
“Ho ucciso mia madre in me”. Il romanzo sull’aborto
Libri
Linda Terziroli
a Mario De Ronzi
Louise Glück è morta il 13 ottobre. A M. scrissi: “La Glück è morta ma è fregato giusto all’ANSA”. Quello che non sapevo quando glielo scrissi era che M. fosse morto dal giorno prima. L’avrei scoperto il giorno dopo, il sabato, dal suo profilo social: c’era chi gli augurava il riposo eterno e in pace. Com’è un’eternità a riposare, a starsene in pace? Non sono sicuro sia il migliore degli auguri. Quando uno scrittore muore, Nobel o non Nobel, si sente il dovere di comunicarlo, come i suoi lettori abbiano il diritto di saperlo. Quando muore un lettore è un’altra storia, sarebbe complicato dover avvisare tutti gli scrittori ancora in vita della morte di quel lettore. Se per ogni loro lettore che muore gli scrittori letti da lui dovessero ricevere una comunicazione la situazione diventerebbe ingestibile, maniacale. La morte di un lettore non è una notizia neppure per l’ANSA.
Quando sono venuto a sapere della morte di M. ho deciso che avrei letto una raccolta di poesia della Glück, la sua ultima, Ricette per l’inverno dal collettivo, nella traduzione di Massimo Bacigalupo. Proprio ascoltando un video online di Bacigalupo per la presentazione della raccolta ho scoperto che la Glück le ultime poesie le aveva scritte in morte di sua sorella. Un lutto a farci da ponte, purtroppo.
Della prima poesia della raccolta, il titolo è Poesia, mi delude la traduzione del verso “Downward and downward and downward and downward / is where the wind is taking us”. La resa in italiano è: “Giù e poi giù e poi giù e poi giù/ è dove il vento ci porta.” La traduzione accorcia, tronca l’azione del vento, fa sembrare una caduta precipitosa ma tutto sommato clemente nel suo essere repentina quello che è invece è stato un movimento disperato e irreparabile. È la durata della caduta a renderla davvero tragica, è il vento a trasportati verso il basso e verso il basso e verso il basso e verso il basso: i fallimenti si prendono il loro tempo. Non si muore tutto in una volta: ci vuole tutta la vita che s’è vissuta fino all’attimo prima per riuscire a morire. E la morte cos’è? “io cerco di confortarti/ ma le parole non sono la risposta” sono altri due versi della Glück, che ne scrive di così scarni. Sono versi a cui non puoi afferrarti, non ti fanno scudo da niente, la sua è una poesia che dice le cose, non una poesia per nascondersene.
“Tocco la tua guancia per proteggerti –” in originale è “I touch your cheeck to protect you—” con quel trattino lungo attaccato all’ultima vocale come non si usa in italiano, come lo si è visto ancora più prolungato in Sterne che ci mette capitoli su capitoli per dare a Tristram Shandy il tempo di raccontare la sua nascita. È una riappropriazione ortografica della Glück: un segno che vuole indicare un significato, una durata delle parole, una indicazione: non andare subito oltre questo segno, oltre la parola che il segno marca. Non abbiamo per proteggerci che una carezza da darci sulle guance: senti l’importanza di questa affermazione? La fragilità, la bellezza sottile come la carta dove hai letto questo verso? Tra noi e la morte non c’è che il tratto di una carezza, allora facciamo il poco che è in nostro potere e allunghiamo quanto più lo si può quel tratto, quella carezza.
Il trattino ‘–’ sta al trattino ‘—’ come la parola giù sta alla parola downward.
La poesia successiva si compone di due parti, Un diario di viaggio e La storia del passaporto. Il nome della poesia è Il rifiuto della morte.
Contiene il verso: “Amavo quei giorni! Ciascuno esattamene come i precedenti.” Mi ricorda quello che ho letto sulla bacheca di M., l’augurargli un riposo eterno di pace. Bisogna avvertire la minaccia alla vita per sentire la mancanza dei quieti giorni perduti. Bisogna aver perso la pace per sentire la mancanza di quei giorni alla lunga detestati perché troppo pacifici, troppo uguali gli uni agli altri e perciò noiosi. Quando la vita fallisce, quando si sente trascinata verso il basso, niente sembra più bello di una sfilza di giorni tutti uguali, quando basta una carezza a proteggerti e niente sembra più desiderabile di un enviable emptiness, un vuoto invidiabile. La vita è un peso ma la morte è un vuoto ancora più pesante.
“E come eravamo tristi quando ne moriva uno,
perché muoiono, anche se sono stati
separati dalla natura; tutto alla fine muore”.
Sono versi dal Collettivo, un posto dove i vecchi vanno nei boschi a raccogliere il muschio “che cresceva/ sul lato nord di certi ginepri.” I più preziosi dei muschi sono conservati per i bonsai. “A me l’albero sembrava bellissimo, / non finito forse, eppure bello, con il muschio / avvolto alle radici.” Non bastano le cure attente, il metterli al riparo dal mondo esterno, imparare le regole complicate, il lungo apprendistato: non ci si può mai separare abbastanza dalla natura. La morte è la proprietà delle cose naturali. Solo ciò che non è naturale non muore. “Le foglie morte posavano sulle pietre; / non c’era vento che le sollevasse.” Il vento in questa raccolta di poesie della Glück ti accompagna verso il basso: una volta toccata terra, toccato il sottoterra, il vento ha fatto il suo compito. Non è previsto ti riporti verso l’alto. Tornando ai versi della prima poesia, Poesia: “Scalano l’alto monte coperto di ghiaccio, / poi volano via. Ma tu e io / non facciamo queste cose –”, “don’t do such things—”.
