10 Settembre 2019

“L’uomo è fatto per distruggere, per annientare il suo destino”: intervista a Marguerite Duras

Per lo più ridotta a L’amante (1984), per lo più nella traduzione che ne diede, nel 1992, Jean-Jacques Annaud, l’Œuvres complètes di Marguerite Duras, in realtà, è pubblicata nella ‘Pléiade’ Gallimard, dal 2011 al 2014, in quattro tomi, da un paio di migliaia di pagine ciascuno. Si potrebbe pensare a una variazione verbale sul medesimo tema musicale – sguardo obliquo di Cassandra che fiocina. L’amore, la morte, in esodo umano.

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“L’amore insensato che provo per lui rimane per me un insondabile mistero. Non so perché lo amassi al punto di voler morire della sua morte. Ero lontana da lui da dieci anni quando è successo e pensavo a lui solo di rado. Come se lo amassi per sempre e niente di nuovo potesse succedere a questo amore. Avevo dimenticato la morte”. Di una fraternità allucinante racconta la donna un tempo ragazzina. L’Indocina non si sente nel liquefarsi esotico, ma in una nitidezza dello scritto.

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Della Duras non va sottovalutato l’essere partigiana senza patria, in espatrio perfino dalle proprie antiche convinzioni. Vomitare vorticosamente sulla antica appartenenza politica; non distrarsi dalla dissipazione; la giovinezza defraudata. Un sentore di morte, più che di amore, nei suoi testi. “Ora so che da giovanissima, a diciotto, quindici anni, il mio viso era una premonizione del viso che mi sarebbe toccato poi, per il troppo bere, nell’età di mezzo della vita. L’alcool ha assunto le funzioni a cui Dio è mancato, inclusa quella di uccidermi, di uccidere”.

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Leggo Fabula mistica di Michel de Certeau. Lo studioso, il gesuita, cita più volte, tra Dionigi l’Areopagita e Freud, Isaia e Henri de Lubac, proprio la Duras. “In India song la mendicante rimane invisibile. Senza nome e senza figura. Solo la sua ombra attraversa l’immagine mentre, lontano dalle altre voci, va e viene il suo canto di Savannakhet, innocente, interminabile. È la passante attraverso i testi di Marguerite Duras. Non parla. Fa parlare. Portando la fame dentro di sé, raggiunge la soglia delle cucine. ‘Magrezza di Calcutta durante questa notte grassa, se ne sta seduta tra i folli. La testa vuota, il cuore morto, è semplicemente lì, sempre in attesa del cibo’. Rimane lì, con gli avanzi. Immemore. Slegata, cioè assoluta”. Leggere la Duras come quella che fa razzia dell’infimo, dell’infinitamente umiliando – cogliendo la sua umiliazione di scrittrice che negli ultimi lustri si relega al silenzio, si regala il tacere.

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De Certeau cita in particolare India Song e Il viceconsole, libri quasi introvabili, qui, dove la Duras è stata durevole moda. Perfino la scrittura – di cui con difficoltà apprezzo il minimalismo, mentre amo il minimo – si regola in sibilo, in fruscio, anatema al moribondo. Allora, cerco della Duras questa abitudine allo scandalo, al candore dei contrari. Trovo ciò che propongo qui. Frammenti di una intervista del 1983, pubblicata su un numero speciale di “Alternatives théâtrales”, realizzata da Jacqueline Aubenas. (d.b.)

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In tutti i suoi lavori, libri, film, parla di amore, attesa, desiderio.

Questo è il mondo. Si dice da sempre. In Francia questa specie di grazia non c’è più… L’attesa è un fine… non dovremmo sopravvivere a un amore. No, non dovremmo. India song dice la morte. I segni sono di ordine religioso, sacrale. Una cerimonia funebre.

Che atteggiamento ha attualmente verso la politica?

Non credo più nelle virtù della politica. Penso che dovremmo arrangiare le cose, limitare il dolore. Ma credo anche che non potremo cambiare la società. C’è una disfunzione interna alla società. Irrimediabile. Assolutamente irrimediabile… Per prima cosa, l’uomo non è un animale intelligente. La sua natura è malefica. È una malefica emanazione di Dio. Questo è definito e definitivo. L’uomo è fatto per distruggere, annienterà sempre ogni proposta atta a migliorare il suo destino. L’uomo ama il suo destino per ciò che è: gli si presenta, e lo annienta. Questa è la sua grandezza, questo è “l’intollerabile del mondo”.

Come agire agitati da questo pessimismo?

Questo non è pessimismo, si chiama vedere le cose. Sento i problemi del mondo – e l’amore per il mondo. I bambini lo provano. I bambini sono di una abominevole crudeltà. Non li educhiamo, cerchiamo di addomesticarli.

