I “diari” di Kafka, in verità, non esistono. A differenza di altri scrittori – i quali, colti dalla notorietà, scrivono le proprie note “intime” presupponendo di pubblicarle, certi che prima o poi saranno pubbliche, assegnando dunque al falso una raddoppiata mistura di menzogna – Franz Kafka elabora una mole di taccuini, quaderni, note a margine, mangime per il suo immaginario, intesi a restare per sé – dunque, per te, lettore solatio. Al mondo, di quei testi restituisce una parte: le prove di alcuni racconti, poi rifiniti, l’entusiasta frazione di un sogno, una frattura. I taccuini di Kafka sono un insieme di osservazioni acefale, di mostri che legano autobiografia e autoinganno, miraggio e Minotauro, dèi sprovvisti di braccia.
I “diari” di Kafka – cioè, una serie di testi chiamati “diario”, con le noterelle cronologiche esatte e le frasi ben distese – non esistono. Perfino Ervino Pocar, nell’allestire l’edizione delle Confessioni e Diari per Mondadori (1972; che sarà presto sostituita da una versione più ‘aggiornata’) non sapeva da che lato prendere le “svariate e iridescenti tessere che compongono il grande mosaico di questo libro: sono appunti con riflessioni, considerazioni, fantasie, commenti a fatti del giorno, critiche di uomini e libri, pensieri, idee balenanti e aforismi, abbozzi di racconti e progetti di lavori da svolgere, fiabe e parabole…”. In un primo momento avrebbe voluto titolare quella materia verbale oscura “Zibaldone di pensieri, se non fosse che da gran tempo… un’altra opera immortale se l’è accaparrato”. L’anno scorso, in due tomi, la ‘Bibliothèque de la Pléiade’ Gallimard ha pubblicato Journaux et lettres di Kafka, sotto la direzione di Jean-Pierre Lefebvre. L’anno prima, come Journal, è uscita “l’edizione integrale dei taccuini (1909-1923)”, o Tagebücher, a cura di Dominique Tassel: da quella abbiamo tratto i testi che qui si traducono.
Sembra che il frammento, l’apoftegma, la coltellata verbale, la rivelazione con le spine in faccia, sia lo stigma di Kafka, la sua più vera via. Come sempre, per entrare nel kafkiano mondo bisogna cercare gli spiragli, la porta senza palpebra, un nodo nell’iride.
**
Franz Kafka, Diario
Spettatori pietrificati quando passa il treno.
*
“Mi interroga senza arretrar”: staccata dalla frase, la e vola come un pallone sul prato.
*
La sua serietà mi uccide. La testa nel colletto, i capelli in ordine, immobili, intorno al cranio, i muscoli della faccia tesi.
*
La foresta è ancora lì? La foresta, grosso modo, è ancora lì. Ma appena lo sguardo avanza di dieci passi, mi abbandono, preso dalla noia della conversazione.
*
Nella foresta oscura, dal terreno bagnato: fu il bianco del suo colletto a orientarmi.
*
In sogno, pregai la ballerina Eduardowa di ballare ancora una volta la csarda. Aveva una larga banda d’ombra o di luce in mezzo al volto, tra il bordo inferiore della fronte e la metà del mento. In quel momento, arriva qualcuno, ignoto, che con i nauseanti gesti dell’intrigante le dice che il treno sta per partire. Dal modo in cui ascolta la notizia, mi pare di una crudeltà evidente che lei non ballerà più. “Sono una donna cattiva, non è vero?”, dice. Oh, no, non ho detto questo, e mi volto verso la direzione da cui sono giunto, per andarmene.
In precedenza, le avevo chiesto dei tanti fiori infilzati nella sua cintura. “Provengono da tutti i principi d’Europa”, mi ha detto. Rifletto sul senso che possono avere quei fiori, infilzati nella cintura, offerti alla danzatrice Eduardowa da tutti i principi d’Europa.
*
La ballerina Eduardowa, appassionata di musica, viaggia in tram, come dappertutto, accompagnata da due violinisti che fa suonare spesso. Non c’è motivo di non suonare sul tram, purché l’esecuzione sia buona, piaccia ai viaggiatori e non costi nulla, non ci si riduca, cioè, a questuanti. Certo, all’inizio tutti restano sorpresi, sul momento lo trovano incongruo. Ma a tutta velocità, tra la corrente d’aria, nella strada silenziosa, quel suono riempie di gioia, è bello.