I bonsai, penso, sono gli umani tutti, sia, ma anche noi lettori: lettori della Glück, lettori in generale che ci mettiamo nelle mani di chi scrive, le cui parole possono essere per noi cesoie, tecniche per imparare a crescere, o a non crescere, in altre direzioni. Rispetto ai lettori i poeti sono artefici. “Gli alberi erano miniature, come dicevo, / ma una morte in miniatura non c’è.”
Un verso così, “ma una morte in miniatura non c’è”, potremmo impararlo e ricordarlo ad ogni articolo di giornale e a ogni prima serata di trasmissione dove ce la mettono tutta per spiegarci chi ha più ragione e chi ha più torto, quale occhio è più occhio, quale dente più dente, oppure posso chiamarmi fuori dalla lussuria della polemica, dall’indignazione alla Pavlov, e copiare il verso “ma una morte in miniatura non c’è” sulla bacheca di M., adesso che non si va più per cimiteri, ora che anche le lapidi sono a portata di click.
Louise Glück va verso gli ottanta anni quando pubblica Ricette per l’inverno dal collettivo, vale a dire che viaggia verso il grande freddo della morte e ne è consapevole. Era malata di cancro quando è morta. Della poesia Viaggio invernale sono i versi: “Lungo il sentiero, c’erano / cose che erano morte lungo la via – ”, “along the way—”. Com’è vivere e vivere a lungo? Significa testimoniare più a lungo degli altri l’operato della morte. I versi conclusivi del viaggio invernale raccontano la fine di un’amicizia, un’amicizia che niente poteva contro l’operato della morte, giusto un “cenno / di saluto”, il corrispettivo di una carezza, eppure: “Però la sua presenza mi sosteneva / alcuni di voi sapranno cosa intendo”.
Chi è più fortunato? Colui che intende queste due versi della Glück o chi non può intenderlo? Fortunato chi lungo il proprio sentiero non ha occhi che per la propria vita trovando insignificante la morte altrui, cioè colui che riesce a separare la propria vita dalla vita degli altri, come non ci fosse un’unica vita di cui tutti partecipiamo e dunque un’unica morte verso cui tutti veniamo trascinati dal vento, davvero il fortunato è lui?
La morte non è una storia piacevole da ascoltare, “tutti disprezziamo / le storie che sembrano aride e interminabili”. Nella poesia Una storia non finita Louise Glück deve precisare un’altra delle verità che solo i poeti hanno il potere di strappare dallo sfondo a cui sono inchiodate con l’accusa di essere ovvietà senza clamore, ovvero che la morte racconta le più belle storie d’amore: “Lo cerchiamo tutta la vita, / anche dopo che lo abbiamo trovato”. Il poeta di fronte alla morte è Orfeo che canta per Euridice. (Dalla poesia Poesia, sempre la prima della raccolta: “canto per te come mia madre cantava per me”, “as mother sang to me—”).
Molti i versi da poter utilizzare come funi lanciate verso il lungo dove sono trascinate le persone che non sono più, “I bellissimi giorni dorati quando tu saresti morta fra poco, / ma potevi ancora iniziare con gli sconosciuti delle conversazioni casuali”, ma la poesia non è una droga calmante, la poesia della Glück è “robusta ma acida / come una sveglia”, non è scolpita, è il driftwood, il legno che il mare restituisce già deformato, è una creatura le cui forme sono state decise dalle correnti. Allora dirò il verso che preferisco, presente nella poesia Il sole al tramonto. Nella poesia un maestro chiede allo studente: cosa pensi del tuo lavoro? E lo studente risponde: “Non c’è abbastanza notte”. Ciascuno penserà a quel che verrà. Io ho pensato alla Rothko Chapel. Non sono mai stato alla Rothko Chapel, in Texas. Eppure ci sono stato, con questa poesia di Louise Glück.
La poesia può essere poesia, deve essere poesia, anche d’inverno, di notte, lungo il sentiero dove ci sono cose morte lungo la via, consapevole di come una morte in miniatura non c’è.
M. era ancora vivo quando Jon Fosse è stato premiato con il Nobel. “Mai letto nulla. Provvederemo”, così mi ha scritto. Ha fatto in tempo per la Glück, non ha fatto in tempo per Fosse. Il vento l’ha portato verso quel basso da cui non si ritorna. Ho provveduto io per lui, per ora che ancora posso.
Da Tre drammi, editore Titivillus, da Variazioni di morte del 2002, a parlare è La figlia: “È là dentro / nel grande sonno luminoso / là nel buio / troviamo / là in quel buio luminoso / (pausa breve)”.
Cosa significa continuare a leggere mentre la morte interrompe la lettura di chi avrebbe voluto continuare a farlo, di chi avrebbe voluto cominciare o che avrebbe provato a cominciare se la morte non gli fosse arrivata addosso dall’alto o alle spalle, vigliacca o occhi negli occhi? Non possiamo andare avanti, andremo avanti—
antonio coda