Nei libri di Thomas Bernhard c’è sempre qualcuno che deve essere sottomesso, sedotto e mutilato. È la messa in scena di una macchina verbale della tortura, dove il lettore, dal principio, gode della propria intelligenza, per poi finire fustigato, malmenato, muto. In questa macelleria in cristallo, il desiderio di Thomas Bernhard è distruggere. Bernhard non scrive per distrarre, ma per distruggere. Soccombere è la parola esatta – Il soccombente è uno dei romanzi più belli e tremendi di Bernhard, in una bibliografia che ha la monotonia del prodigio, la claustrofobia del tormento, appunto.
Nei libri di Thomas Bernhard si soccombe: egli, l’orfano, l’abbandonato, il parto dell’incubo, vuole che tutti sentano l’eco dello scavo, le vaste miniere della crudeltà. Se egli è orfano, lo saranno tutti. Con esercizio sublime, Thomas Bernhard scrive con le lame: lo leggi e ti accorgi che ti ha segato un braccio, una gamba, la lingua, le palpebre, e gioca con la giugulare. “Chiunque scriva deve essere presuntuoso, altrimenti non potrebbe far nulla. Una gattamorta o uno che si mette in testa chissà cosa, non può certo scrivere un libro, tutt’al più un libro miserabile”, ha detto TB in una delle conversazioni – un voluto pantano, una voluttà tra le varie gradazioni del grigio – con Krista Fleischmann. Dunque, non ci stupisce che il fratellastro, come regalo per gli auguri – l’anno scorso, quando Bernhard ne avrebbe fatti 90 – abbia imbrigliato TB in una serie di epiteti – “il demone”, “lo spettro”, “il vampiro”, “il bimbo malvagio che è rimasto attivo per tutta la sua vita” – che infine fungono da elogio. Per parecchi versi, anzi, il libro di Peter Fabjan, Ein Leben an der Seite von Thomas Bernhard (“Una vita al fianco di Thomas Bernhard”), edito da Suhrkamp, immediatamente evoluto in ‘caso’ (“17mila copie vendute nel primo mese”, rimarca l’editore; chi lo tradurrà da noi?), è un paradosso. Thomas Bernhard, infatti, s’è scritto la propria “Autobiografia” – così il tomo che raccoglie L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino, edito da Adelphi – per annientare ogni altro tentativo di memoria – non per altro uno scrittore scrive la propria autobiografia, non certo per dar voce al narciso –, per annichilire, sistematicamente, i parenti, la famiglia, figura della società civile, feroce, dell’inciviltà austriaca, voragine in mostri.
“Una volta mi ha detto: ‘Non voglio che voi due (intendeva me e nostra sorella Susi) dobbiate dire qualcosa su di me, dopo di me. Per questo scrivo la mia autobiografia’. Tuttavia, posso contribuire a dire qualcosa, comunque, io che per la società culturale sono sempre stato il ‘caro fratello’ e che infine sono responsabile dell’opera letteraria di Thomas Bernhard, della sua eredità”, scrive Fabjan. Per questo, anche come tentativo di vendetta, questo libro sarebbe maldestro, un fallimento, la pia ribalta di un anodino sottomesso.
Peter nasce nel 1938 dall’unione tra Herta Bernhard ed Emil Fabjan, attivista del partito comunista tedesco austriaco, allora clandestino. Chi legge TB sa che in quell’anno lo scrittore, separato dal nonno, medita la morte (“Andavo a scuola come si va al patibolo, la mia decapitazione era sempre e soltanto rinviata […] Se solo potessi morire! era il mio pensiero dominante”): era nato nel 1931; il padre, il falegname Alois Zuckerstätter (che morirà nel 1940), si trasferisce in Germania dopo aver saputo della nascita del figlio, che non riconosce. Estraneità, irriconoscenza, odio, sono alcuni dei motori che agitano il genio di Bernhard. Che fosse “asessuato”, come scrive il fratellastro – il rapporto con Hedwig Stavianicek, ricca, vedova, di 37 anni più grandi, è il solo, inconsumato – non fa che sigillare il rapporto fisico, corporeo tra lo scrittore e la propria opera, un sussulto di carne in più nel magma verbale. Semmai, è la pratica costante della dissimulazione, la disciplina dell’attacco a prescindere – proprio di chi, esattamente, non ha nulla, se non un crocevia di traditori alle spalle –, il ballo delle molteplici maschere, l’ossessione del sé (“Maestro e artista dell’esagerazione… sapientemente egli ha costruito in vita il proprio mito, ribaltando in suo favore la curiosità e l’attenzione dei media”, ha scritto Luigi Reitani), a essere evocate in alcune pagine del fratello che in certo modo – sottomissione raddoppiata – imita lo stile di Bernhard, ne è seguace senza sagacia.
