17 Agosto 2020

“Non abbiate timore dell’assurdo; non indietreggiate dinanzi al fantastico”. Sia lode a Karen Blixen e alle sue mille maschere

Sarebbero morte, entrambe, tre anni dopo. Lei, l’attrice, per scelta. L’altra era più vecchia di quarant’anni – la prima aveva sedotto Hollywood, e da quella luce era stata sconfitta; l’altra, capitata lì da un mondo tanto lontano da sembrare perduto, aveva conquistato l’Africa, l’aveva lasciata e una nostalgia, luminosa come l’assalto, continuava a tormentarla. L’incontro del 5 febbraio 1959 era stato organizzato da Carson McCullers, la grande scrittrice de Il cuore è un cacciatore solitario. La baronessa von Blixen-Finecke pasteggiava con ostriche, uva e champagne. Fu accontentata. Secondo la leggenda – sconfitta dalle ciniche testimonianze di Arthur Miller – Marilyn Monroe si mise a ballare con la Blixen, “sul tavolo della sala da pranzo, con ripiano in marmo”. In ogni caso, la McCullers amava ricordare questo episodio che, forse, le dava vento ai capelli, la rendeva felice. Naturalmente, l’evento accadde in favore di fotografi, i giornali scandinavi partorirono spumeggianti copertine – “Karen Blixen incontra Marilyn Monroe, icona sexy”. In una fotografia, la McCullers fissa il vuoto, sconfitta, mentre la Blixen mostra, frizzante, un dattiloscritto alla Monroe, che ha il consueto sorriso lunare. Di fianco a Marilyn, il corpo assoluto, carne che scintilla, la Blixen appare minima, magrissima, eppure inequivocabile. Un verbo in pietra.

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Mario Praz, che l’aveva conosciuta a Roma, l’aveva descritta così: “Uno scheletro dagli stinchi fasciati di calze trasparenti, con occhi vuoti come succhielli, e un collo così scarso di carne da somigliare a uno dei teschi animati di Félicien Rops”. La Blixen si era mutata in feticcio, figura da temere.

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La Blixen fu nominata al Nobel per la letteratura con costanza, dal 1955 in poi. Il 1959 pareva l’anno adatto: le insondabili arpie svedesi le preferirono Salvatore Quasimodo. Tra i romanzieri del gineceo, la Blixen appariva incatalogabile, rétro, disimpegnata. Ignara dello sperimentalismo narrativo, scevra dai battibecchi intellettuali, amava narrare, riavviando una tradizione antica, che unisce le Mille e una notte ai canti serali, intorno alle mura di Troia, i racconti islandesi alle leggende dei cantastorie d’Africa. Troppo ‘virile’ per gli scrittori da rivista, Karen. Nel 1954, contattato dai giornalisti dopo l’annuncio dell’assegnazione del Nobel, Ernest Hemingway sorprese tutti. “Sarei stato felice – più felice – se questo premio, oggi, fosse andata a quel meraviglioso scrittore che risponde al nome di Isak Dinesen”. La Blixen aveva cominciato a pubblicare, nel 1934 – Sette storie gotiche – con lo pseudonimo, Isak Dinesen, appunto. Aveva perso tutto. Non le restò che inghiottire il nome. Nel viaggio americano avrebbe voluto incontrare Hemingway: non si incrociarono mai. Lei gli rispose con un telegramma: “Spesso ho immaginato che sarebbe stato bello condividere un safari, insieme, lungo le pianure dell’Africa”.

