08 Gennaio 2018

Franz Krauspenhaar: “Mi sono rotto i coglioni della letteratura”

È pazzo. È fuori. Completamente fuori. Per uno scrittore come lui non ci vorrebbe un intervistatore, ma un domatore di leoni, o uno psichiatra. Eppure, è vero, autentico. Di rado un autore è anche solo vagamente associabile all’immagine che cerca di trasmettere attraverso i suoi scritti. Più di frequente, ti aspetti un eroe e ti trovi davanti una mezzasega. Invece, Franz è così: disordinato e privo di baricentro, ma comunque animato da una sua insondabile logica. Gli chiedi di parlare in merito a un argomento specifico e lui se ne sbatte. Si mette, piuttosto, a ragionare a voce alta di quello che gli passa per la testa. Forse si è strafatto di farmaci. Se non fosse che ha avuto un infarto, si potrebbe pensare che abbia alzato il gomito. Ma no, lui è così. Smadonna, sputa, ti parla di letteratura e poi ti racconta di una con cui è finito a letto. Una specie di strano incrocio tra la serietà di Houellebecq e l’ordinaria follia di Bukowski. È un genio, ma in pochi l’hanno realmente compreso. L’ho intervistato in occasione dell’imminente uscita, prevista per febbraio, del suo nuovo romanzo. Mi ha salutato con un “Ciao, vecchio porco”. Ha continuato preso da una strana ebbrezza da squilibrato, dicendomi: “Quando vieni a Milano che ci facciamo una birra e vediamo di trovarci qualche troia?”. Abbiamo riso. “Non vorrai rompermi i coglioni con un’intervista seria?”, mi ha chiesto. “Buon Dio, no, stai sereno!”, gli ho risposto io. Dunque questa è un’intervista e, allo stesso tempo, non lo è. Mettetevi l’anima in pace. Aprite una birra e stateci a sentire.

Come diavolo ti è venuto in mente di cominciare a scrivere?

“Si potrebbe dire che l’ho sempre fatto. Alle elementari iniziai con le prime storielle. A volte mi capitava di guardare un film e poi fare la novelization, cioè scrivere una storia partendo da ciò che avevo visto. Essendo appassionato di disegno, mi dilettavo anche nello schizzare brevi strisce di fumetti. Cominciai a far sul serio verso i quaranta. Prima di allora avevo lavorato, soprattutto nell’ambito commerciale, cercando di costruirmi una posizione che poi mandai a farsi fottere. Fu in seguito ad alcuni eventi particolarmente tragici che decisi di dedicarmi anima e corpo alla letteratura. In particolare, fu per via della morte di mio fratello. Reagii con dolore, ma anche con rabbia e questo mi portò a fare la mia scelta, per cui fino ad allora non avevo avuto abbastanza palle”.

Quindi, si potrebbe dire che la scaturigine della tua scelta è drammatica? Al cospetto dell’ineluttabilità della morte e del dolore, tu decidi che la vita va vissuta fino in fondo, che nel tuo caso vuol dire facendo letteratura.

“Sì, facendo quello per cui si è stati chiamati, anche se poi magari si è stati chiamati da nessuno. Percorrendo quella che è la tua vera strada, anche se è irta di ostacoli, per carità, ma che ti consente di aderire a quello che è il tuo sentire. Insomma, da un percorso tragico verso un percorso di rinascita attraverso la letteratura. Invece di tante sedute dallo psicanalista, io ho scelto di scrivere. Già, perché io faccio letteratura, non scrivo semplicemente libri”.

Preso da questa smania, dunque, inizi a scrivere. Cosa esattamente?