Oltre all’amore, nella sua opera è presente il malvagio, la malvagità…

Vedere è intollerabile, ciò che vedo è difficile. Allora, dico, parlo! Ad esempio, vorrei uccidere gli assassini di Pierre Goldmann. Non sono una persona buona. Come tutti, appartengo alla sfortuna del mondo, alla fattura del mondo. E rispondo a tale disgrazia. Ecco, se potessi uccidere, li avrei massacrati, come cani. Questa è la mia natura. Questa è la natura e l’omicidio ne è parte. In Outside ho scritto del “felice sogno del crimine”. Dico che sono capace di uccidere, e la differenza tra me e un nazista è che io sono consapevole di questo. Il nazista è ingenuo, manca di immaginazione, non crede di poter uccidere, e si giustifica. La donna che indossa la pelliccia di un cucciolo di foca, di questo animale assassinato, a Dallas, del tutto tranquilla, per lei non posso fare nulla. Lei è completamente perduta. Nonostante milioni di parole sul massacro, lei manca di immaginazione. Non vuole nemmeno uccidermi. È perduta.

A un certo punto, però, hai creduto nel sistema riformista…

Certo, ero comunista. Possiamo fare il male? Faccio dire a Walesa, “Anche il male può servire. Basta allontanarlo…”.

Cosa significa?

Che il desiderio di uccidere è una delle costanti della mia vita. L’ho detto. È una delle costanti più costanti…

Ma questo è il tabù primordiale. Se non ci fosse il divieto di uccidere, non sarebbe possibile la società. Freud è molto chiaro in proposito…

Freud non è moralista. Lo è la filosofia. Kierkegaard, Sartre, sono moralisti. Kierkegaard si concede qualche libertà nella scrittura, il suo genio. Sartre no. Non dobbiamo dimenticare che l’esistenzialismo è una mortale. Dalla A alla Z. Ci fanno arrabbiare da decenni. Il comunismo è una piaga morale. Non c’è parola che non sia di ordine morale. La noia mortale è la morale. Lì è peggio della morale cristiana.

Come ne è uscita?

Sono stata cacciata, eliminata. Non ho sofferto. I miei amici sì. Mio marito è quasi morto. Altri sono stati straziati; qualcuno è diventato fascista.

Non ne scrive più?

No, non vale più la pena scrivere del Partito Comunista. Dobbiamo lasciarli morire, senza una parola. Come questo risveglio del fascismo a proposito del martirio degli ebrei, il massacro di sette milioni, ora c’è gente che fa carriera dicendo che non è successo niente, che la storia è fessa, sbagliata. Se nessuno parla di queste assurdità, esse muoiono. Ed è qui che il giornalismo è criminale: non c’è da denunciare, c’è la deontologia del silenzio. Il solo rimedio. Cosa fare contro questo? Non bisogna parlarne. Altrimenti ne parli per nulla. Usano nazisti con le fruste nei film porno. Nessuna critica. Mi sono vergognato per lei, per la Cavani, quando ho visto Il portiere di notte.

Quali sono le sue azioni riguardo a tutto questo, a parte il silenzio?

Aiuto gli obbiettori di coscienza. Presto il mio appartamento per conferenze stampa. Appartengo, con la mia vera identità, ad Amnesty. Mi fido di loro. Per difendere i sindacalisti somali o gli studiosi sovietici. Questa è la mia identità. La sola. Sono arrivata quasi all’indifferenza verso la mia morte. L’idea della mia morte è legata alla totale inutilità dello sforzo per raddrizzare il mondo dal male. C’è un malinteso fondamentale, originario, non lontano dall’idea di Dio. La vita è un accidente matematico, come i batteri dell’influenza ci sono i virus della vita. Non è disperazione. La disperazione c’è quando c’è speranza. Sono stata così per lungo tempo quando avevo 33 anni. Un aborto spontaneo. Svuotata del sangue. Due trasfusioni. Non riuscivo a riprendermi. Ero completamente tranquilla. Ho riso. Non provavo più niente. Mio marito urlava, singhiozzava. Era una sensazione dolce, gradevole, come un consenso. Non conta l’età, ma l’esperienza… Il vantaggio di uscire fuori di sé, come i miei dieci anni di militanza, le ragioni fuori di me per cui dovevo morire. Come il destino dell’ebreo, il dolore di vedere gente torturata, l’ingiustizia arrecata agli arabi durante la guerra d’Algeria, ragioni esterne alla mia vita: una lezione politica tratta dall’errore politico perché è un errore politico militare per dieci anni, di cui, però, non mi pento. La vita è tentacolare, ti porta verso cose più grandi di te, verso una cosa che chiamo alterità.

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