Di recente è uscito per le Edizioni Ares, Karen Blixen, il coraggio, l’amore, l’ironia di Rossella Pretto, un approfondito ritratto della donna e della scrittrice danese. Sullo sfondo, la cronaca di un’epoca al tramonto, quella dell’aristocrazia a cui apparteneva il marito Bror, barone von Blixen-Finecke. In questo volume, Pretto ci restituisce una creatura reale, il suo impegno per la scrittura e la capacità di purificare le difficoltà personali scrivendo, l’adesione ai nativi che conosce in Kenya: la sua vicenda in Africa diventa dunque una sorta di “passaggio” alla Forster tra due culture e due mondi, tagliato a metà dal diaframma ideale e cruento della prima guerra mondiale.

Il libro di Pretto oscilla tra la biografia e il resoconto di viaggio, come il precedente La vita incauta (Editoriale Scientifica, 2023): così una visita a Rungstedlund, in Danimarca, fa entrare direttamente il lettore nella la casa dove la Blixen ha lavorato ed è vissuta negli ultimi anni.

Nota al grande pubblico per il suo libro più apertamente autobiografico Out of AfricaLa mia Africa, grazie anche al film di Pollack con Robert Redford e Meryl Streep, Karen Blixen eccelle nel racconto, e in potenti storie simboliche sublima sofferenza e limiti del vivere, delusioni e asprezze dell’amore, la malattia che per lei è un peso ineludibile. Con dovizia di documentazione e raffinato stile, questa vita Rossella Pretto ce la racconta passo dopo passo mentre segue, contemporaneamente, la storia di una vocazione e il cammino di una donna alla ricerca della propria identità e indipendenza. Che con coraggio, amore e ironia svela al lettore moderno la personalità complessa di una grande autrice.

Come ti sei appassionata a quest’autrice? E perché hai scelto di scrivere su di lei?

È scientificamente dimostrato che lettore e autore si scelgono intavolando un dialogo in cui entrambi cedono e mettono in comune qualcosa. Lo dico in termini scherzosi ma è così. Ne risulta un’alchimia in grado di schiudere un territorio neutro sulla pagina, al centro della quale si impianta un’amicizia (à la Ricoeur). Detto questo, un grande autore ti spiazza sempre. L’ascolto attivo che gli si deve è quello che va alla ricerca di ciò che non ci somiglia. In qualche modo, Karen Blixen è sempre stata nel mio immaginario, fosse anche solo per il sortilegio del film di Pollack, che passando e ripassando in tivù ha da subito azionato uno dei motori dell’opera blixeniana: la ripetizione, il ripetersi del racconto.

Il secondo amo è stato shakespeariano. Essendo patita di Macbeth (vera ossessione per anni), mi occupavo con una certa costanza di riscritture. Nel 2016, poi, la Hogarth Press aveva coinvolto celebri autori contemporanei nel ripensamento (romanzesco) dei personaggi del Bardo. Penso allo Shylock di Howard Jacobson, al Macbeth di Jo Nesbø o al Prospero di Margaret Atwood. Ma ce ne erano altri, come l’Amleto di McEwan o quelli della Tempesta (un personal essay) di Nadia Fusini.

Anche Karen Blixen aveva all’attivo un’intensa restituzione di quest’ultima opera. Sono partita da lì per rileggerla e curarne una rubrica sulla rivista “L’ottavo”. La scrittrice mi metteva di fronte alla trama preziosa che intreccia la vita e ne fa archetipo incarnato in racconto che passa di bocca in bocca, di secolo in secolo – e prende corpo in corpi diversi, così come Ariel svaria da Shakespeare a Blixen diventando Malli. Centrale è ciò che ricomincia infinite volte, che prende le mosse dal particolare e tende all’universale. È il tema indagato da Karen nel “daccapo” di cui è protagonista Pellegrina Leoni, uno dei suoi alter-ego. Ciò che importa è il briciolo di immortalità cui l’uomo può aspirare per non essere nulla, così in “Conversazione notturna a Copenhagen”, dove si dice che Dio ha concesso il Logos perché l’uomo Gli restituisse il racconto della sua esperienza terrena, il Mythos. È un compito, l’umano per eccellenza, a cui la Blixen non si sottrasse, sottraendo invece pelle per amplificare la voce eterna e potente della narratrice.

Scrivi che “le esperienze si condensano, diventano impalcatura di vita e simbolo”: quali sono stati gli eventi chiave nella vita di Karen Blixen che hanno più influenzato la sua scrittura?

