Durante la quarantena c’è chi della sua bacheca social ha fatto il balcone dal quale poter fare e farsi compagnia. Pier Angelo Sanna tramite il suo profilo ha condiviso brani del “Viaggio intorno alla mia camera” di Xavier de Maistre da lui tradotto. Sanna non traduce de Maistre oggi, in-occasione del “restate a casa e inventatevi qualcosa pur di non impazzire”: Sanna ha tradotto de Maistre da uomo libero quale non era neanche de Maistre quando ha scritto il Viaggio: de Maistre era strato tradotto in arresto, allora. Contatto Sanna per proporgli un dialogo e scopriamo che abbiamo i tempi stritolati, lui più di me coinvolto com’è sia in ambito clinico che in quello forense. Ci scriviamo domande e risposte e questo è il risultato della nostra conversazione avvenuta digitalmente, altro segno della contemporaneità, Covid o non Covid che sia. (Antonio Coda)
Pier Angelo Sanna, quando decidi di tradurre “Viaggio intorno alla mia camera” e perché?
Nel 2009. Avevo appena letto la vecchia traduzione di Gennaro Auletta che risale agli anni Sessanta e subito dopo lessi l’originale nell’edizione che riuscii a trovare alla Librairie française di Torino, ossia quella della Librairie José Corti, datata 1984. La freschezza dell’originale, il ritmo ballerino della lingua che restituisce molto bene quello del divagare del pensiero, a mio giudizio di lettore innamorato, nella traduzione italiana si perdeva. Mi misi a tradurlo essenzialmente per questo, perché me ne innamorai.
C’è un ritorno di fiamma per Xavier de Maistre e galeotta fu la pandemia. eppure c’è un dato da non trascurare: il protagonista di “Viaggio intorno alla mia camera” è in arresto causa duello, non in quarantena causa Covid-19. Quanto è vicina o lontana l’esperienza di chi legge oggi l’opera di de Maistre, accomunandoselo di straforo?
Le esperienze umane, io credo siano sempre molto vicine e molto lontane allo stesso tempo. Vicine perché umane, lontane perché individuali. Di giovani rampolli dell’aristocrazia economica e finanziaria agli arresti domiciliari per qualche motivo sono piene le cronache attuali così come quelle passate. Ma Xavier de Maistre è soprattutto uno scrittore che non sa di esserlo, un ragazzo coltissimo e ricco, oltre che di soldi, di una immaginazione davvero straordinaria. Tutto però parte da un dato del tutto pragmatico: nella sua confortevolissima camera-cella, con servitore privato e cane a seguito, nel 1790, un ventenne si annoiava a morte allora come oggi. Anziché scrivere sui social, scrive su carta.
Ritorno sul ritmo ballerino della lingua: faccio lo gnorri, sfigato, e il bal diventa la discoteca, les assemblées gli happening, con buona pace dei francesi di vedersi ribaltati in un inglesismo… Senza citarli uno a uno, come passare indenni di fronte al et sans prendre congé del Capitolo 35 che diventa un andar via arrabbiato “senza dire manco crepa”? La traduzione sente di scuola di traduzione busiana, semmai ne esistesse una. Con quale sentimento della lingua hai trasportato de Maistre nell’italiano contemporaneo?
Intanto io non sono un traduttore professionista, ma un lettore da centinaia di libri all’anno che, in quel momento, frequentava molto la Francia per studi. L’aria busiana che senti nella mia traduzione, forse, risiede nel fatto che io abbia seguito, direi mi sia attenuto, a una indicazione del Busi traduttore e direttore di una collana di classici tradotti con lo stesso intento: far parlare i classici come avrebbero parlato se li avessero scritti oggi. Non lo so se ci sono riuscito, oggi tradurrei il Voyage in modo molto diverso e forse avrei più timore a prendermi certe libertà, ma stiamo parlando di un ragazzo del Duemila che traduce un ragazzo del Settecento, con tutti gli errori che si perdonano solo ai ragazzi, ai loro slanci gratuiti. E il mio è stato davvero un lavoro gratuito in tutti i sensi, causa editore insolvente. Questo non ha tolto nulla, però, all’accuratezza che ho cercato di mantenere, consapevole come ero di manovrare un gioiello molto delicato.
“(…) eravamo felici grazie ai nostri errori” dice il Narratore, nel Capitolo 34, ricordando gli “anni giovanili”. E tu, nel 2009, eri uno di quei ragazzi coltissimi e ricchi che, arresti domiciliari o meno, invece che scrivere su carta o su social, traducevano de Maistre? Ci sarà pur stato, oltre al fascino della lingua, qualche altro punto di contatto.
Il punto di contatto, mi domandi. Vedi, a secoli di distanza, abitavamo vicini, nel senso che allora io abitavo a Torino, proprio dietro la Cittadella dove de Maistre scrisse il Voyage. Abitavo in una sufia, come si dice a Torino, una soffitta e non ero per nulla ricco. Avevo tempo e entusiasmo, soprattutto credevo in una storia, in un testo bellissimo che, pensavo ingiustamente, nessuno conosceva quanto meritava. E pensa che dopo il Voyage, sempre con un contratto editoriale mai onorato, tradussi anche un altro scritto di de Maistre, Il lebbroso della città di Aosta. Testo che, ancora oggi, passa per essere un testo di ideologia cattolica e non è così.
Nella sua camera il Narratore è tutt’altro che quieto: ricorda il mondo esterno, smania di desiderio, capitombola, nervoso ha qualche malinteso col suo servitore. Secondo te quanto ancora avrebbe resistito “in quarantena” prima di saltare in groppa alla sua bestia per correre dalla sua bella, o congiunta?
Penso che, in fondo, il tempo sia stato deciso dall’opera, più che dalla sua contingenza. Il Voyage è perfetto così com’è, si regge su un equilibrio molto delicato e, più lungo, sarebbe stato un’altra cosa, non so dire se più bello o più brutto, di sicuro un’altra cosa. 42 capitoli sono perfetti nella loro essenzialità. Siamo fortunati che de Maistre si sia fermato prima di diventare un noioso Silvio Pellico.
È un fare di necessità virtù o la reclusione, fosse pure una autoreclusione, secondo te è un buon innesco per far deflagrare la letteratura?
Se diamo per scontato, e non dovremmo, che la letteratura è uno dei modi inventati dagli esseri umani per cercare la libertà, allora sì. Penso tuttavia che la reclusione forzata possa, prima di tutto, annichilire, lasciare senza difese. La scrittura, semmai, viene dopo.
Incipit del Capitolo 24: “Non capisco come possa succedermi, ma da qualche tempo i miei capitoli finiscono sempre con accenti foschi.” In tutto il Viaggio non mancano altri accenni alla morte, non solo a quella dell’amico ricordato nel Capitolo 21. Traducendolo, che idea ti sei fatto di tanta consapevolezza della morte in de Maistre?
Guarda, la consapevolezza della morte, de Maistre ce la racconta ne Il lebbroso della città di Aosta. Dove nessuno avrebbe il coraggio neppure di accostarsi, dove tutti vedono un mostro, una sorta di Elephant Man alla Lynch o di Stephen Gordon alla Radclyffe Hall ante litteram, Xavier de Maistre è capace di vedere un uomo, un essere umano simile a lui. Non era per nulla scontato, soprattutto per un militare e, in particolar modo, per un nobile cresciuto tra gli agi dell’epoca.
Che allora entri in scena un altro personaggio dell’affollata quarantena del Narratore, a cui forse si deve la sensibilità di de Maistre: l’anima, controparte della bestia di cui prima, l’altra parte di cui l’uomo si “compone”. “A grandi linee ognuno può constatare quanto l’essere umano sia doppio”, così scrive de Maistre.
La dualità o, per meglio dire, l’ambivalenza cui si riferisce l’autore è la stessa che hanno provato molti di noi in questi giorni: il corpo ha le sue ragioni che non sono sempre razionali o morali. Ma il corpo è la mente e viceversa.
A proposito di ambivalenza, o dualità: come cambia la relazione con un testo tra il prima e il dopo l’averlo tradotto, chi ne esce più trasformato: il testo o chi lo traduce?
Il testo dovrebbe restare il più fedele a se stesso possibile. Chi lo traduce dovrebbe conoscerlo al meglio, non basta innamorarsene. Io mi sono letto tutto quanto Xavier de Maistre abbia scritto e tutto quello che sono riuscito a reperire su di lui, andando anche fisicamente nei suoi luoghi. Se qualcosa si sia trasformato non lo so, ma spero sia accaduto a me e non al testo.
È molto forte il tuo intento di voler rispettare l’autonomia del testo. Hai già chiarito di essere stato un traduttore per colpo di fulmine sopraggiunto, però come ultima immagine a me sovviene quella del ritratto dell’amata, nel Capitolo 15: “la perfida immagine, infedele come l’originale”: come si fa a essere fedeli, con una traduzione, a ciò che per sua intima natura non può esserlo neppure verso sé stessa, a una invenzione letteraria?
L’invenzione letteraria è una cosa viva, con un suo respiro e una sua voce. La fedeltà, forse, sta in questa consapevolezza.
*In copertina: Xavier de Maistre vive pressappoco negli anni di Barry Lyndon, creatura di William Makepeace Thackeray eternata al cinema da Stanley Kubrick, nel 1975