
“Tutto era ombra. Mi avventurai in profondità”. Storia di Margiad Evans, l’epilettica geniale
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Il più grande romanzo del Novecento italiano è stato scritto da un autore che non parlava italiano. E questo è soltanto uno dei paradossi che accompagnano la nascita della «Coscienza di Zeno» e la vita di Ettore Schmitz, lo scrittore triestino che volle ribattezzarsi con lo pseudonimo di Italo Svevo. La lingua, dunque. La sfida che, a differenza di tutti gli altri scrittori del mondo, lo scrittore italiano si è trovato ad affrontare ogni volta che ha progettato un romanzo è stata questa: come lo scrivo? In che lingua? L’italiano è, infatti, come si sa, un’invenzione tutta letteraria. Basti pensare al travaglio linguistico che accompagnò per decenni Manzoni nella stesura dei «Promessi sposi», che aveva appunto sottesa un’unica, inesausta domanda: «In che lingua lo scrivo»? Per non parlare di quell’altro capolavoro che è «I malavoglia» di Verga (o «Quer pasticciaccio» di Gadda, o «Il partigiano Johnny» di Fenoglio). Come se ogni romanzo italiano, per essere grande davvero, avesse dovuto inventarsi una propria lingua, o meglio una propria personale soluzione alla perenne «questione della lingua».
Per molto tempo l’italiano di Svevo (un cognome scelto per dimidiare, non a caso, la propria nazionalità e cultura) è stato giudicato approssimativo: un «italiano fortuito e avventizio» secondo la celebre definizione di Giacomo Debenedetti. Ettore Schmitz, difatti, l’italiano non lo parlava mai: come Zeno Cosini usava solo il «dialettaccio» triestino, quello «strano e personale dialetto intimo» che lo stesso Debenedetti notava nei suoi personaggi, prima di venire alla luce come lingua tradotta in toscano. Ma l’italiano di Svevo – un italiano tecnico, commerciale, pratico, perfino burocratico a volte – è la dimostrazione che si possono scrivere capolavori anche senza infiorettare la lingua, senza specchiarvici dentro, senza ammirarsi nel bello scrivere, senza formalismi dannunziani, senza slanci lirici e descrittivi, ma semplicemente rendendo la propria lingua prensile, facendola aderire alle cose, ai fatti e ai pensieri. In tal senso l’anomalia sveviana è figlia del suo dilettantismo: totalmente estraneo alle conventicole e alle scuole letterarie, Schmitz lavora come impiegato di banca per diciotto anni (dal 1880 al 1898), durante i quali pubblica due romanzi che passano sotto silenzio, benché il secondo, «Senilità», sia già di livello altissimo. Dopo il matrimonio, deluso dal fallimento di pubblico e critica delle sue opere, decide di abbandonare la letteratura e dedicarsi anima e corpo all’amministrazione dell’azienda del suocero, un’importante società produttrice di un colorante anticorrosivo per gli scafi delle navi. Ma in realtà Svevo continuò a sopravvivere a Schmitz, e seguitava a redigere i suoi diari, a prendere appunti, a stendere lavori teatrali e racconti. E soprattutto a progettare il romanzo più importante e rivoluzionario della letteratura italiana del Novecento.
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Una volta, da ragazzi, un mio caro amico mi disse una frase che non ho più dimenticato: «La vita è un compromesso con la mediocrità». Me la disse, questa frase, mentre eravamo in Vespa, lui avanti e io dietro, vagando per la città senza una meta precisa, come si fa spesso da giovani, e non ricordo più parlando di che cosa. Fu una frase che mi colpì come una sferzata. Certo era inadeguata e inaccettabile per la nostra età (non avevamo ancora diciott’anni all’epoca) e soprattutto per me, che ero tutto teso verso l’assoluto e il rifiuto sdegnoso di ogni compromesso. Ma avevo già letto e amato «La coscienza di Zeno», un romanzo anch’esso totalmente inadeguato alla gioventù, il romanzo senile per eccellenza, la cui grandezza si riesce a comprendere in maniera direttamente proporzionale al passare dei nostri anni. E per questo subito colsi in quella frase un accento sveviano. Certo Zeno Cosini sostiene che «la vita non è né brutta, né bella, ma originale!», eppure nel dichiarare che in quel compromesso con la mediocrità si nasconde l’essenza della vita, il mio caro amico fece sfoggio di un’ironia degna di Zeno, ovvero l’inetto più amabile della letteratura italiana (e forse mondiale) del Novecento. In una lettera a Valerio Jahier del dicembre 1927, Svevo scriveva: «Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del Superuomo come ci è stata gabellata». Ecco, dunque, che in quell’inettitudine, in quell’inerzia, in quella mediocrità, proprio come l’uomo senza qualità di Robert Musil, vi è nascosta una vitalità sotterranea, una protesta, appunto. Di fronte ai ridicoli vaneggiamenti sul Superuomo dannunziano, Zeno Cosini (in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci appare vicino e fraterno e adorabile. Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche lui. Quando muore il suo rivale antagonista Guido Speier, si accoda al funerale sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta (quell’U.S. che comincerà a scrivere ovunque nei suoi appunti di diario). Perfino la scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un ridicolo errore, e di un forzato accomodamento con la mediocrità. Zeno è un personaggio agito (in questo profondamente freudiano), un uomo che non ha più in mano il suo destino, ma che si lascia trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma è proprio così? O in questo naufragio (che egli chiama malattia) riesce a trovare la sua – e la nostra – salvezza?
