Leggendo i romanzi di Kent Haruf viene da domandarsi: come ha fatto l’uomo ad andare sulla luna dal momento che l’umanità è così inetta? Come è potuto avvenire il progresso delle scienze? Come hanno potuto svilupparsi l’arte, la filosofia, la grande letteratura? Ah, già, dimenticavo: per qualcuno non ci siamo mai andati sulla luna. Anche Haruf doveva pensarla così, sotto sotto. Quella descritta da Haruf è un’umanità in chiave minore, inferiore a quella vera. Individui che non combinano niente, non sanno fare niente né dire niente. Con il pretesto di raffigurare l’uomo comune, Haruf mette in scena un’umanità castrata, incapace di qualsiasi iniziativa che non sia l’ordinaria amministrazione, la sopravvivenza. E così i lettori leggendolo si sentono sollevati. Fa sempre bene immaginare che gli altri stiano peggio di noi. Ma Haruf non è in buona fede: non si comporta come chi sa di descrivere solo una parte di umanità, ma come se avesse la pretesa di descriverla in toto. Come se dicesse: signori, questa è la specie umana.
No, il minimalismo (quello lirico di Haruf come quello ironico di Carver) non è un semplice genere letterario, una questione di stile, una poetica. Il minimalismo deve prima rispondere a un grande interrogativo: come è stata possibile la civiltà se l’uomo è una tale nullità? Ecco la mia risposta: il minimalismo è una ideologia politica che predica l’umiltà e l’uguaglianza, l’appiattimento. Anche questo va bene. Ma è una visione limitata: è importante saperlo. Qualcuno dirà: tutti i romanzi propongono un punto di vista, una peculiare visione del mondo. Vero, ma non tutti hanno la tendenza a indossare un saio francescano come fa Haruf, in un modo che può suonare irritante e ipocrita. Bisogna tuttavia riconoscere che Haruf ci sa fare. Io stesso ne sono rimasto irretito. Lo scrittore di Pueblo (Colorado), morto nel 2014, sparge qua e là un po’ di sana cattiveria e la giusta dose di buoni sentimenti. E, ciliegina sulla torta, un pizzico di poesia. Il tutto mescolato con maestria. Eppure, chi ha orecchio sente subito che qualcosa stride. E che alla lunga è un imbroglio. L’umanità non è così. Haruf ha scelto di mostrare uomini e donne che non sanno mai cosa dire. Nei suoi romanzi sembra che nessuno sappia mai come comportarsi. Il massimo dei dialoghi tra i personaggi è di questo tenore:
Che cosa ha mangiato a colazione? Ha fatto colazione?
Ho mangiato qualcosa.
Che cosa?
Lui guardò Mary, che era in piedi dietro l’infermiera con Lorraine.
Hai mangiato il porridge, disse Mary.
Ho mangiato un po’ di porridge, confermò Dad.
Cosa farò oggi?
Oggi?
Sì.
Non molto
A cosa sta pensando? Le va di dirmelo?
Pensavo che vorrei starmene un po’ in pace, rispose lui.
Avresti dovuto conoscermi a Denver, le disse. Lì era tutto diverso. Avevo degli amici, La gente mi conosceva.
Che cosa facevi? Te ne stavi lì a ciondolare e a giocare con il computer?
No. Ci divertivamo. Non era male.
Cosa facevi?
Era diverso, C’erano un sacco di cose da fare. Mangiavamo nei bar. Ridevamo in continuazione. Bazzicavamo nei centri commerciali.
Anche noi usciamo la sera. Anche noi chiacchieriamo.
Ma sì. Certo.
Laggiù non avevi una come me, vero?
No.
Bene.
Non so, era tutto diverso, tutto qui. Sto solo dicendo questo. Sarebbe piaciuto anche a te.
Mi vuoi dire cos’è questa storia? disse Dad.
Non c’è niente da dire, rispose Frank.
Quelli erano i vestiti di tua sorella.
Sì.
Sa che glieli hai presi?
No. Ma mica li stavamo rovinando.
Credi che la penserebbe così anche lei?
Non le importerebbe.
E perché non dovrebbe importarle?
Non le importerebbe e basta.
Come lo sai?
Non lo so con certezza.
Le hai parlato di quello che stavi facendo?
No.
Non ne sa nulla? Del fatto che voi due avete usato i suoi vestiti?
No.
Gesù Cristo. Guardò Frank, studiando il suo volto. Che cosa dovrei fare?
Devi lasciarmi in pace.
Devo lasciarti in pace.
Per favore.
Dad lo guardò. Cristo, disse. Ma tu cosa sei?
Sono soltanto tuo figlio. È tutto quel che sono.
Resta qui. Fermati per la notte. Per favore.
Come faccio?
Chiamala. Dille che sei bloccato nella neve, che non puoi partire. Sei rimasto in riunione fino a tardi e non sei riuscito a partire quando pensavi.
La riunione è finita questo pomeriggio.
Inventati qualcosa.
Non posso.
Certo che puoi. Lo stai già facendo. Tutti e due lo facciamo.
Stasera non posso.
E quando potrai? Quando cambierà qualcosa? Succederà mai?
Sì.
Quando?
Non lo so. Non posso saperlo.
E allora forza, vattene, se proprio devi. Gli voltò le spalle.
Non fare così.
Tu non sai come ci si sente, disse lei. Non ne hai idea.
Ammettiamo pure che siano costruiti magistralmente. Ma è chiaro che vanno tutti in un’unica direzione e non sono altro che dei piccoli manifesti politici.
Certo, anche il titanismo di certa letteratura è un imbroglio. Haruf ha forse creduto di rappresentare la realtà, l’incomunicabilità tra le persone (anche se io non lo credo; ci vedo della premeditazione nei suoi eccessi, del fanatismo), ma ha finito per rappresentare fantocci, non persone in carne e ossa. Il tutto con una scrittura che sa essere precisa e poetica, a suo modo, ma stilizzata. L’unica consolazione è che del successo improvviso di Kent Haruf in Italia abbia beneficiato un piccolo editore milanese, NN, cui va il merito di averlo riscoperto e rilanciato con grande abilità. Dopo essermi immerso nella cosiddetta “Trilogia della Pianura” (Il canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione), confesso che per riprendermi ho dovuto ricorrere a un robusto ricostituente: il buon vecchio Bukowski. E ha funzionato. Una volta Bukowski era un dio. Ora la sua immagine è un po’ appannata. Fa nulla. Ora è il momento di Kent Haruf. Ma è solo una moda, potete starne certi. Ah, le mode! Sono davvero tremende. Ci rendono ciechi. Fanatici. E quando soffiano in una certa direzione mettersi controvento è temerario. Eppure, quando tra qualche anno nessuno si ricorderà più di lui, il vecchio Buck sarà ancora lì al suo posto. Bello come il sole. Tenetelo a mente.
Gianluca Barbera