*
La ballerina Eduardowa, all’aria aperta, non è bella come lo è sul palco. La carnagione pallida, gli zigomi che tendono la pelle a tal punto da impedire il pieno moto del viso, il grande naso – che sembra elevarsi da un abisso – di cui non puoi testare la durezza, né tirarlo da una parte dicendo, “ora vieni con me”, la figura enorme stretta in gonne di larga taglia, con una profusione di pieghe, a chi può piacere – assomiglia a una delle mie zie, una dama di una certa età, che assomiglia a molte altre zie di una certa età di una moltitudine di persone. Nulla in effetti può compensare i difetti dell’Eduardowa all’aria aperta, a parte i piedi, di ottima fattura: non c’è davvero nulla in lei che sappia incitare al sogno, allo stupore o semplicemente al rispetto. Molto spesso ho visto l’Eduardowa trattata con malcelata indifferenza anche da gentiluomini altrimenti molto mondani, a dispetto della cura che ovviamente si premuravano di avere nei confronti di una ballerina così famosa come l’Eduardowa.
*
Al tatto, la conca del mio orecchio era fresca, ruvida, fredda, succosa come una foglia.
Scrivo questo perché, è ovvio, dispero del mio corpo, dell’avvenire con questo corpo. Quando la disperazione è così categorica, così attaccata al suo oggetto, così rattenuta, come un soldato che copra la ritirata fino a farsi sbranare, allora non è vera disperazione. La vera disperazione supera sempre il segno, (con questa virgola, chiarifico che la prima proposizione, da sola, è giusta)
Sei disperato?
Sì? Sei disperato?
Vuoi salvarti? Vuoi nasconderti?
*
Sono passato davanti al bordello come davanti alla casa della donna che amo.
*
Ciò che dicono gli scrittori emana fetore.
*
Le bianche vesti sotto gli scrosci.
*
Dal finestrino dello scompartimento.
*
Finalmente, dopo cinque mesi della mia vita durante i quali non sono riuscito a scrivere nulla di soddisfacente, e che nessun potere mi risarcirà benché tutti siano tenuti a farlo, mi viene l’idea di rivolgere una nuova parola a me stesso. Non ho mai mancato di rispondermi, quando mi interrogavo con sensatezza, in quel caso ho sempre imparato qualcosa da me, dal pagliericcio in cui sto da cinque mesi, che sembra destinato ad essere acceso, a bruciare d’estate, più rapido di un battito di palpebre. Se solo mi capitasse simile sorte! Dovrebbe capitarmi dieci volte perché non rimpiango quel periodo maledetto. Il mio stato non è di infelicità, ma neppure di benessere, non è indifferenza né debolezza né stanchezza né interesse per altro, dunque cos’è? Che non lo sappia, dipende forse dalla mia incapacità di scrivere. Credo di capirla, senza conoscerne la ragione. Tutte le cose che mi vengono in mente, non giungono dalla radice, ma da qualche parte, verso il centro. Che qualcuno cerchi di trattenerle, di strappare un’erba bruta e di tenerla stretta, se cresce soltanto a metà del gambo. Sono pochi a possedere un simile potere: i saltimbanchi giapponesi, ad esempio: si arrampicano su una scala che non poggia a terra ma sulla pianta dei piedi di un uomo sdraiato, che la tiene diritta, non appoggiata al muro, sospesa nell’aria. Non ne sono in grado, d’altronde la mia scala non ha nemmeno quei piedi a disposizione. Questo non è tutto, e un quesito del genere non basta a farmi parlare. Ma ogni giorno, almeno una frase deve essere puntata contro di me, come si puntano i telescopi verso una cometa. E se mi capitasse un giorno di presentarmi al cospetto di questa frase, allettato da questa frase come lo sono stato ad esempio lo scorso Natale quando sono arrivato al punto in cui riuscivo a malapena a tenermi ritto, e mi sembrava davvero di aver raggiunto lo scalino più alto della mia scala, verticale, sul pavimento, contro il muro. Ma che suolo! Che muro! Eppure, quella scala non è caduta: i miei piedi la premevano a terra, i miei piedi la tenevano contro il muro.
Franz Kafka