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In fondo Aron Hector Schmitz è un italiano per caso. Nasce a Trieste nel 1861 da famiglia ebraica, padre tedesco e madre italiana, nell’allora impero austro-ungarico. Studia in Baviera, parla il tedesco, legge Nietzsche, Schopenhauer, più tardi Freud. Del tradizionale letterato italiano non ha nulla. Né la lingua, né la cultura, né l’istruzione. Non ha nemmeno un diploma liceale. Proprio per questo il suo ultimo romanzo, scritto a quasi sessant’anni, cadrà come un meteorite sul panorama letterario nazionale, sconquassando il suo ecosistema. A scoprirlo, come si sa, fu James Joyce. Il giovane scrittore irlandese si trovò per caso a dare lezioni di inglese, nel 1907, mentre viveva a Trieste, a questo maturo amministratore di una importante società internazionale. Svevo ne aveva bisogno per facilitare i suoi rapporti di affari con lo stabilimento che l’azienda aveva aperto nei pressi di Londra e cominciò a prendere lezioni tre volte alla settimana nella fabbrica di Servola, alla periferia di Trieste, da questo geniale «mercante di gerundi», come lo soprannominò, che ancora doveva pubblicare i «Dubliners», ma che lasciò a bocca aperta il suo allievo e la moglie quando gli lesse un giorno il suo racconto «The dead» appena finito, al punto che Livia Veneziani, la signora Schmitz (alla cui bionda chioma Joyce si sarebbe ispirato per un celebre passo del «Finnegan’s Wake») scese nel giardino della sua villa, che sorgeva accanto alla fabbrica, raccolse un mazzo di fiori e lo portò in omaggio allo scrittore irlandese. Si sa che Ettore Schmitz fu uno dei principali modelli per il Leopold Bloom dell’«Ulysses» (oltre che fonte della maggior parte delle informazioni sul mondo ebraico che Joyce utilizzò nel suo capolavoro). Ciò spiega la somiglianza, e l’amabilità, di Poldy e Zeno. Così era Schmitz: cordiale e semplice con tutti, con gli amici e anche in fabbrica con i suoi operai, e ai ricevimenti sapeva essere sempre al centro dell’attenzione senza protagonismi, facendosi semplicemente ammirare per la sua ironia, che rivolgeva soprattutto verso se stesso, segno inequivocabile di grande intelligenza. Così quando Svevo pubblicò «La coscienza di Zeno» nel 1923, scoraggiato dall’ennesimo fiasco cui stava andando incontro il libro, scrisse all’amico Joyce per dirgli che aveva capito d’aver commesso una sciocchezza, per giunta a un’età in cui non è decoroso fare brutte figure. Ma Joyce, che stava leggendo il romanzo, lo incoraggiò: «Perché si dispera? – gli rispose – È di gran lunga il suo miglior libro». Due cose della «Coscienza» avevano colpito Joyce: il tema del fumo e il trattamento del tempo. In effetti il tema freudiano dell’incapacità di dominare il proprio inconscio, sviluppato in quel modo così semplice e apparentemente banale come l’incapacità di smettere di fumare, era nuovo. Così come rivoluzionario era l’uso del tempo: i riferimenti cronologici sono sparsi nel romanzo con apparente casualità, dal 1870 al 1916, e il tempo viene così polverizzato, disarticolato in un tempo misto, che è poi quello della coscienza: gli stessi avvenimenti non esistono più come struttura di un intreccio tradizionale, ma come semplici reperti della nevrosi, e a differenza di Proust, che attraverso la letteratura recupera il tempo perduto, Svevo dissipa continuamente il presente. Nel romanzo tutto è già avvenuto, e Zeno è come imprigionato in un tempo circolare. Tutto ciò impressionò favorevolmente Joyce al punto che il già celebre scrittore volle farsi promotore del romanzo a Parigi: parlò di Svevo al poeta e romanziere Valéry Larbaud, collaboratore della prestigiosa NRF e a Benjamin Crémieux, critico italianista che morirà nel lager di Buchenwald, definendolo l’unico scrittore italiano moderno che lo interessasse. La risposta positiva dei due intellettuali francesi fece scoppiare il «caso Svevo» anche in Italia, complice Bobi Bazlen che lo consigliò a Eugenio Montale. Nel 1926 la rivista francese «Le navire d’argent» dedicò allo scrittore un intero fascicolo. E nel marzo del 1928 a Parigi, in una riunione del Pen Club, Svevo venne festeggiato con una serata in suo onore, alla presenza di importanti scrittori, come Isaak Babel’ e G.B. Shaw (e naturalmente lo stesso Joyce). Ma la gloria fu quasi postuma. Con un paradosso tipicamente sveviano, Ettore Schmitz riuscì per poco tempo a godersi quel successo che la vita gli aveva fin lì negato, perché il 12 settembre di quello stesso anno fu coinvolto in un incidente stradale a Motta di Livenza, e morì 24 ore dopo in ospedale, a 67 anni. Poco prima, consolò la figlia dicendo: «Non piangere, Letizia, non è niente morire». Poi vide il nipote accendersi una sigaretta e chiese di poterne fumare una. «Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta», disse, con un’estrema, folgorante battuta.