“Inizio subito con un romanzo. Era il ’99 e in due settimane e mezzo butto giù Le cose come stanno. Si tratta di un romanzo catartico, non autobiografico, o almeno solo io so cosa possa esserci di realmente vissuto nella storia di questi due fratelli. FranzUna volta scritto, decido di inviarlo ai dieci maggiori editori italiani, facendo una scommessa – visto che non avevo appoggi – e dicendomi: se nessuno lo accetta, mollo il colpo e torno alla mia vita di sempre. Non avevo voglia di pregare qualcuno per vedere stampato questo romanzo che è carta della mia carne. Alle solite, la maggior parte di loro non mi rispose. Mi arrivò però una lettera dalla Feltrinelli, da parte della Signora D’Ina, in cui si diceva che ci sarebbe stato da apportare qualche miglioria e cambiamento. A ogni modo, rifiutano il testo, pur accompagnando il tutto con i loro migliori complimenti. Almeno si trattava di una lettera scritta di suo pugno. Qualche giorno dopo arriva una telefonata da Baldini&Castoldi, nella persona di Michele Dalai. Questo testo uscirà nel 2003, ma prima, nel 2000, pubblico un libro che avevo già scritto al principio dei ’90, Avanzi di balera, una storia grottesca e terrificante su questi giovani che vanno in giro per sale da ballo a cercare di cuccare. Balera da intendersi come luogo della perdizione della mediocrità. Si trattava di un romanzo di racconti, un romanzo di scene, che pubblicai per una piccola casa editrice di Milano che avrebbe voluto pubblicare anche Le cose come stanno, ma che avevo gentilmente mandato a fare in culo perché il testo era già piazzato. Baldini&Castoldi mi rispose nel 2000, ma dovetti aspettare fino al 2003 per vederlo pubblicato. Il mio editor era Tirogelli, uomo ben conosciuto nelle patrie lettere, che mi diede pochi suggerimenti, ma molto validi. La pubblicazione, a ogni modo, veniva sempre procrastinata perché ce n’erano altri da mandare avanti. Ricevette, poi, buone recensioni, magari non il successo che avrebbe meritato. Ma io, allora, ero molto inesperto, non sapevo bene come farmi pubblicità. Non come questi esordienti di oggi che sanno già come muoversi, a chi andare a leccare il culo e a chi succhiare l’uccello. Io, invece, ho cominciato pian piano, nella convinzione che un minimo di gavetta sia necessaria. Ma a me non me ne frega nulla di fare di questi movimenti ondulatori e sussultori, perché in letteratura è la carta che deve cantare”.

Quando iniziasti, invece, a scrivere poesia?

“Anche quella l’ho sempre scritta. Ho intere sillogi nel mio magazzino personale, roba che avevo battuto a macchina, perché al computer ci sono arrivato tardi. Anzi, il primo romanzo lo scrissi a mano e poi lo feci copiare. Io sono post-tecnologico”.

Ma quando ti rendesti conto di avere tra le mani una vera e propria raccolta poetica e a chi la proponesti?

“Diciamo che la cosa si fece più seria intorno al 2007. Condivisi le liriche sul mio blog personale, nella loro prima bozza, poi ci lavorai ulteriormente. Vedevo che anche poeti e poetesse abbastanza conosciuti venivano a commentare positivamente. Mi resi conto quindi che queste poesie avevano un buon impatto. Intervenne a quel punto Tiziano Fratus, un poeta che adesso pubblica per Feltrinelli e che allora era direttore editoriale di Manifattura Torino Poesie, che faceva parte della Marco Valerio Edizioni. Fratus mi diede qualche dritta su come portare avanti il discorso. Il dattiloscritto che gli consegnai divenne poi Franzwolf – un’autobiografia in versi. Fu la mia prima silloge pubblicata. Cominciai a portarla in giro. Sai com’è: della poesia si deve parlare, non è che si possa sperare che venda. Soprattutto, se ne dovrebbe parlare attraverso i premi, ma io a quelli ho sempre partecipato senza successo. I premi, in fondo, sono qualcosa che ti gratifica e io non sono contro, sono contro il modo in cui vengono gestiti, cioè come è gestito il Parlamento, la politica, lo sport…”.

Su base mafiosa?

“Guarda, questo paese è una ciofeca. È un paese di merda. Anche se, da parte mia c’è ancora un grande amore per l’Italia. Io sono un po’ nazionalista. Non sono di quelli che vorrebbero farne un rogo di questo paese. Sulla questione politica, poi, potremmo parlare per ore, perché io non sono quello che molti pensano. Non sono un fascista, o cripto fascista, come dicono. Il fascismo, per me, è finito nel 1945. Nella maggior parte dei casi, i rimasugli di oggi sono da evitare, anche se alcune volte hanno fatto cose buone. Ma tanto io evito chiunque, quindi non mi possono dire che sono di una parte o dell’altra. Non ho voglia di intrupparmi con nessuno. Sono un artista, un poeta, e non sono veicolo di niente, se non di me stesso. Mi hanno dato del fascista varie volte, facendomi uscire da certe realtà editoriali. Ma non è vero. Se io metto un like a un articolo di una rivista di estrema destra, non è che sono fascista. È che, in quel momento, sono d’accordo con quello che dicono nel racconto dei fatti, non tanto nelle ideologie. Ciò mi succede a volte anche con l’estrema sinistra, solo che questi più che estrema sinistra sono estrema debolezza, l’estrema minestra di un’ideologia morta”.

