Naturalmente – per difetto ottico più che per una labirintica idea di pietà – siamo tutti attratti dal corpo martoriato di Cristo. Per altro, c’è il Battista a indicarlo, con quel dito-chiodo, sul lato destro della Croce, mentre dall’altra parte Giovanni sorregge la Madre, che sviene, bianca, sembra chiederla in sposa. In pochi si accorgono dell’Agnus Dei che mira la propria morte corporale, tra il piede del Battista e i piedi del Cristo: dal petto esce, come fonte, il sangue, dentro il calice. Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi, dice, gloriosamente, terribilmente, Giovanni. “Senza difetto sia il vostro agnello, maschio, nato nell’anno…”, attacca il Potente, capitolo 12 di Esodo, sangue che protegge dalla mattanza in terra d’Egitto, sangue che lava sangue, “Questo sarà per voi giorno di memoria, festa al Potente… rito perenne”. Ed è lì, il rito perenne, nel corpo perfetto del perfetto, il Nazareno, stravolto nella crocefissione secondo Grünewald, al centro dell’altare di Isenheim. “Tronco colto nel punto del suo procombere su di sé e della bestia colta nel punto d’esser condotta al macello e di venir appesa all’uncino dell’infamia”: così descrive quel Cristo, Giovanni Testori, che “è anche bestia e cane; che il suo gemito è anche latrato”, emblema di “abbacinante incomprensibilità”.
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A questa scena mi rimanda Il silenzio degli innocenti, film miliare, uscito nel 1991, trent’anni fa, il giorno di San Valentino. Di quel film, in effetti, il centro è il pasto: il cannibalismo, esasperata ostia (hostia cioè vittima). Gli Ebrei mangiano l’agnello, “lo mangerete in fretta” (Es 12, 11); Gesù è ostia, vittima sacrificale, che s’immola al dio cannibale, all’uomo imbestiato; i cristiani mangiano ritualmente il corpo, come Lui ha detto, e per questo, con l’accusa di essere cannibali, sono perseguiti dai ‘pagani’. Hannibal Lecter, superiore in intelletto, è una specie di dio capovolto che si nutre di carne fraterna, con la cupa cupidigia della vendetta, la gioia di sconfiggere (secondo la finzione: nato in Lituania da aristocratici, HL ha subito il rapimento di un gruppo di soldati collusi coi nazisti, che hanno mangiato, per assenza di cibo, la sorella). Il titolo originale del film girato con micidiale successo da Jonathan Demme – 5 Oscar nelle categorie più importanti: film, regia, attore, attrice, sceneggiatura –, come si sa, è The Silence of the Lamb. Il titolo ha un chiaro riferimento nel film: Clarice Starling, giovane e capace recluta dell’FBI, racconta a Lecter di quando, orfana, fu mandata a vivere da un cugino, che allevava bestie da macello. Il ricordo della mattanza degli agnelli stordisce ancora Clarice: Lecter – inutile ribadire la bravura aurea di Anthony Hopkins – aspira l’incubo di Clarice, ne è sedotto, se ne nutre. Si nutre del candore di quella ragazza, che gli svela il suo segreto più remoto. Ne fa pasto. La mangia. Ne morde l’anima. Questo, appunto, è il riferimento narrativo; quello fondamentale è nel capitolo 12 dell’Apocalisse, versetto 11, che secondo la “King James” dice così: “And they overcame him by the blood of the Lamb, and by the word of their testimony; and they loved not their lives unto the death”, Ma essi lo hanno vinto mediante il sangue dell’Agnello, e la testimonianza del loro martirio; ed essi amarono la morte più che la propria vita.
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“Jonathan Demme si dimostrò interessato a diverse attrici – Michelle Pfeiffer, Meg Ryan, Laura Dern – prima di scegliere Jodie Foster in un ruolo in cui qualsiasi altra sembrerebbe inimmaginabile. La combinazione di delicatezza e di forza della Foster è necessaria al film, raffigura la lotta di Clarice per superare gli svantaggi della sua inesperienza, della sua fragilità… è una lotta solitaria, incessante, presente e terribile”, scrive Scott Tobias su “Guardian”, raccontando The Silence of the Lambs at 30. Per festeggiare l’evento, la CBS ha prodotto una serie, Clarice, che andrà su Rai 2 tra un paio di mesi: la protagonista è Rebecca Breeds. L’Acherontia atropos, la sfinge testa di morto, a cui è devoto Jame Gumb “Buffalo Bill”, il serial killer del film, è cantata da Guido Gozzano nelle Epistole entomologiche, il folle poema dedicato alle farfalle:
“Nasceva nell’autunno la più tetra
delle farfalle: l’Acherontia Atropos.
Certo vi è nota questa cupa sfinge
favoleggiata, dal massiccio addome,
dal corsaletto folto, con impresso
in giallo d’ocra il segno spaventoso…
Ho veduto il mio cane temerario
abbiosciarsi tremando foglia a foglia,
rifiutarsi d’entrare nella stanza
dov’era l’Acherontia lamentosa”.
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L’Agnus Dei è raffigurato raramente: vogliamo vedere il corpo dell’innocente crocefisso, scalfito dai chiodi, livido nel dolore. L’uomo che all’ora nona urla l’agonia e l’abbandono: prima del silenzio, il “grande grido” (emissa voce magna…). C’è l’agnello sopra l’altare di Jan van Eyck, dal capo coronato di luce, severo, sembra un leone, mentre dal petto sgorga sangue; e c’è quello, tremendo per realismo, di Zurbarán, custodito al Prado: su fondo nero, poggiato su lastra anonima, giace l’agnello, con le zampe legate, lo sguardo rassegnato. Attende la macellazione. Nessun segno lo identifica con il Figlio, con l’Agnus Dei – è puro agnello, bestia spogliata di ogni aggettivo divino. Muta è l’aria, grave, a preludio del massacro. “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora” (Ap 8, 1). “Cibo e divoratori di cibo, così considera il mondo”, dice un verso delle Leggi di Manu che piacerebbe a Lecter. Tra incubo e alcova, il silenzio – che si può costruire anche intrecciando le mani come un’agave – può tradursi in una basilica, in una caverna, nello scatto che precede la lotta. (d.b.)