Abelardo Castillo è stato tra i grandi protagonisti della letteratura sudamericana del secolo scorso. Ha fondato riviste fondamentali – “El Grillo de Papel”; “El Escarabajo de Oro”; “El Ornitorrinco” –, ha lottato per le sue idee politiche, è stato onorato e oltraggiato. La sua importanza nell’ambito specifico della cultura argentina contemporanea è straordinario, incommensurabile. Egli appartiene alla generazione che segue quella di Jorge Luis Borges e di Julio Cortázar (che fu suo amico), e ha portato la riflessione letteraria, in modo brusco e brutale, al di là. Tra i suoi collaboratori figurano artisti come Carlos Fuentes ed Ernesto Sabato, Alejandra Pizarnik e Miguel Angel Asturias. L’opera di Castillo è nota in Italia attraverso due libri, “Il vangelo secondo Van Hutten” (Crocetti, 2003) e “I mondi reali” (Del Vecchio, 2015). Nato nel 1935, Castillo ci lascia nel 2017. Nel 2014 Alfaguara – il massimo editore sudamericano – ha pubblicato il primo tomo del suo “Diarios. 1954-1991”; l’anno scorso è edito il “Diarios. 1992-2006”, per la cura di Sylvia Iparraguirre, scrittrice e compagna di Castillo. La pubblicazione dei diari è stata un vero avvenimento culturale in Argentina. I diari permettono, come sempre quando si parla di grandi scrittori, di entrare nella fucina feroce dell’artista, nel cappio delle sue ossessioni. Per gentile concessione – e con immensa gioia – traduciamo in anteprima in Italia alcuni brandelli del diario. (d.b.)
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Quando il 2 maggio del 2017 Abelardo morì, non per lui in modo impensato – i suoi Diari sono testimoni di quanto abbia pensato alla morte – ma sicuramente in modo inatteso e, per me, brutale, aveva finito la revisione di ogni singola pagina di questo volume. Dico inatteso perché a ottantadue anni era in pieno possesso della sua lucidità e memoria, faceva lezione ogni settimana, era stato da poco tra i giurati del premio Borges della Fiera del libro e prendeva appunti per un nuovo romanzo, Gli angeli blu. Anche se il corpo centrale del diario era stato sottoposto totalmente a revisione, rimasero in sospeso innumerevoli questioni. L’intenzione di questa nota è spiegare in che modo questo volume giunge all’editore e poi al lettore. […]
I Diari si concludono, come lui stesso ha deciso, nel 2006, quando la loro scrittura non era, ai suoi occhi, “contaminata” dall’idea della pubblicazione. Come ha detto tante volte, i diari non furono scritti con l’intenzione di essere pubblicati. E nonostante spesso in queste pagine il voler scrivere un diario per sé stessi o per gli altri sia un argomento di riflessione, io credo che questi Diari siano, fondamentalmente, uno specchio; un atto privato di autoconoscenza. Ed è proprio qui che risiede una parte centrale del loro valore. Era il luogo, inoltre, dove annotava le idee per i suoi racconti, scene teatrali o frammenti di saggi. Da molti anni insistevo perché li pubblicasse e la mia argomentazione più potente era che sarebbero stati di grande interesse per i giovani scrittori. I suoi alunni riuscirono a convincerlo. Questo accade nel 2012; nel 2013 preparò il primo volume.
Questo secondo tomo racchiude gli anni di un uomo che entra nell’età matura e poi nella vecchiaia e le riflessioni che questi argomenti fanno sorgere a chi non poteva fare a meno di riflettere. Sono le annotazioni puntuali di come, molto spesso, dovette superare il dolore fisico per poter scrivere. È la registrazione della nostra vita quotidiana e la testimonianza di una parte della storia recente del nostro Paese: la crisi del 2001 e i fatti più o meno importanti che abbiamo attraversato e che, travolti dalle circostanze in perenne mutamento in Argentina, col tempo dimentichiamo. È un diario politico, un tema che da sempre lo aveva appassionato nonostante avesse rinnegato la politica negli ultimi dieci anni. Sono le osservazioni scagliate da un ironico corrosivo su qualche fatto o su sé stesso, e ci fa ridere: il senso dell’umorismo fu una delle sue modalità di comunicazione fondamentali. Ma è soprattutto la conversazione che fa con sé stesso uno scrittore ossessionato dalla sincerità, dalla necessità di giustificare i propri movimenti mentali, le proprie paure e debolezze senza concessioni, tormentandosi in ogni pagina alla ricerca di una traccia di cattiva fede. Ritengo che una parte essenziale di questi Diari sia riconducibile alle sue letture; le letture di un lettore appassionato per il quale i libri furono il pilastro della sua esistenza.
Il volume secondo segue cronologicamente il primo ma coincide con il momento in cui cominciò a scrivere il diario al computer. Tuttavia, conservò sempre l’abitudine di tenere un quaderno vicino al letto, dove a volte quando non aveva voglia di alzarsi, annotava qualche riga che poi trascriveva al computer. Si fidava di più della scrittura a mano. Tutti i suoi libri, dal primo all’ultimo, sono cominciati come bozze scritte a mano. Diffidava della scrittura digitale: diceva che la sua velocità tende a ingannarci, ci dà la sensazione che il testo possa deviare da un tema all’altro e che, per mera contiguità, sembra andare bene. In questo senso, la sua revisione dell’originale consisteva nel sopprimere intere righe che sentiva non necessarie o prive di interesse, precisare dati o qualche parola e cambiare alcuni verbi.
Sylvia Iparraguirre
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28 maggio 1992
Chissà non è poi una così cattiva idea obbligarmi a utilizzare il computer per continuare a scrivere quello che chiamavo il mio quaderno. Forse continuerò persino a chiamarlo quaderno. Perché no? Uno dei vantaggi di scrivere qui è che è così semplice correggere o intercalare qualcosa che si evitano i rischi di un’eccessiva spontaneità, una spontaneità che si presuppone sia il merito di un diario ma che, almeno nel mio caso, non mi permette mai di dire con esattezza quello che voglio dire. Un altro vantaggio è che, dopo un certo periodo, non dovrò decifrare la mia calligrafia. È ovvio però che non potrò poi approfittare della sua illeggibilità per scrivere quei testi in codice, che immagino di ricostruire un giorno e dopo, quando li rileggo, non so mai cosa vogliano dire.
Ma cosa ci faccio qui seduto come un bonzo davanti a questa macchina? Me ne vado a camminare tra i pini, a guardare le stelle, a sentire il freddo.
Scrivo, esco a camminare, torno. Mi dico: la televisione a San Pedro, no. Conseguenza: accendo il televisore seduta stante.
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2 dicembre
È curioso che a volte, come adesso, non mi preoccupi affatto del fatto che scrivo o meno. Come se nel fondo sapessi che in qualsiasi momento lo farò. Alla fine ho tagliato con i reportage, le interviste, gli impegni immaginari. Adesso l’unica cosa che voglio fare è mettermi a leggere.
Dovrei impiegare tutto il prossimo anno a pensare e leggere e organizzarmi.
Ci sono soltanto due modi di vivere decentemente. Come se potessimo morire tra cinque minuti o come se fossimo eterni.
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7 dicembre
Per scrivere buoni libri è necessaria una considerevole dose di egoismo e di paranoia. È necessario pensare che siamo unici al mondo e che la letteratura giustifichi proprio tutto. Certo, è necessaria anche una considerevole dose di colpevole consapevolezza di non essere una brava persona. Spero di non essermi ammansito, immotivatamente, in nessuno dei due sensi.
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31 dicembre
A casa, soli e in pace con Sylvia. I gatti, Tatiana e Agustín, sotto il letto a salvo dal frastuono.
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Altre pagine
Il mio socialismo
È caduto il muro di Berlino, è scomparsa l’Unione Sovietica, il neoliberalismo sembra dominare il mondo. Mi dicono che le ideologie sono morte, che siamo nell’ultima frontiera della storia, che è arrivata la fine delle utopie. Tutto questo è impressionante ma non mi impedisce di essere socialista. Il muro di Berlino non aveva niente a che fare con il socialismo; era, per dirla in un certo modo, la sua negazione, e mi sembra giusto che sia crollato. In quanto allo Stato sovietico, bisognava avere davvero molta immaginazione, o molto poca, per supporre che fosse una manifestazione irrefutabile della giustizia sociale, della dignità umana.
A pensarci bene, era molto più difficile dirsi socialista con la scomoda evidenza del muro di Berlino e dello Stato sovietico che adesso, quando tutto è rientrato nel mondo delle cose possibili che è come dire il mondo delle speranze e dei sogni.
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Un sogno possibile dell’uomo sulla Terra
Per i giovani della mia generazione, la rivoluzione russa fu al contempo un fatto storico e una leggenda. Uscivamo da un’infanzia popolata da eroi invulnerabili e splendenti ed entrammo in un’adolescenza dove, dalla Storia, imperfetti uomini di carne e ossa, magnificati alla stregua di un intero popolo, romanzavano un’altra epica in cui la generosità individuale veniva esaltata a solidarietà collettiva; il coraggio solitario a epopea popolare; l’amore per la gloria alla necessità di giustizia. Rispetto ai nostri genitori, abbiamo avuto il vantaggio di non essere stati contemporanei a quella rivoluzione. Loro, alcuni di loro, credettero in buona fede che una rivoluzione sociale fosse qualcosa di simile al regno laico di Dio sulla Terra, la seconda fondazione del Paradiso e forse per questo non poterono tollerare che, come tutte le imprese compiute da uomini reali, fosse contraddittoria, imperfetta e a volte atroce. Non pesò su di noi né l’esilio di Trotskij né l’ombra di Stalin. Quando cominciammo a pensare in termini ideologici o politici, lo stesso XX Congresso apparteneva ai fatti consumati dalla Storia. Più tardi, la rivoluzione cubana o il mutilato sogno cileno, come oggi l’esperienza nicaraguense, finirono col mostrarci che esistono molte strade per mettere in piedi la citta di Utopia. A sessant’anni dal 1917 sappiamo alcune cose. Sappiamo che il primo gigantesco passo di questo secolo lo hanno fatto quegli operai e miliziani del “Pietrogrado rosso”, quei contadini che morivano all’urlo di Cambiare tutto!, sappiamo che non sarebbe stata possibile nessuna rivoluzione successiva senza l’esistenza di un’Unione sovietica, come sappiamo bene che, dovuto alle sue imperfezioni e contraddizioni, il socialismo è un sogno a misura dell’uomo.
Settant’anni è il limite della vita umana. Se riferiti ai popoli, settant’anni sono ore, probabilmente minuti. Se pensiamo che il mondo feudale tardò un millennio per trasformarsi nel mondo che conosciamo, è più facile captare la dimensione che ebbero quei “dieci giorni che commossero il mondo”. Dieci giorni che furono, certamente, molti più che dieci giorni. Non cominciarono a febbraio, e nemmeno nel 1905, né coi “demoni” che si facevano saltare in aria quando passavano i carri imperiali. La Rivoluzione russa fu il culmine, almeno per il nostro secolo, delle lunghe gesta spirituali che attraverso millenni si sono incarnate mano a mano negli schiavi sollevati da Spartaco, nei fratelli Maccabei e nei pastori violenti, nei catecumeni cristiani, nei contadini medievali, nei borghesi e nei sanculotti delle barricate francesi. Gesta spirituali, ripeto, perché in queste si manifestano con tutte le loro impurità e brutalità, la vera anima dell’uomo, la sua generosità essenziale, il suo amore per la libertà e la sua volontà di giustizia. Gesta che non si sono concluse nemmeno in Russia, come lo dimostrano le trasformazioni e le rettifiche avviate proprio oggi dalla società sovietica. Non si sono concluse e probabilmente non si concluderanno.
Resta comunque terribile che noi uomini dobbiamo celebrare, come vittorie dell’uomo, epopee della disperazione e del coraggio che nel corso della storia dei popoli sono costate la vita o la libertà a milioni di simili. Chissà, un giorno potrà esistere un’umanità che meriterà i suoi martiri fino a non capire nemmeno il senso che ha avuto questa protostoria cannibale che denominiamo Storia. Chissà, un giorno raggiungeremo lo stato etico dell’animale che uccide e ferisce con innocenza. O forse questa lunga redenzione che ha avuto inizio nel mondo con il primo uomo umiliato è la nostra condizione umana e siamo condannati alla lotta infinita. Qualsiasi sia il nostro destino, la Rivoluzione russa continuerà a significare che, almeno una volta, l’uomo fu un sogno possibile sulla Terra.
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Gennaio, 1993
Un uomo esce di casa, sale su un taxi, arriva a una stazione degli autobus o dei treni: al farlo non sente che è iniziato qualcosa, centinaia di persone hanno fatto lo stesso e si trovano in quello stesso posto, in quello stesso momento, sa inoltre che questa carrozza notturna è semplicemente la continuazione di una serie di fatti, desideri o progetti che si trovano in qualche posto del passato e che si estendono dinanzi a lui come un’attesa o un paesaggio nella nebbia. Non può sapere chi incontrerà e nemmeno immagina che incontrerà qualcuno. Tuttavia, quando leggiamo le parole che descrivono questi stessi atti in cima alla pagina – quando Nilsen prese il treno quella notte, non poteva sapere che avrebbe incontrato Van Hutten – sentiamo che lì comincia una storia…
…o addirittura molto prima, ad Efeso o Patmo, quando un anziano quasi centenario decise di raccontare ciò che ricordava di una storia che cominciava a spezzare il mondo a metà e di cui è adesso l’unico testimone…
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27 marzo
Mi sono messo a scrivere soltanto perché è il giorno del mio compleanno, quasi a preservare un rituale. Più o meno lo stesso che compio la notte dell’ultimo dell’anno.
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29 marzo
Tutto uguale. Con l’aggravante di qualche inutile discussione con Sylvia che rende tutto peggiore.
Abelardo Castillo
*la traduzione italiana è di Mercedes Ariza, i testi sono tratti da: Abelardo Castillo, “Diarios. 1992-2006”, Alfaguara 2019