Nel 1909, Umberto Saba torna a Trieste dopo l’esperienza della leva militare, e la sua vita sembra prendere le canoniche vie di una normale esistenza: si sposa con l’amata Lina (Carolina Wölfler) e si trasferisce a vivere nella campagna fuori Trieste. Questo periodo della vita del poeta (1909-1911) è racchiuso nella sezione del Canzoniere intitolata Casa e campagna. Questa è la sezione più esigua all’interno del Canzoniere, contando solo cinque poesie, ma la sua importanza non è per questo trascurabile.
In questa sezione, il poeta mostra una particolare attenzione alla natura, in particolare al lato animale e selvatico del mondo. Saba sembra affascinato, in una certa misura anche impaurito, dal mistero racchiuso in tutto ciò che si connota come ferino e selvaggio.
In Storia e cronistoria del Canzoniere, sotto le mentite spoglie di Giuseppe Carimandrei, Umberto Saba commenta Casa e campagna concentrando la sua attenzione soprattutto sulla poesia A mia moglie. Questa scelta è comprensibile; d’altronde, A mia moglie è uno dei componimenti più importanti del poeta, e lui stesso dimostra di esserne consapevole, tuttavia è una scelta che pone colpevolmente in ombra le rimanenti poesie della sezione, come, ad esempio, L’insonnia in una notte d’estate, testo tanto criptico quanto affascinante.
Carimandrei/Saba, in Storia e cronistoria del Canzoniere, parlando della poesia, afferma:
Più importante ci sembra “L’insonnia in una notte d’estate”, un vasto arpeggio, diviso in due tempi, che annuncia di lontano quella maniera più aerea e leggera che sarà propria all’ultima e penultima stagione di Saba.
Nonostante il «vasto arpeggio» richiami alla mente una certa idea di armonia e ordine, la lirica presenta diverse anomalie metriche, che accompagnano un contenuto apparentemente caotico. Cerchiamo di andare nel dettaglio; il componimento, diviso in tre strofe, evoca tre differenti immagini: nella prima, il poeta, colto dall’insonnia notturna, si mette a osservare il cielo stellato disteso in campagna, con una «pietra» come guanciale; nella seconda strofa, compare un cane, immobile, che guarda sempre un punto lontano; nella terza e ultima strofa vi è l’evocazione del personaggio biblico di Giacobbe e dei suoi due sogni: il primo in cui vide una scala che univa la terra al cielo, il secondo in cui lui stesso lottava contro un angelo.
Anzitutto, vediamo di chiarire il significato dell’Insonnia in una notte d’estate. Nella prima strofa, assistiamo a un male come l’insonnia che si trasforma in un «religioso piacere», mistico e contemplativo, appoggiato su una pietra, del cielo stellato. Parimenti, nella terza strofa, anche Giacobbe, biblico antenato del poeta – per le sue origini ebraiche – contempla le stelle appoggiato a una pietra: quello che accade è palesemente un processo di immedesimazione. Nella prima e nella terza strofa sono la pietra e le stelle ad essere messi in risalto, tramite le rime («stelle/quelle», «tetra/pietra», «stellata/scalata») o ripetizioni («Il mio guanciale è una pietra» e «Giacobbe sognò la scalata/ d’angeli tra il cielo e il suo guanciale,/ ch’era una pietra»).
Questi elementi naturali sono per Saba eterni, fuori dal tempo, ed il contatto con loro, la loro contemplazione, apre le porte del tempo passato, riunisce l’autore a tutti gli uomini che prima di lui li hanno toccati, li hanno contemplati. La linearità del tempo si piega, rendendolo eternamente ciclico e ripetitivo. Così, in questo “eterno ritorno”, Saba rivive le vicende degli antichi patriarchi e del suo popolo, sente il peso della sua origine ebraica, e i fantasmi della religione materna riaffiorano dal suo inconscio spontaneamente.
Questo tipo di “transfert”, sempre dovuto alla contemplazione delle stelle, è presente anche in altre liriche del Canzoniere precedenti a questa, dove però ad essere privilegiato è l’antico patriarca Abramo (si vedano Dopo il silenzio e La sera). Come mai, nell’Insonnia, l’immedesimazione di Saba avviene con Giacobbe? Da una parte, troviamo il riferimento alla paternità oramai prossima del poeta («In stelle innumerevoli il fanciullo/ Contava la progenie sua a venire»), che è uno dei temi cardine della sezione Casa e campagna; da un’altra, vediamo anche un richiamo alla condizione di esule, tipica degli autori triestini del tempo, evocata dalla vicenda di Esaù. Quest’ultimo, infatti, costrinse suo fratello Giacobbe a fuggire via dai territori del padre, dopo che gli aveva sottratto i privilegi della primogenitura con l’inganno. Nel caso specifico, Saba è esule come Giacobbe, poiché costretto ad abbandonare Trieste per le campagne circostanti, ma anche perché marginalizzato dal mondo culturale del tempo.