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Più che i libri – editi, in Italia, da Adelphi e Feltrinelli – della Blixen si conosce il tradimento cinematografico. Orson Welles gira, nel 1968, Storia immortale; nel 1982 Emidio Greco elabora Ehrengard; nel 1987, con Il pranzo di Babette, Gabriel Axel ottiene l’Oscar come miglior film straniero. Naturalmente, tutti conoscono La mia Africa (firma Sydney Pollack, 1985): la Blixen è interpretata da una straordinaria Meryl Streep, mentre l’amato Denys Finch-Hatton – aristocratico inglese, dandy cacciatore, playboy in quinta esotica – è Robert Redford. Il tutto – sei Oscar su dieci nomination – rischia di essere un melodramma coloniale, una indimenticabile cartolina, avulsa dal libro, che è ben altro. Eppure, la baronessa tra le fiere – s’intenda: gli umani in quella fetta di mondo – è immagine affascinante. La Blixen, per potenza ipnotica, potrebbe cavalcare i leoni. Uno dei capitoli più belli del libro – autobiografia africana per taccuini – è dedicato al legame tra Karen e la gazzella Lulu, cresciuta nella fattoria, poi libera. “Un tempo conoscevo una giovane principessa in esilio, che aspirava al trono; ora, quella stessa principessa, la ritrovavo nello splendore della regalità riacquistata… Ora era interamente se stessa. Ogni spirito aggressivo l’aveva abbandonata: chi avrebbe dovuto assalire e perché? si fondava tranquilla sui suoi diritti divini… Mi squadrò un attimo, gli occhi viola e fumanti, senza espressione. Non battè ciglio e ricordai che questo è un tratto degli dei e delle dee: avevo la sensazione di trovarmi davanti Hera, la dea dagli occhi bovini”.

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Sylvain Tesson, in La pantera delle nevi, parla con meraviglia de La mia Africa. Insegna, dice, come sia possibile continuare a stupirsi pur guardando, ogni giorno, lo stesso paesaggio. Lo splendore di quel libro è questo, in effetti: la Blixen – la Danimarca conficcata nell’occhio sinistro dell’Africa, Amleto sul trono di un baobab – ammira un mondo sorgivo, violento e violato, al di là della giustizia e dunque della corruzione, nel torpore dell’ultimo giorno. La mia Africa sembra – pure per genesi letteraria e intenti – il contrario di Cuore di tenebra: la Blixen tenta di tessere la luce, e il suo gergo oscuro. Ma l’Africa non si lascia conoscere né convincere, non ha un sapere da divulgare, come l’Oriente, ma respinge, oppure inghiotte. La natura del Buddha, qui, è la caccia e la danza; il rito è il sonno meridiano, la contemplazione della preda. “I kikuyu sono preparati all’imprevisto e abituati all’inaspettato. In questo sono diversi dai bianchi, che di solito cercano in tutti i modi di proteggersi dall’ignoto e dagli assalti del fato. L’indigeno, invece, considera il destino un amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui, in un certo senso, è la sua casa, l’oscurità familiare della capanna, il calco profondo delle sue radici. Egli affronta con grande calma ogni cambiamento”. Se sei un uomo in fuga, l’Africa ti azzanna, non offre rifugio; è per chi segue vaste avventure, disperde i nomi, non ha fretta né scopo, ha storie da narrare.

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Karen Blixen, prima di perdere il nome per penetrare la giungla letteraria, perse tutto. Il padre, Wilhelm Dinesen, si era ucciso quando aveva dieci anni. Era un tipo della stirpe di Caino: dopo la morte di una amata, partì per gli Stati Uniti, visse due anni nel Wisconsin come cacciatore, tornò nell’avita Danimarca. Accasato, mise incinta la donna di servizio. Il tradimento e la depressione lo stroncarono. Innamorata di un cugino, che non ricambiava, Karen sposò il fratello gemello di lui, il barone Bror von Blixen-Finecke: insieme, nel 1914, si trasferirono in Kenya. “Non amava il marito, ammalato tra l’altro di sifilide, da cui fu contagiata, e il matrimonio durò pochi anni”. Si unì, per sporadici momenti di felicità, a Finch-Hatton, ma perse pure lui, in un incidente aereo, nel 1931. L’Africa le aveva dato molto, le aveva sottratto altrettanto, le fece capire che aveva un talento nel costruire storie: quello stesso anno tornò in Danimarca. Scrisse Racconti d’inverno, I vendicatori angelici, Ultimi racconti, Capricci del destino. “Non abbiate timore dell’assurdo; non indietreggiate dinanzi al fantastico. Di un dilemma scegliete la più inaudita, la più pericolosa delle soluzioni”, diceva. Non tornò mai più in Africa, perché è inutile vedere ciò che la scrittura ha sancito. Scrisse sotto la maschera di diversi nomi, a seconda dei paesi in cui pubblicava e dei generi che praticava: Tania Blixen, Osceola, Pierre Andrézel sono quelli più noti. Le piaceva camuffarsi da maschio. (d.b.)

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