Al dottor Kafka piacevano i poeti cinesi. In particolare, amava i pensatori taoisti, che bivaccano sulle rocche e si esprimono in versi che intimidiscono i cieli. Su tutti, preferiva Lao Tse, il leggendario maestro del Tao Te Ching, e Lieh Tzu, autore del Libro del Vuoto Perfetto, un titolo, forse, che lo faceva vibrare. “Ne sono affascinato, ma non riesco a penetrare fino al loro cuore”, confessò al giovane amico, Gustav Janouch (che registrò le Conversazioni con Kafka in un libro anomalo, pieno di specchi e di tuoni). A Praga la tonalità dominante era il grigio, spezzata da un cielo con la scarlattina. Allo stesso modo, è impossibile penetrare nel cuore dei racconti di Kafka: dissigillarli significa, semplicemente, scoscendere nella follia, vivere in uno spazio in cui le distinzioni (bello/brutto; giusto/sbagliato; mondo/immondo; giovinezza/vecchiaia) si rivelano infime. Fare dei denti una flotta di leopardi. I racconti di Kafka – in verità: ogni suo gesto di scrittura, compassionevole e marziale, desunto in diari, aforismi, romanzi – esistono per sparire: chi ne risolve l’enigma, muterà vita, teso verso un radicale mutamento che non esclude la gioia e la boria, il deserto e la tenda, le intenzioni e la danza – tutti gli idoli (anche l’idolo chiamato dio) saranno sciolti. Kafka, in questo, non è uno scrittore. Kafka è un santo: vuole che ti ricoveri in lui, che lo mangi.
I suoi scritti non sono parabole, ma fenici – da qui, la necessità del fuoco, del rogo interiore.
Come si sa, nell’aprile del 1924 Kafka si reca nel sanatorio di Kierling; ad assisterlo ci sono l’ultima amata, Dora Diamant, e Robert Klopstock, l’amico medico. Kafka muore il 3 giugno; pochi giorni più tardi, a Berlino esce la raccolta di racconti “Un artista della fame”. L’ultimo racconto s’intitola Josefine la cantante ovvero il popolo dei topi; l’ultimo paragrafo ci introduce nell’ostensorio kafkiano. A dire di Josefine, infatti, la “tribolazione terrena… è preparata per gli eletti”; eppure, rimarca il cronista del popolo dei topi, essere dimenticati è “un’accresciuta liberazione”. Che ne è allora di noi? Si vive forse per cancellare le proprie tracce? Di certo, a visitare la vita di Kafka – perfino setacciando le sue fotografie – si avverte che esiste un Kafka per ciascuna persona che lo ha incontrato. Un Kafka ha perfino il tuo volto, lettore. Proprietà dei santi: fare del proprio io un lavacro, un lavandino; tu sei l’essere benedetto, lui è soltanto acqua. Questo è il valore della parola purezza.
Con Josefine la cantante termina anche la racconta di “Quattro racconti” allestita da Vito Punzi per De Piante (gli altri sono: Sciacalli e arabi, che dona il titolo al libro, L’insegnante di scuola di paese e Ricerche di un cane; in appendice sono tradotte, per la prima volta in Italia, le poesie di Jiří Langer, enigmatico amico di Kafka, cultore del misticismo ebraico). Da tempo Punzi lavora nell’opera di Kafka: per Marietti, qualche anno fa, ha tradotto un altro ciclo di racconti, tra cui La tana, Un messaggio imperiale e Durante la costruzione della muraglia cinese. Punzi non appartiene ad alcuna consorteria accademica e non è allineato alla vulgata dei kafkologi: questo, se possibile, conferisce maggior profondità alle sue traduzioni. Ad ogni modo, lo abbiamo interpellato.
Appresa la notizia della sua morte, Milena Jesenská scrisse su un giornale praghese un “Elogio funebre di Franz Kafka” assai commovente. Scrisse che:
“La sua coscienza di uomo e artista era a tal punto affinata da consentirgli di penetrare anche laddove gli altri, sordi, ritenevano di essere al sicuro”.