“Un padre sconosciuto, l’allontanamento conseguente dalla propria famiglia e da una società considerata estranea, un’insaziabile urgenza di attenzione, possono predestinare lo straordinario. Se Beethoven ha composto la ‘Nona’ in assoluta sordità, Bernhard ha creato la propria opera in condizioni di sordità interiore, incurante della propria esistenza. Come poeta e attore, Thomas mutava, di continuo: a volte pareva un clown, altre era estremamente serio; il suo spettro emotivo andava dall’amabilità riconoscente al profondo disprezzo. Ogni giorno era una recita dal vivo. Nella sua casa editrice, a Francoforte, lo consideravano ‘un gentiluomo’. Ovunque, comunque, era al centro dell’attenzione: intratteneva con arguzia, sapienza cinica, gusto per le associazioni. Si teneva sempre a una certa distanza, era equilibrato, perennemente ‘in guardia’. Il suo fascino era leggenda. Si è imposto la massima autodisciplina artistica, certo di essere catapultato in un mondo alieno, dove occorreva diventare inattaccabili. Non sapeva dimostrare gratitudine. Una volta disse che voleva ‘distruggere’ le persone a cui doveva qualcosa, per sbarazzarsene. Ciò non riguardava il nonno defunto né Hedwig Stavianicek, ma si applicava a suo padre – e a me… Nella stretta cerchia di amici e familiari poteva essere vulnerabile e sprezzante, spesso gelido. Raramente qualcuno aveva accesso alla sua intimità. Fuori da questa cerchia, l’attacco e la provocazione a priori erano ritenute la migliore delle difese; gli altri dovevano prendere le misure delle sue insinuazioni” (Peter Fabjan).
Il libro di Fabjan è interessante, più che altro, per il legame che ha congiunto i fratelli, una specie di congiura del sangue. Dal 1978, quando gli è diagnosticata una sarcoidosi polmonare, infatti, Fabjan diventa il medico personale di Bernhard: cura il corpo di colui di cui eredita il corpus. Bernhard vive nella prepotenza della polemica, muore, fisicamente, nella propria opera (le reiterate lotte, le fughe, fino all’ultima apparizione, a Vienna, per la messa in scena di Heldenplatz, quando la contestazione lo sfinisce, e il respiro residuo sboccia in anatema: “Sottolineo espressamente di non volere aver nulla a che fare con lo Stato austriaco, e mi oppongo… anche ad ogni avvicinamento di tale Stato alla mia persone e al mio lavoro, per sempre”), ne ha bisogno, perché ogni suo libro è preparato per predisporsi a tale schianto. E il fratellastro è lì, a prendersi cura di chi, con ostinata ostensione di violenza, lo percuote:
“Non dimenticherò mai la sua voce timida, bassa, dalla finestra dell’appartamento, quando mi implorava, ‘Peter…’. Un’altra volta mi disse, ‘Lo Johannes di Estinzione sei tu!’. Nel romanzo, Johannes muore con i genitori in un incidente. La natura demoniaca del suo essere faceva in modo che le persone morissero per iscritto e, occasionalmente, per causa sua. Pretendeva affetto dai parenti stretti, ma essi costituivano per lui una minaccia”.
La miccia di tutto, comunque, per questo gnostico indagatore dei meschini abissi umani, è la menzogna come forma d’arte, l’eccesso a mo’ di norma, l’abnorme, la percezione marziana di essere soli al mondo, la rivalsa e la rapina. “Una volta ho pensato a Thomas come una specie di Kaspar Hauser, uscito dall’oscurità, nato in un mondo sopraffatto fin dall’inizio dalla sua esistenza”, scrive il fratello, sacerdote del culto bernhardiano (d’altronde, “Sarei volentieri papa”, aveva detto Bernhard, a Maiorca, era il 1981, “Il papa autentico, il vero papa, lo sarei volentieri. C’è già stato un papa Thomas? No? Allora conservo il mio nome, Thomas I”). Al netto della baldoria, della baldanza dell’egolatria, delle futili giustificazioni (“Non la chiamerei necessità. Volevo diventare famoso, da sempre, e il mezzo mi era del tutto indifferente”, dice Bernhard a Peter Hamm durante Una conversazione notturna, stampata di recente da Portatori d’Acqua), la letteratura esiste come sopraffazione, esige la prevaricazione, ecco: si scrive per fare scempio di sé, certo, ma per amore di sterminio. Per uccidere ogni altra scrittura. Ogni altro uomo.
Un giorno ho giocato a fare la lista da chi è stato sopraffatto dallo spietato genio dei propri fratelli. Lydia e Josephine Pasternak, che adempiono al talento di Boris obliando il proprio, traducendolo in inglese; Norah Borges, pittrice affascinante annichilita delle attenzioni rivolte al fratello; Sergej Nabokov, estroso nullafacente, seduttore di uomini, intelligentissimo, castrato dalla prepotenza narrativa del fratello Vladimir, che morirà nello stesso campo nazista dove è recluso Roland Malraux, il fratellastro di André. Alla sua morte, il catastrofico scrittore-avventuriero-politico si porterà nel letto, e poi a casa, e poi all’altare la moglie, vedova, Marie-Madelaine Lioux, pianista, che abbandona l’attività concertistica per stargli dietro. L’ennesimo giogo, la prevaricazione del genio. Allo stesso modo, ogni tentativo di ristabilire l’equità del ricordo da parte di Peter Fabjan, nonostante le buone intenzioni e i buoni modi (incipit: “La vita di mio fratello Thomas è stato un peculiare tentativo di liberarsi dagli angusti legami familiari, lottando per vivere da artista. Quando guardo le fotografie di coloro che hanno plasmato la mia vita, e lo fanno ancora oggi, a differenza di Thomas Bernhard, non sento alcuna necessità di trasformare queste persone in personaggi di fantasia per ‘sbarazzarmene’”), non fa che esasperare il genio cannibale di Thomas Bernhard, a sancire la compiuta sottomissione. Ci sarebbe da scrivere un romanzo.
*In copertina: Thomas Bernhard ritratto da Marc Trivier, 1983