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«La Coscienza di Zeno» è un capolavoro di letteratura sapienziale, uno di quei libri, cioè, che ci insegnano ad accettare i limiti della natura umana. Come Shakespeare e Cervantes, come Montaigne e Goethe, come Proust e Freud, anche Svevo ci mostra la saggezza con cui affrontare la vita. E lo fa attraverso un’ironia – retaggio di un ebraismo abiurato – traboccante di umanità: un’ironia che è la valutazione distaccata dello scarto che esiste tra la realtà e la nostra coscienza, e del necessario compromesso che dobbiamo trovare tra i due estremi. Un compromesso con la mediocrità, appunto. Nel senso di un’aurea via di mezzo, perché nella mediocrità, nei meandri della medietà, l’umanità vibra più che altrove, ed è più riconoscibile. Zeno Cosini non ambisce a rappresentare alcunché, se non la propria sconfitta, il suo fallimento di uomo precipitato nella casualità della vita, in una contingenza senza redenzione né dannazione. Senonché, come Freud ci ha insegnato, il caso non esiste. La saggezza più profonda del libro è allora nascosta nei fatti, laddove tutte le scelte apparentemente casuali o perdenti di Zeno si rivelano, a ben guardare, vincenti: la moglie che è stata l’ultima scelta obbligata dopo il rifiuto dell’amata sorella Ada e della seconda sorella Alberta, si rivela la donna giusta per lui, quella che riesce ad accoglierlo maternamente e ad amarlo con tutte le sue debolezze, mentre Ada con gli anni si imbruttisce, affetta dal morbo di Basedow. Il rivale e cognato Guido a cui Zeno sembra soccombere per tutta la vita, si rivela invece un fallito e finisce suicida per sbaglio. E in generale la nevrosi predispone Zeno a una condizione di disponibilità che i cosiddetti sani non hanno, irrigiditi nelle loro convinzioni. L’inettitudine del protagonista (evidente maschera autobiografica dello scrittore) è, dunque, tale solo in apparenza: o meglio, diventa strumento di indagine e di analisi che procura uno scacco della conoscenza ma non della coscienza. Una coscienza della debolezza che si fa forza.
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Il mio caro amico, che mi disse quella frase sveviana quel giorno di tanto anni fa, durante un giro in Vespa, era stato cacciato da più scuole perché apparentemente inadatto allo studio. Nessuno avrebbe scommesso su di lui, ma poi ha superato esami e concorsi, e oggi è diventato un professionista ricco e affermato, dimostrando così che la predisposizione al fallimento può trasformarsi in successo, che la consapevolezza della propria malattia può rivelarsi salute. Non che abbia superato le nevrosi della sua psiche o risolto i suoi conflitti, ma chi ci riesce? Io, comunque, non ho mai dubitato della sua intelligenza, delle sue capacità, e soprattutto della sua umanità. Un’umanità che è la sua vera ricchezza. La vita è un compromesso con la mediocrità, quasi per tutti, certo, adesso che ho rinunciato all’assoluto lo capisco molto meglio che a vent’anni, ma è un compromesso nel quale possiamo adattarci anche bene, se vogliamo. La lettura di Svevo, e la saggezza profusa nella «Coscienza di Zeno», un libro dalle profondità inaspettate, a cui ancora continuo ad attingere, mi ha aiutato in questo difficile percorso verso la maturità. Forse, anzi ne sono sicuro, anche il mio amico potrebbe dire oggi, alla fine dei conti, che «la vita non è né brutta né bella, ma originale!».
Fabrizio Coscia