Tre su tutti.

a) La perdita. Aveva appena dieci anni quando perse il padre, l’amatissimo, il compagno che le mostrava la vastità di uno sguardo spregiudicato oltre l’universo domestico del femminile. Perdita che divenne strutturale, perché reiterata e dunque sempre presente e nuova, a farle intendere che il mondo degli affetti (e il suo balsamo) le era precluso. Questo la fece interrogare sulle modalità del destino, la Nemesi, che elesse a punto focale nell’architettura dei suoi racconti e che aveva già sperimentato tramite le saghe (di cui fu ricca l’infanzia), la prospettiva (studiata studiando disegno) e il teatro. La sua Nemesi era implacabile e beffarda. Ne scrisse in “Un racconto di campagna”, dove rifletteva sulla retribuzione, su una responsabilità transgenerazionale. La perdita poi la fece ragionare sull’esperienza ciclica, cardine del suo universo psichico e creativo, dacché assunse la morte del padre a paradigma dei successivi lutti e delle composizioni. Scoprì che c’è qualcosa che resiste, nell’esperienza umana, un telaio su cui si originano le storie. È il racconto, così come lei lo concepì e lo concepisce Peter Handke: «E colui che stava raccontando», scrive Handke in La ripetizione, «quello non ero affatto io, ma lui, l’esperire stesso». Chi racconta e chi ascolta, a quel punto, mutano, trascendono, si fanno «senza età». Maschere antiche.

b) Il conflitto tra ordini di valori differenti. Appartenendo a due famiglie profondamente diverse – borghese moralizzatrice, quella materna; di nobili ascendenze ed estetizzante, la paterna – la piccola Karen crebbe accasando un dissidio interiore che le insegnò a costruirsi un’identità problematica. Le sue storie furono modellate sulla collisione che fonda la possibilità del riconoscimento, una sorta di grande scenario che prelude alla battaglia originaria. Attorno a quel nucleo, le storie si organizzano e prendono forma, si schierano e, al segnale convenuto, si lanciano al galoppo in nome della sopravvivenza e della libertà. Perciò, per Blixen, il dolore divenne resistenza, scelta, responsabilità da accettare, je responderais. Giobbe fu basilare nella sua formazione.

c) La malattia. La sifilide (che con giocosa serietà disse al fratello essere stata una prova tollerabile per ottenere il titolo di Baronessa, visto che il marito le passò entrambi) le permise di assottigliare il corpo (e le sue esigenze) in favore della voce. Da sempre aveva considerato il corpo un ingombro (già nel 1928 scrisse alla sorella Ellen che la magrezza era il suo modo d’essere più autentico, la cifra del suo stile). Quando la malattia le si insediò nelle cellule, la carne – dolorante, disturbata, silenziata e resa inerte ai capricci del desiderio – divenne esperienza di superamento in favore della capacità affabulatoria che sottostà al vivere. Per Benjamin, colui che narra accorda l’esistenza al suo racconta­re, come una fiamma che si lascia consumare lenta­mente.

 Scrivi, ancora: “L’Africa le donò ciò che aveva sempre cercato per tutta la vita: la libertà da sé stessi e da un ambiente moribondo”: in quale modo l’esperienza in Kenya descritta in La mia Africa ha plasmato la sua visione del mondo e la sua identità come autrice?

Ho detto della ripetizione e del senso del destino.

L’Africa costituì poi l’incontro con una natura ferina, incomprensibile per chi goda di un ambiente addomesticato e ormai innocuo. La vastità dei paesaggi kenioti divenne anche vastità dell’immaginazione, facoltà che Blixen coltivò frequentando i dirupi del sogno. Scrisse:

«Il piacere del vero sognatore non dipende dalla sostanza del sogno, ma da questo: tutto quello che accade nel sogno non accade solo senza il suo intervento, ma fuori del suo controllo».

Il sogno depone la volontà del dittatore ed esalta la libertà dell’artista, «libero dal volere».

Il distacco imparato attraverso le prove più dure della vita africana le diede modo di affinare la vista dall’alto (così fece sorvolando gli altipiani africani e quelli del sentimento) e di scrivere con la piena consapevolezza dell’abisso esistente tra due culture e due tempi, inadatti a coesistere, quali l’eternità e il presente. L’impassibilità e il distacco approfondirono in lei una vena da moralista – à la Montaigne – che le permise di sviluppare un’osservazione inquieta dell’umano privilegiando la forma breve e sentenziosa: mirava alle strutture profonde, attingendo al pensiero mitico che apre lo sguardo d’insieme. Narrò attraverso quello, con una parola meditata, composta, tramite l’esperienza sublimata capace di depurare le passioni (così come l’amore per Denys Finch Hatton, che divenne «amore tra paralleli», idealizzato nel racconto “Il giovanotto col garofano”, dove gli amanti che, veleggiando agli antipodi, si sono rincorsi sui mari per una vita, proprio al centro di quei mari si potranno rivedere affondando (e dunque in morte) – un’esperienza fusionale).

Karen Blixen ha usato vari pseudonimi, Isak Dinesen e altri, come George Sand, come George Eliot o le Brontë. Perché nel ’900 ha scelto di scrivere sotto nom de plume?

A Karen Blixen piaceva essere spiazzante. E voleva emulare il padre, che scrisse le Lettere dalla caccia firmandosi con il nome datogli dagli indiani, Boganis. Era a quella libertà che aspirava.

Nel 1934, all’uscita del primo libro (firmato appunto con un nome maschile, Isak Dinesen), le chiesero perché avesse scelto di ambientare le sue storie cent’anni prima. Per essere libera, rispose lei, così come aveva optato per uno pseudo­nimo: per essere libera e sbrigliare l’immaginazione senza cedere agli obblighi del realismo. Desiderava essere una narratrice sul modello dei grandi bardi, degli aedi o degli scaldi, i poeti di età vichinga alle corti scandinave. Per i suoi racconti, Karen costruì un im­pianto eterno perché, come affermava, le storie del­le Mille e una Notte radunavano ancora gli arabi nelle piazze, senza mai invecchiare. «Per quanto mi riguarda ho un’unica ambizione, quella di inventare storie, storie stupende», diceva.

Il tema del destino è spesso al centro dei suoi racconti: “Scrisse che gli uomini non cercano sempre la felicità, cercano un destino…”.

Questa massima, la convinzione che la sostanzia, è eterna e fondante. Ancor più per noi, oggi, che non siamo mai abbastanza. Leggevo un’intervista di Francesca Borrelli ad Alain Ehrenberg, giorni fa, in cui il sociologo francese stigmatizzava l’avanzata delle pratiche comportamentali e delle neuroscienze cognitive a danno della psicanalisi – pratica che integra il racconto di sé nell’universo di senso dell’individuo e, come scrive Lionel Trilling, «estrema forma di coraggio tragico di accettazione del destino». Le pratiche neuroscientifiche, invece, «lungi dal rivendicare il carattere tragico del dolore psichico, si rivolgono all’antropologia dell’azione, sostenendo che l’individuo è l’arbitro finale del proprio destino e il suo cervello la sede dei meccanismi decisionali», argomentava Ehrenberg, e continuava dicendo che quelle tecniche non tengono conto delle tensioni morali di una società.

Tutto ciò su cui si regge l’impianto di Blixen.

Anche noi, perciò, che cosa cerchiamo, in questo tempo segnato dall’individualismo di massa, dallo smarrimento e da una impossibile felicità, se non un destino, un ruolo che ci abbracci e ci comprenda mostrandoci qual è il nostro posto?

La scrittura di Karen Blixen ha uno stile elegante e fiabesco. Come ha fuso elementi realisti con toni quasi mitici nei racconti?

Il realismo blixeniano ha gli occhi rivolti all’indietro, visto che la scrittrice non scelse il presente per i suoi racconti (a parte pochissime eccezioni). Come Bertel Thorvaldsen, Blixen fu cantrice di un’epoca al tramonto. Padroneggiarne le linee di forza le consentì di mostrare le strutture che governano l’animo umano. Eterne. Conosceva perfettamente i valori della nobiltà ottocentesca – troppo li aveva frequentati, nel desiderio, per non aderirvi nel profondo. Li raccontò dando nuovo vigore a quegli ideali, a quella grandeur. Ma non si impantanò in questioni contingenti: toccò l’ossatura, non friabile, del sistema uomo.

È moderna per questo, perché “classica”.

Anche le sue donne, voglio dire, non le si può pensare come figlie di una società imbolsita, relegate alla passività, all’inerzia. Erano spesso donne fuori dall’ordinario, come nel racconto dedicato alla spregiudicata e superba Diana che è Héloïse, di “Un’eroina”, la cui figura fermenta fino a palesarsi nuovamente in Ehrengard, contraltare al Diario di un seduttore di Kierkegaard e, in qualche modo, testamento di Karen Blixen. L’erotismo fu elemento in grado di sostenere il mondo, forza teogonica. In Esiodo, Eros era carica generativa. Così in Blixen.

Il dissidio originario in cui era cresciuta, però, la fece propendere per un ritratto a tutto tondo del femminile. La donna non fu solo Diana – combattiva, altera –, ma anche complesso di finezza, pudicizia, seduzione che avvolge tutto in un velo conturbante. Insomma, Karen parlò di un ideale conoscendo bene lo stile in cui si incarnava. Così fuse l’elemento mitico, atemporale, con la forma che, temporalmente, può prendere. Scelse il paradigma e lo declinò.

La malattia ha avuto un ruolo pesante nella sua vita. Queste difficoltà fisiche e psicologiche hanno influenzato la sua scrittura?

Ne ho già accennato in precedenza. Posso aggiungere che la difformità crea spazio, apre storie. La malattia è comunque trasformativa. Come nel “Terzo racconto del Cardinale”. Lì, lady Gordon, una scozzese altera e frigida, deve fare i conti con il male. È proprio quello a cambiarla: la sifilide presa per contatto tramite un bacio dato al piede della statua di san Pietro, in Vaticano, dove poco prima un malato aveva appoggiato la bocca. Ironia della sorte. Di più, Sheherazade, colei che narra per scampare all’ennesima notte, per far salva la vita sua e quella di innumerevoli donne, fu un modello assoluto per Karen Blixen: anche lei doveva scavalcare il pericolo incombente del buio; anche la sua era una battaglia contro la morte. Poteva tentare il destino solo dando forma a una storia, una di più, un’altra ancora, che tenesse lontano lo spettro del “carnefice”. A volte, il dolore non le lasciava scampo. Allora dettava i racconti alla sua segretaria stesa per terra cercando sollievo nel pavimento e nella briglia sciolta dell’immaginazione.

Cosa rimane del lascito letterario della Blixen e in che modo la sua scrittura continua a ispirare nuovi lettori e autori?

Karen Blixen ci consegna il dono di una tela preziosa, fatta di trama e ordito – non l’illimitata e banale piattezza di storie ombelicali disancorate dalla tradizione che indaga l’Essere. Blixen avrebbe sbuffato di fronte alle riscritture del mito dominate da uno psicologismo atto solo a dare all’Ego un risarcimento narcisistico. L’eredità che ci tramanda è costituita dall’architettura meticolosa del racconto che cancella le orme di chi scrive in favore di un’alterità che maggiormente lo rappresenta. Nella Nascita della tragedia,Nietzsche scriveva che il poeta lirico (Archiloco, in quel caso) è colui che si presta, si fa attraversare: una visione del «genio dell’universo, che esprime simboli­camente il dolore originale in quel simbolo che è l’uo­mo Archiloco». Il filosofo fu un riferimento alto e costante di Karen.

La scrittrice Jeanne Stafford, che la incontrò e intervistò (e fu critica nei confronti del suo lavoro), disse che l’ironia è una forma di immortalità molto alta. Blixen sarebbe stata d’accordo. L’uscita da sé è fondamentale perché il sé è solo un trampolino.

Ma è forse un lavoro da poeti. Penso a Giuseppe Conte che rimette in moto la ruota di Medusa nel bel romanzo da poco uscito per Bompiani. È una storia moderna, ma quale ricco tesoro si intuisce dietro la maschera presa dall’archetipo, nel presente architettato da Conte? D’altronde, Conte ha fondato il mitomodernismo, dove la bellezza è considerata profonda moralità e dove il mito ha il compito di riportare tra noi anima, natura, eroe, destino. Penso poi a cosa ha fatto Rosita Copioli di Elena, Copioli interprete di Yeats nel recente (ma pluridecennale in quanto a studi) invito alla lettura pubblicato per Ares, in cui scrive che «l’inseguimento del ritmo e della sua energia è la ricerca del segreto dell’immortalità». Vi avrebbe posto il suo sigillo la Blixen? Certo che sì.

Mi è capitato anche di leggere il racconto di Benedetta Cibrario “Due capponi di prima classe”, edito da Mondadori nella raccolta Sono molte le cose umane: una degna sorella di Babette, con tutte le carte in regola per una storia senza tempo, una “storia immortale”, per citare il celebre racconto della scrittrice danese poi sceneggiato da Orson Welles.

È in questi solchi che si rintraccia il seme lasciato da Karen Blixen.

Vorresti definire la Blixen con un’immagine, o uno o più aggettivi?

L’ultima immagine che mi piace utilizzare per definirla, perché la completa, è quella di Pierrot. Così la si vede in una foto: il velo arricciato sul collo come un collare elisabettiano, la veste morbida e setosa sul corpo esile, la cuffia nera stretta sulla testa su cui si erge la piuma imperiosa e… lo sguardo, lo sguardo canzonatorio. Non si può pensare che la Blixen sia stata solo la tragedia che l’ha consegnata al ruolo ancestrale di narratrice, il daimon esigente che la voleva per sé. Diceva ai giovani che nulla ha senso senza coraggio, amore e ironia. Ironia che per lei, in ultima analisi, costituiva la superiore accet­tazione del destino. Karen Blixen era dunque pure sorniona, ironica, amante dello sgambetto della sorte. A volte, una piccola buffona, molto raffinata ma impertinente – ne sapeva qualcosa il poeta Thorkild Bjørnvig, che la Baronessa spedì un giorno a prendere un’amica, la contessa Caritas Bernstorf­f-Gyldensteen, con una testa caravaggesca intrecciata di fresie.

Le piaceva fare scherzi.

Se ne era conquistata il diritto.

*L’intervista è a cura di Paola Tonussi

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