Contro le prefazioni. Ovvero, sullo stato della poesia contemporanea: amichetti, narcisi e lacchè
Politica culturale
Andrea Temporelli
Cormac McCarthy è tra i grandi narratori viventi; per me, nella sonorità linguistica che fa falò della fascina delle ossa, Meridiano di sangue sta tra i libri titanici di sempre. In ogni caso, da qualsiasi lato pigliate McCarthy, cascate bene. I suoi libri trascinano nell’al di là della narrativa, nel luogo degli interrogativi micidiali. Non si leggono: obbligano a una scelta – persino a una responsabilità che riguarda il nostro stare al mondo.
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Di McCarthy va letto tutto tranne The Counselor, la sceneggiatura pubblicata nel 2013 e scritta per il film, intrigante ma poco riuscito, di Ridley Scott, con sfoggio di star (da Michael Fassbender a Cameron Diaz, da Penélope Cruz a Brad Pitt e Javier Bardem). Al contrario, Sunset Limited, il testo teatrale del 2006, è nitido, bello, sorretto da una critica molto positiva. In ogni caso, tutti i testi di McCarthy sono stampati in Italia da Einaudi. Tutti. Tranne uno.
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Recentemente, in un vasto articolo che battezza l’irritante sbadataggine – diciamo così – della grande editoria italiana – prona a ciò che potrebbe piacere al lettore, preso per cretino, alimentando le classiste classifiche, più che alla grandezza in sé – Alessandro Gnocchi ha ribadito che di Cormac McCarthy c’è tutto. Tranne un testo. Il testo s’intitola The Stonemason, è stato pubblicato nel 1994, gli esperiti lo dicono “un notevole fallimento”.
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The Stonemason è centrato sulla figura di Ben Telfair, nero, poco più che trentenne, al contempo narratore e attore del dramma. Siamo negli anni Settanta, a Louisville, Kentucky; Ben abbandona gli studi universitari in psicologia per perpetuare la tradizione di famiglia. Di mestiere, i suoi sono scalpellini, tagliatori di pietre. Il totem della famiglia Telfair è nonno Papaw, che incarna i valori dell’onestà, della rettitudine, della fede. Ben è lì che vorrebbe radicarsi, ma il mondo lo morde e lacera la famiglia. La sorella più grande di Ben, Carlotta, vive un matrimonio devastato: il figlio di lei, quindicenne, è un perduto, richiamato dalla dissipazione, dalla droga. La moglie di Ben, Maven, sogna il riscatto sociale, è bella, vuole diventare avvocato. Il padre di Ben, travolto da un tracollo finanziario, si uccide.
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The Stonemason non è un play canonico. L’andamento è biblico, da libro dei re (e dei dannati). I monologhi di Ben – ad alta elettricità linguistica – interrompono spesso il dramma. Ben fa le funzioni del coro nella tragedia greca: qui sembra che Eschilo abbia i jeans, che sia passato dalla luce greca all’arcaica desolazione americana. Dietro Cormac McCarthy c’è l’esempio faulkneriano di Requiem for a Nun – straordinaria fusione di prosa e brandelli teatrali – e dei lati sinistri del teatro elisabettiano, John Webster, per dire.
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Una non secondaria ragione d’interesse sta nel crisma cronologico. The Stonemason è pubblico nel 1994, è stato scritto durante la grandiosa fase romanzesca di McCarthy, quella della ‘Trilogia della frontiera’, che coincide con Cavalli selvaggi (1992), Oltre il confine (1994), Città della pianura (1998). Insomma, siamo, narrativamente, nel pieno della maturità di McCarthy, negli anni del definitivo riconoscimento (attraverso il National Book Award, nel 1992). Insomma, non tradurre The Stonemason mi pare una idiozia.
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Recentemente, Federico Bellini, ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha scritto un informatissimo articolo in cui ricostruisce le ragioni dell’insuccesso di The Stonemason, “To Make the World in the Maelstrom of its Undoing: Cormac McCarthy’s The Stonemason” (pubblicato su RSA Journal, 30/2019). “Tra gli studiosi di McCarthy, The Stonemason provoca un certo imbarazzo, eguagliato dalla sceneggiatura scritta per The Counselor. La ragione principale, come narrato da Edwin T. Arnold in un saggio brillante, è che il testo è nato sotto grandi auspici, ma infine non è sopravvissuto alle attese. Scritto alla fine degli anni Ottanta, il testo di McCarthy ha goduto di una delle sette borse di studio concesse nel 1991 dall’American Express/John F. Kennedy Center Fund for New American Plays, che ha donato 10mila dollari all’autore e 50mila all’Arena Stage di Washington DC per la produzione. The Stonemason avrebbe dovuto essere messo in scena nel 1992, ma una volta che la produzione teatrale ha compreso i limiti del testo – e McCarthy si è mostrato riluttante a modificarlo –, essa ha preferito restituire la sovvenzione e rinunciare al progetto”. Bellini, che rintraccia alcune ‘fonti’ nell’opera di McCarthy – ad esempio, Il tramonto dell’Occidente di Spengler –, spiega che il problema, oltre che di ordine formale, fu sostanziale. Anzi, politico. “Alcuni attori ritenevano che la sceneggiatura fosse piena di stereotipi razziali e che ‘McCarthy, in quanto scrittore bianco, non fosse in grado di comprendere e drammatizzare la complessità della vita in una famiglia di neri’ (Arnold)”. Problema pazzesco – come a dire: come fa un uomo a scrivere di un personaggio femminile?, messa in questo modo, uno scrittore potrebbe soltanto, ipoteticamente, scrivere di sé – eppure attualissimo. In effetti, la libertà creativa è messa alla gogna da chi paga – che pretende di riscuotere un testo eticamente doc. Nel 1997 fu fatto un secondo tentativo per mettere in scena The Stonemason. Fallito, perché McCarthy non voleva ‘adattare’ il testo a nuove esigenze. Nel 2001, all’Arts Alliance Center di Clear Lake, Texas, il testo va finalmente in scena. Adattato per attore solo. Sostanzialmente, è una brutale riduzione del lavoro teatrale di McCarthy. Su The Stonemason grava una specie di maleficio.
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C’è un uomo che parla con i morti, in The Stonemason, che scardina la propria solitudine, che scava un compito nel dolore, che ha un destino di pietra e sceglie il vento, che sa la vorticosa rovina di Dio e cede, si slaccia, impara a pregare, perché la vita al di là è più ricca di questa. Questo spaventa, credo. E questo è Cormac McCarthy. (d.b.)
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Si traducono alcuni passaggi da “The Stonemason”. Parla Ben.
Atto V, scena III
Poiché io penso a mio padre morto più che a quando era in vita. Penso spesso alla sua morte. Il peso della morte pone un grande fardello su questo mondo. E so ciò che posso sapere. Perché non ha visto la ricchezza di tutto ciò che ha messo da parte e la povertà di quello che desiderava? Perché non ha saputo capire la sua benedizione?
Da tempo penso che la mia vita, il mio lavoro, sia come quella di un anacoreta nella cella. Il lavoro divora l’uomo e divora la sua vita e credo che l’uomo, alla fine, debba sentirsi giustificato. Se una parte del peso del mondo passa per le sue mani, egli deve immergersi nella realtà di questo mondo per una via superiore a ogni verifica. Una via che non si dissolva facilmente. Forse, nella sua apparizione finale, potrebbe perfino venire a sedersi, qui, tenendo il cappello su una tavola di legno preso in prestito dallo scantinato di una chiesa, guardando il vento che lacera il mondo, già al di là del vento e del mondo, di qualcosa che si può propagare, di nulla.
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Atto V, scena XI
Papaw, il nonno di Ben, si materializza dalla nebbia, sul bordo delle lapidi. È nudo.
Ed egli scaturì dalla tenebra, immediatamente, rivelato e rivolto a me, e riuscii a toccarlo, a toccare il suo vecchio cranio nero ed egli era nudo e io riuscii a toccare il cordame dei suoi muscoli sulle spalle raffinate dalla pietra, e i tendini, e le vene degli avambracci, e la piccola pancia e le sottili gambe da vecchio, le ossa lucide, ed era così bello. Era soltanto un uomo, un uomo nudo e solo nell’universo, e non aveva paura e io piangevo di gioia e di tristezza, una tristezza finora sconosciuta, e restai lì, con le lacrime che mi segavano il viso e lui mi sorrideva, mi porgeva le mani. Mani da cui fioriscono tutte le benedizioni. Mani che non mi sono mai stancato di guardare. Sagomate sull’immagine di Dio. Per creare il mondo. Per crearlo ancora e ancora. E crearlo nel vortice della sua rovina. Poi, mentre cominciava a svanire, mi inginocchiai nell’erba, per la prima volta nella mia vita mi misi a pregare. Pregai come l’uomo pregava diecimila anni fa i propri parenti morti, e sapevo che mi avrebbe guidato lungo il profilo dei giorni, e non mi avrebbe abbandonato, non mi avrebbe mai abbandonato.
Cormac McCarthy
*In copertina: l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, “La strada”, è pubblico nel 2006; da anni si parla di un nuovo, prossimo libro.