Non si è mai al sicuro quando si maneggia il linguaggio, che può uccidere o salvare. Penetrare fino al cuore di un libro significa mandare al fuoco il vocabolario, minare le parole in mani, impazzire. Al giovane Janouch – l’ennesimo interprete di Kafka – il signor K disse che “La polvere è eterna”; poi disse che Cristo
“è un abisso pieno di luce – bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi”.
Pienezza e dimenticanza, luce e liberazione, abisso ed elezione, polvere e topi, occhi e sciacalli. L’opera di Kafka ci è scatenata in faccia: lasciamo che agisca.
Il tomo di Gustav Janouch che ho citato mi giunge dalla biblioteca di Giampiero Neri, invero scarna: l’anziano poeta amava regalare i propri libri, preferiva spogliarsi di tutto. Nella dedica, mi definisce “lettore di storie”, che è come dire un chiromante o uno che distilla miti dalle costellazioni. Meglio ancora: un mentitore. Anche in questi dettagli – un libro sottratto e uno regalato, un poeta in punto di morte e una storia che ha la forma di una finestra – balugina l’ombra di Kafka.
Intanto: perché questi racconti e non altri?
Ne ho scelti volutamente due tra quelli pubblicati in vita e due tra quelli editi nella prima raccolta postuma, Beim Bau der chinesischen Mauer, del 1931, la cui curatela i germanisti italiani attribuiscono con sospetta ostinatezza al solo Max Brod, il destinatario delle carte kafkiane, ignorando l’altro curatore, Hans-Joachim Schoeps, un giovane ebreo berlinese che aveva il “limite” di non essere sionista e per questo motivo Brod, dopo quella pubblicazione, non ne volle più sapere di collaborare alla trascrizione degli inediti kafkiani. La presenza di animali, come entità degne di ricerca o come narratori in prima persona, è certo il tratto che lega i quattro racconti tra loro, ma non rappresenta il motivo che me li ha fatti scegliere. Piuttosto mi sono lasciato ispirare dal citato Schoeps, primo assemblatore e trascrittore degli inediti, che nei suoi scritti dedicati a Kafka (da me tradotti e in prossima uscita presso Marietti) ricorda come l’autografo di un singolo racconto poteva risultare iniziato in un quaderno, per poi proseguire altrove, senza esplicito richiamo. Dai racconti proposti vorrei che il lettore, auspicabilmente già conoscitore di altri e più noti testi kafkiani, traesse spunti per tessere autonomamente la trama di quell’unico mondo di figure e storie interconnesse, talvolta interscambiabili tra loro, che è stata la scrittura kafkiana.
Talpe, sciacalli, ratti: che valore ha l’animale, l’animalesco nella visione di Kafka?
Da traduttore, dunque non da aspirante esegeta, ricondurrei la scelta di fare di un cane, di un ratto o di uno sciacallo l’io narrante al presupposto che Kafka riteneva necessario per scrivere (qualsiasi cosa, romanzi, racconti, aforismi, lettere o appunti di diario). Lo precisò in una lettera del 5 luglio 1922:
“L’oblio di sé è il primo presupposto dell’attività di scrittura”.
Ritengo che porsi davanti a una pagina bianca immaginandosi come un cane o come un qualsiasi altro essere animalesco, sia stato il suo espediente per dimenticare il sé umano, con il suo carico di storia e coscienza. La stessa impossibilità di individuare un “senso unico” nelle sue narrazioni credo dipenda dall’oblio di sé. Sul tema del dimenticare (das Vergessen) in Kafka si potranno leggere pagine molto interessanti del citato Schoeps.
Mi riferisco a Sciacalli e Arabi, racconto di sgargiante bellezza: che cosa vuol significare Kafka parlando di ‘purezza’?
Sciacalli e arabi, che, ricordo, è stato pubblicato con Kafka ancora in vita sulla rivista “Der Jude”, diretta da Martin Buber, raccoglie una strabiliante pluralità di significati. Credo non sia difficile identificare il popolo ebraico con gli sciacalli parlanti. Kafka evidentemente sapeva bene quanto l’antisemitismo fosse diffuso, con i suoi modi di rappresentare gli ebrei: qui sciacalli, altrove topi o cani. Da “un tempo infinitamente lungo” gli sciacalli attendono speranzosi lo “straniero”, il “chiamato” che “purifichi il loro sguardo” dagli arabi, il popolo in mezzo al quale sono stati gettati. Gli sciacalli chiedono che ogni animale possa essere da loro “prosciugato del sangue, così da essere purificato fino alle ossa”. Una purezza cui Kafka contrappone la “sporcizia” di cui sarebbero portatori gli arabi (ma in senso più generale potremmo intendere i “gentili”), seppur vestiti di abiti bianchi. C’è qui probabilmente anche un richiamo ai concetti di tumà e taharà, “impuro” e “puro”, contenuti nella Torà.
Vorrei chiederti di Josefine. È l’ultimo scritto di Kafka, emana un cupo fascino: c’è qualcosa di ‘testamentario’ in esso?
Josefine la cantante ovvero il popolo dei topi, la cui stesura avvenne tra marzo e aprile 1924, è certamente uno degli ultimi scritti di Kafka. Secondo la testimonianza dell’amico e medico Robert Klopstock, la stesura fu contemporanea alle prime manifestazioni di una malattia alla laringe. Nel destino di Josefine, per la quale “presto verrà il tempo in un cui risuonerà il suo ultimo squittire, e cesserà”, c’è senz’latro il destino che Kafka stava prefigurando per sé, liberato, come la cantante, dalla tribolazione terrena (morirà il 3 giugno dello stesso anno di tubercolosi), “preparata per gli eletti”. Una prefigurazione che nella sua tragicità rappresenta una dichiarazione implicita d’appartenenza: come lei, “si perderà felicemente nella folla innumerevole degli eroi del nostro popolo” e “presto sarà dimenticato in un’accresciuta liberazione”. In conclusione, torna dunque imperioso il tema dell’oblio, del dimenticare, vergessen. Ma non è stato questo il destino degli scritti a lui sopravvissuti.
E poi: la scrittura apparentemente piana di Kafka pare abbia bisogno di continue ri-traduzioni. Perché?
Diciamo che fino a un anno fa, almeno in chi ha un minimo di cognizione circa le problematicità legate al tradurre (qualsiasi sia la lingua di partenza), a proposito di tutto quanto del praghese è stato pubblicato postumo, c’era la necessità che al lettore italiano fossero proposte “nuove” versioni rispetto alle pur numerose e autorevoli disponibili, intendendo con “nuove”, traduzioni che come testo tedesco originale di riferimento abbiano finalmente quello dell’edizione critica e non più quanto spesso malamente trascritto o discrezionalmente interpretato da Brod dalle carte autografe inedite. Al di là di questo, hai detto bene, la scrittura di Kafka è apparentemente piana, in realtà chi può leggerlo in tedesco, chi avanza “a piccoli passi” attraversando i suoi testi, come ha scritto Elias Canetti, “ovunque posi il piede, avverte l’insicurezza del suolo”. Pluralità di sensi e lingua figurata mi fanno dire che ogni generazione di traduttori dovrebbe affrontare il rischio di quell’insicurezza, mettendo in discussione l’opera dei predecessori.
Cosa resta da scoprire di Kafka? Antica è la tua permanenza nei testi di Kafka: cosa ancora vorresti tradurre?
Due dei racconti più noti e più tradotti, Die Verwandlung e Das Urteil, semplicemente perché la resa in italiano dei titoli di entrambi, La metamorfosi e La condanna, risultano ormai acquisiti, indiscutibili (per supposti motivi di marketing editoriale), sebbene palesemente non corretti, devianti e ispiratori di esegesi fallaci, perché il labirinto linguistico cui danno accesso è quello del traduttore italiano, non quello del praghese. Decidersi per La mutazione o La trasformazione per il primo e La sentenza o Il verdetto per il secondo, comporterebbe di necessità una nuova traduzione di entrambi. Con, probabilmente, inevitabili ripensamenti da parte degli esegeti kafkiani.