La tua opinione sulle scuole di scrittura?

“Non ho una grande stima delle scuole di scrittura, questo è noto. Secondo me la scrittura non si può insegnare, casomai si può porgere come esempio. Voglio dire, se tu frequenti un grande scrittore e lui ha un esempio da darti, anche umano, morale – perché la morale esiste, altrimenti saremmo già deflagrati, una morale personale, se vuoi, un proprio vangelo – magari anche al di là della sua volontà, quella è la migliore scuola di scrittura. Comunque, l’importante per imparare a scrivere è saper leggere. Quello che una scuola di scrittura dovrebbe fare all’inizio sarebbe proprio questo. Certo, può trasmettere delle tecniche, ma leggere è fondamentale. E poi, questi ritrovi spesso sono solo dei piccoli bordelli dove si impara a conoscere il personaggio importante da leccare. Si entra come in una bolla pseudo letteraria. C’è gente che ha pochissima esperienza e già si apre una scuola di scrittura. Io non lo accetto dal punto di vista estetico. È peggio della monnezza di Roma. Poi che facciano quello che vogliono, ma che non vengano a dire che loro sono dei maestri della prosa, perché non hanno né i mezzi, né la forza morale per insegnare alcunché a nessuno. Oramai, in questo paese, ci sono più scuole di scrittura che locali per coppie scambiste. E, in effetti, questi personaggi qui sono ridotti a fare scambismo. Attenzione: non scambio di idee, ma scambismo di idee. Questo è vero e incredibile allo stesso tempo. Vanno a scoparsi le idee come si scopa la moglie di un altro. È una cosa che fa schifo e non perché io sia contro lo scambismo. Non l’ho mai fatto perché non ho il bernoccolo per la cosa. Anche perché io sono l’ultimo degli eterosessuali e mi scoccerebbe avere il marito dell’amante a guardarmi, o che tentasse di entrare in un mio pertugio. Non sono neanche omossessuale e mi hanno dato dell’omofobo e del maschilista, ma probabilmente lo sono molto più loro perché non dicono la verità. Si nascondono dietro un pensiero debole e sinistrato, addirittura sinistro”.

Franz, chi è un esempio letterario per te?

“Da qualche anno sono molto amico di Milo De Angelis. Forse il miglior poeta che abbiamo, oggi, in Italia. Spesso ci troviamo a casa sua per vedere le partite di calcio e chiacchierare con la sua compagna, una bravissima fotografa ed ex attrice, Viviana Nicodemo. Lui è un esempio, per me, perché non si è dato via ed è comunque diventato una persona potente. Io non ne ho mai approfittato, nel senso che il nostro è un rapporto basato unicamente sulla simpatia e sull’affetto. Chiaramente, mi piace molto la sua poesia, altrimenti non riuscirei a parlargli e ad ascoltarlo. Devo stimarlo uno scrittore, un poeta, per averci a che fare.

De Angelis
L’amico di Franz, il poeta Milo De Angelis: “Spesso ci troviamo a casa sua per vedere le partite di calcio”

La sua scrittura è diversa dalla mia, ma ci apprezziamo vicendevolmente. Lo considero il numero uno, in questo momento. È riuscito a cambiare le carte in tavola, anche se un po’ di tempo fa. Purtroppo, non tutta la sua produzione è allo stesso livello, ma questo capita a ognuno di noi. Poi, ne ho conosciuti tanti altri. Potrei citare anche il Piero Gelli che mi fece da editor da Baldini&Castoldi e che fu per me illuminante. In poche battute mi disse come migliorare il libro. Non mi precisò dove intervenire ma, a seguito dei suoi consigli, trovai autonomamente i punti da rivedere”.

