dio da non poterne reggere la manifestazione; o forse perché questa manifestazione rompe ogni sovrastruttura, ogni costruzione e ipocrisia della società, mette a nudo l’uomo (anche letteralmente), rimettendo al centro la fondamentale questione dell’amore, sia esso carnale, platonico o addirittura filiale.
Valerio Ragazzini