“Ho scordato il mio nome, non è Borges”
Letterature
Essere eccezionale. Darsi al mondo. Senza peccare di presunzione. Eppure, scoprirlo, poco fa, per caso, ascoltando involontariamente da lontano una conversazione telefonica in casa. Nel senso. Essere straordinari, unici. E chi non lo è, in fondo? Ovvero, derogare da una norma, contravvenire a una consuetudine. Trasgredire, piuttosto e soprattutto. Essere l’eccezione alla regola, eccellere nella scrittura, accelerare oltre misura, pestando il piede sull’acceleratore. Essere, forse, per tutti, qualcuno da ammirare. Per dirla meglio. Dare l’esempio in sordina. Tentare di migliorarsi sempre. Perché c’è ‒ puntualmente ‒ da imparare. Disapplicarsi, comunque, alla normalità. Normare semmai il caos. Contravvenire al futuro.
Sentirsi raro, senza precedenti: irripetibile. Razziare l’anomalo, incontrare l’atipico. Razzolare col destino. Essere, magari, speciale per qualcuno…
Vivere disadatto. Disadattato. Marchiato da una malattia. Additato dal tuo stesso fratello handicappato. Ciò nonostante, esprimere un talento; esperire l’opera. Adoprarsi con un senso. Sentirsi insensatamente pronti ad affrontare l’enigma della pagina. Donarsi al cosmo con un dono. Tradurre in assoluto lo sconcerto; sfidare a duello l’inquietudine di un nuovo verbo.
Per tutto questo, dover vivere nel ghiaccio, nella disciplina del gelo. Abbracciare quel pazzo cuore che improvvisa come un diavolo. Sentirsi poeta di un popolo. Amico di una famiglia ristretta di scrittori dimenticati. Sentirsi accolto, probabilmente, da qualcuno…
Nascondersi nella catacomba dell’ispirazione. Volersi bene. Almeno, dirselo. Dove tutt’intorno è un altro gelo. Essere devoto alla parola. Pregare, scrivendo. Accettare, inoltre, il genio altrui. Soffrirne, per essere pronti a un nuovo round, sul ring che c’attende. Quello dove ci si affronta incondizionatamente, per incondizionato amore. Per cos’altro ci è dato vivere, altrimenti? Azzardare l’inganno, il tradimento. Mordere, ringhiare con più furia! Sentirsi piccolo in un mondo di giganti. Per ciò stesso espugnare l’inespugnabile; essere la spugna di un vascello. Attraccare in infiniti mondi, invisibili a prima vista. Osservare, dunque, quel che ci è dato vedere. Non censurare nulla. Scontarne per ciò stesso la pena.
Essere, piuttosto, povero ed eccezionale. Fuori luogo, fuori del comune di residenza, resistere alla mediocrità che imperversa. Avere una nuova coscienza. Incastonato nella luce di un sole che abbaglia, tentando di catturare l’ombra che avanza.
Sentirsi oltremodo liberi. Poetare danzando. Innalzando un inno alla natura, come a una donna soltanto. Soddisfare il desiderio dopo l’ennesima rinuncia. Quell’infinito che è nostro, e che in fondo ci appartiene da sempre. Altrimenti, perché provare a sperare oltre il confine? Così, guadare il fiume dell’anima, essere la disamina di te stesso. Infine riscoprirsi ancora una volta soli, non soltanto per sentito dire. Essere d’altronde cani sciolti, molossi pronti all’attacco, al ringhio che ci spaventa. Poetare solamente poiché preziosi. Impreziosire il giardino di rose. Recidere i lillà, perché fuori stagione. Scriverlo specialmente a qualcuno. Al quale si vorrebbe dare tutto il nostro bene. Suona meglio, del resto, essere eccezionali insieme.
Qui si accenna all’amore. Che è ferocia e sangue nelle vene. Qui si cerca un appiglio, quello scoglio da arpionare con la mano. Nella penombra della stanza ci si dona a un carteggio. Tutto è sguardo, tutto è donato, nulla ci è dovuto. Siamo persone rare, uniche. Quindi, eccezionali. Più che al mondo, dimostriamolo a quel qualcuno che ci aspetta per davvero; che, come noi, ha pietà del vero, e vorrebbe amare ed essere amato ‒ unicamente ‒ per quel che è.
Giorgio Anelli
*In copertina: Una illustrazione di William Blake al poema “America a Prophecy” 1793)