Dimmene uno che ti sta sul cazzo?

“Guarda, uno che mi sta sul cazzo è Lagioia, anche se un amico mi ha detto che è simpatico. Non mi piace come scrive, non mi piace la sua faccia, non mi piace quello che è, non mi piace il potere che rappresenta. Non che lo voglia sostituire. Io non lotto per il potere, ma per la libertà d’espressione dei reietti come me. Lagioia, invece, mi sembra uno che ha saputo inserirsi nei meccanismi, ma non uno scrittore valido. Il suo La ferocia è un libro veramente insufficiente sotto tutti i punti di vista. Poi ce n’è un altro, Antonio Scurati. Lo conobbi a una presentazione e gli dissi il mio nome. Lui mi rispose ‘Anche mio cugino si chiama Franz’. Ecco, uno che ti risponde in questo modo non lo puoi prendere sul serio. A parte questo, i suoi libri sono assolutamente dimenticabili. È uno di quei casi in cui non si capisce come possa arrivare in finale allo Strega… o meglio si capisce. Scrive dei romanzi che non hanno né un inizio né una fine”.

Senti, cosa mi dici delle donne nella letteratura italiana attuale?

“Tu mi vuoi far dire cattiverie, vero, brutto figlio di puttana? (ride) Il fenomeno della Ferrante non lo capisco e lo capisco. Mi pare Carolina Invernizio versione 2000, con una patina di letterarietà. In realtà, sono delle storie abbastanza banali. Poi c’è questa Napoli… Non si capisce perché, ma quando c’è Napoli di mezzo ci si copre d’oro. Non è La pelle di Malaparte, comunque, questo è sicuro. Io amo Malaparte, perché era un anarchico come me, uno che è andato sotto tutte le bandiere, perché non apparteneva a nessuno. Lo amo in tutte le sue contraddizioni. Le contraddizioni fanno parte della vita di uno scrittore. Non si può essere tali essendone privi. Chi non le ha non vale un cazzo. Quando sento parlare di coerenza metto mano alla pistola, cazzo! Come posso essere coerente io che oggi ho le palle girate, domani sono inaspettatamente euforico e il giorno seguente vorrei distruggere l’umano consesso? Io devo vivere, convivere e superare le mie contraddizioni, continuamente, ma non è una battaglia che si può esaurire e quindi dobbiamo viverci e trasformarle in arte. Ci servono per rendere il nostro vissuto e di conseguenza i nostri scritti più validi, più ricchi, più paradossali e quindi più umani, più aderenti alla realtà in modo tale che possano comunicare. Eh già, perché noi dobbiamo comunicare, non c’è niente da fare. Siamo dei comunicatori forzati. Noi non dobbiamo essere dei pubblicitari come sono molti scrittori, senza peraltro esserlo mai stati nel resto della loro vita. Si fanno solo pubblicità attraverso le loro scuole di scrittura, le loro presentazioni da quattro soldi, le loro quattro vacche che gli leccano il culo e le palle. E noi ci siamo rotti il cazzo!”.

Che cosa vuol significare quella frase che dici nel booktrailer di un tuo libro di poesia, quando sostieni che ti sei rotto i coglioni della letteratura?