Ad attirare maggiormente l’attenzione, però, è l’ultimo verso della lirica: «e l’incubo del sogno era il Signore / che lottava con lui». Saba fa trasparire tutto il suo rapporto conflittuale nei confronti di Dio. Il Signore a cui fa riferimento è quello ebraico, veterotestamentario, vendicativo e crudele, che minaccia la gioia e la felicità del poeta, come ne La ginnastica del fucile:
Risento in me qualcosa dei giganti, che la scalata al cielo vollero dare, sembrami ad ogni gesto provocare Iddio, che del suo fulmine mi schianti.
Dio, dunque, non è una figura salvifica. Piuttosto, è un’entità severa, che considera atto di hybris ogni tentativo di riscatto del poeta, ogni sua manifestazione di forza e di vitalità. È dunque chiaro che, per poter affermare la propria libertà, il poeta sia costretto a vivere contro lui un conflitto impari, come i giganti evocati nella Ginnastica del fucile. Più tardi, Saba risolverà questo rapporto conflittuale con Dio attraverso la psicanalisi. Seguendo i dettami freudiani – in cui credeva ciecamente – arriverà a riconoscere in questo Signore vindice il fantasma del padre «di cui Dio è una proiezione». Si ricordi, in questa sede, che Saba non conobbe mai il suo genitore, poiché abbandonò la madre prima che questi nascesse; proprio per questo fatto, però, il poeta ha sempre avuto un rapporto conflittuale con questa figura, che in una lirica non esiterà a chiamare «assassino». Seguendo questa interpretazione, dunque, «l’incubo del sogno» e la lotta con il Signore, si affacciano proprio nel momento in cui Saba stesso sta per diventare padre, quella figura con cui è stato, fino a quel momento, in aperto conflitto.
Se così si spiega l’immedesimazione con Giacobbe, tra esili e fantasmi sulla genitorialità, rimane da comprendere quale funzione abbia il cane presente nella seconda strofa. Questa immagine è solo apparentemente fuori contesto: come abbiamo detto, l’animale se ne sta immobile, guarda un punto fisso. Per Saba «Sembra quasi che pensi,/ che sia degno di un rito,/ che nel suo corpo passino i silenzi/ dell’infinito».
Come abbiamo visto, il processo di immedesimazione con Giacobbe parte dalle stelle e dalla pietra, ma questi oggetti materiali, da soli, non sarebbero riusciti ad avviare e concluderlo: la funzione medianica del cane è fondamentale. La reverenziale sacralità dell’animale è ispirata, nell’autore, proprio dalla sua natura ferina: è l’irrazionale sensismo della bestia che, avvicinandola allo stato di natura, le permette di avere un rapporto stretto con la divinità. Completamente al di fuori dalla mondanità, che distrae l’uomo dalla contemplazione, si perdono nell’infinito, e l’uomo, tramite loro, può collegarsi nuovamente al senso ciclico della sua esistenza. In questo, interviene anche la metrica, che è bene approfondire.
I sei versi della prima strofa sono, con ordine, un ottonario, due quinari, un endecasillabo, due ottonari. La seconda strofa ha cinque settenari, un endecasillabo e un quinario. La terza strofa è assai composita nella prima parte, con (sempre in ordine) due decasillabi, un novenario, un endecasillabo, un quinario, tre endecasillabi, un settenario tronco, tre endecasillabi, un settenario tronco.
Saba infrange una norma della tradizione poetica italiana, accostando versi parisillabi a versi imparisillabi, in una maniera che molto ricorda lo sperimentalismo di Giovanni Pascoli.
Nello scenario dipinto acquisisce una certa rilevanza la strofa centrale, dove certe ricercatezze metriche non sono presenti. Non solo i metri dei versi non presentano peculiarità, ma sono così canonici da creare un senso di monotonia; ci basti pensare ai primi cinque versi: tutti settenari con accento di terza, con l’eccezione solo del primo, che presenta il primo ictus sulla quarta. A smuovere questa monotonia, ma con delicatezza, interviene l’endecasillabo a maiore del sesto verso, che ancora continua il ritmo dei settenari, ma lo prolunga, e lo interrompe bruscamente con il quinario del verso successivo.
L’andamento ritmico di questa strofa si concilia col suo contenuto, dove l’animale, medium divino, guida Saba nell’immedesimazione con Giacobbe. Il cane è una figura immobile, che richiama quella degli idoli e dei monumenti sacri, eternamente statici. Il tempo è come se si fermasse, e Saba ce lo mostra magistralmente contrapponendo la vivacità preziosa e caotica della metrica della prima e dell’ultima strofa con la monotonia della mediana, che sembra così dividere «in due tempi» il «vasto arpeggio» che è L’insonnia in una notte d’estate.