“Chiaramente è una provocazione, perché la letteratura la amo. Però mi sono rotto i coglioni di tutto l’ambiente. Mi dà la nausea. Mi danno la nausea i comportamenti, ancora più dei libri degli altri. Il giudizio sui libri dipende dal gusto, per quanto io sia contrario all’idea che ‘i gusti sono gusti’. Un cazzo! Ci sono gusti e gusti. È una nausea di questo mondo letterario oramai in disfacimento, in cui alcuni credono di poter incidere qualcosa, ma non incideranno mai su nulla. Tutti ’sti coglioni che, arrivati al primo libro, solo perché hanno avuto un minimo successo, si danno arie e pontificano e stanno a rompere i coglioni. Non hanno neanche un po’ di senso morale. Si attaccano ai carrozzoni politici, si fanno le scuole di scrittura. Questo ambiente, le case editrici, gli editori, i giornalisti, questi che si occupano di blog, i blogger che si fanno i filmati per parlare di questo e di quello, che discutono solo di novità e se tu non lo sei non ti cagano. Parlano degli esordienti, invece. Ai miei tempi, gli esordienti non se li inculava nessuno. Adesso si parla solo di questi ragazzini che sono stati presi dalle case editrici per essere lanciati non si sa bene dove, se non fuori dalla finestra. Gente che non potrà produrre niente, dopo appena un libro o due. Non come me che sono un sopravvissuto e ho cambiato più editori che mutande. E io sono ancora qui, cosa farò da grande (Franz inizia a cantare e ridiamo). Mi ci ritrovo in questa canzone di Gino Paoli, nonostante Gino Paoli, perché io davvero sono ancora qui. E non mi sento vecchio. Ho una certa carriera alle spalle, chiaro, anche se ho iniziato a fare seriamente solo nel nuovo millennio, ma scrivo dagli anni ’70. Già allora buttavo giù poesie e scrissi anche una commedia dell’assurdo che si chiamava La ciurma acconsente, con un personaggio che si chiama Ciurma. Questo scritto lo persi. Poi scrissi un romanzo negli anni ’80 che si intitolava Rospi sputati su extrastrong da una famiglia col grilletto facile. Una storia di mafia che in un momento di rabbia strappai e buttai nel cesso. Non era un capolavoro, ma era originale. L’originalità non è mai mancata nel mio carnet. E anche questo non aiuta. Bisogna essere inquadrati, scrivere romanzi sulla montagna, che adesso va tanto di moda. Tra un po’ sarà il mare, poi chissà. Ecco, comunque, io mi sono rotto i coglioni di tutto questo, di chi mette in relazione la tematica di un libro con una moda, un qualche cosa a cui agganciarsi ogni volta, perché non si sa più parlare di un libro e allora si parla del contorno. Non si fa più informazione letteraria, si parla del contorno, questo è il problema”.

Ci pensi mai a come verrai percepito dalla posterità? Oppure la vedi come Tinto Brass, secondo cui è meglio passare ai posteriori che ai posteri?

(Ride) “Mi piace molto Tinto Brass, soprattutto i primi, ad esempio Il disco volante e quelli precedenti, degli anni ’60. Era un vero regista indipendente. Ma, a prescindere dalla sua battuta sui posteriori…”.

Sì, insomma, come pensi che verrai percepito dalla posterità?

“Mah… penso che non verrò proprio percepito. Non sarò pervenuto. Magari se venissi tradotto. Anche perché io, forse, funzionerei meglio con un pubblico straniero. Al nord potrei essere più apprezzato che qui. E non ti nascondo che sarebbe un grande riconoscimento per me che, appunto, sono ancora qui e non mollo. Mica mi sono dato alla pesca subacquea. Alla fine, si rimane quello che si è. Un artista vero non deve mollare mai il punto, mai ritirarsi. Io credo nel non ritiro, perché anche se si passano dei periodi in cui non si scrive – e ne ho passati vari – li vivi soffrendo e questo vuol dire che sei uno scrittore, uno scrittore con le unghie un po’ spuntate ma che poi ricresceranno. Credo che mi sentirò scrittore a vita. Mi sono sentito tale fin dalla più tenera età. È un destino. È inutile quindi che mi vengano a parlare di questi scrittorucoli, di questi romanzi in finta pelle – questo sono –, questi romanzi che magari vincono lo Strega, ma che non sono sangue e carne. È solo finta pelle! Ti potrei fare tanti esempi di romanzi e scrittori del genere. Una di questi è la moglie di quell’attore, la Margaret Mazzantini. Dico, una che ti parla di ‘anima sudata’ in un libro. Lo tengo a mente per fare un esempio agli amici, durante le conversazioni, e ridere. Ma nemmeno Henry Miller sotto acidi avrebbe potuto inventarsi una coglionata simile. Nemmeno Dalì in uno dei suoi momenti più grigi, quando sua moglie gli aveva dato un sacco di botte e si era fatta inculare da tutti i surrealisti. È terribile! È di un kitsch, quando ti lasci andare a queste trovate, che possono piacere giusto a un pubblico che non legge. E secondo lei sarebbe poetica! Che poeticità del cazzo! Se lo scrivessi in una mia poesia, i miei amici e soprattutto i miei nemici mi sparerebbero a vista. E sai che ti dico? Farebbero bene!”.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG