23 Luglio 2018

“La letteratura è eccesso, è errore, è la vita contro il potere”: dialogo con Luca Doninelli

Poi, decisamente, questo scrittore che aveva vinto tutto – dal Campiello al Grinzane Cavour, dal Premio Napoli all’ingresso in cinquina nello Strega – che, narrativamente, aveva tutto, optò per azzerare tutto, scegliendo, con Le cose semplici, la via più difficile, il confronto con il tutto, dalla propria nullità, l’affronto, l’affondo, il rischio. Era il 2015, il romanzo, ‘mostruoso’, lo stampò Bompiani: 800 e passa pagine in cui Luca Doninelli, tra i più riconosciuti scrittori dell’era presente (tra i suoi libri cito, a casaccio, La revoca, Talk Show, La nuova era, La polvere di Allah), recuperando la potenza del romanzo totale, ambientandolo in un mondo apocalittico, in un tempo futuro, tramite una struttura narrativa sghemba – con recupero e pubblicazione di taccuini – decideva “innanzitutto di mettere me stesso,tutto me stesso, in discussione: quello che pensavo, credevo ecc.”. In effetti, è questo il sunto della letteratura: uccidere se stessi, di certo, evitare di alimentare le proprie convinzioni. “La parola è una lama che penetra nel vivo di qualunque problema, obbligata dalla costruzione narrativa a caricarsi di una densità semantica ultimativa”, ne scrisse, così, Daniele Piccini. Quella è la parola buona. Ultimativa. Si va, in effetti, da Doninelli non tanto per chiacchierare di letteratura – la letteratura non è chiacchiera, si chiacchiera, semmai, di calcio – ma per avere ragguagli sulle ‘cose ultime’, che sono le prime, le solite, lo sole e le semplici, le solari, con l’immediatezza del pugno e della luce; il nostro rapporto con la vita, con i volti, la paura di precipitare negli altri, Dio, la morte, le epifanie e la corruzione, ecco. Guardare alle cose fino al punto magistrale dell’orrore. Ecco. Sfidare il fastidio, l’elettrico della letteratura che ustiona, scassa. Per questo si va a Doninelli.

DoninelliIntanto. Perché si scrive, per cosa, per chi?

Non so perché scrivo, ho cominciato troppo piccolo. Probabilmente scrivo perché non so fare altro. Così, in generale, si può dire scrivo per conoscere, per conoscermi e perché questo è un modo di incontrare gli altri. La scrittura è indubbiamente un grande strumento di conoscenza, a patto di usarla bene.

Scriviamo romanzi per sentirci piccoli”, scrivi. Scrivere come ammissione di piccolezza – ed esercizio di incauta grandezza. Cosa significa? Perché, ancora, il romanzo, archibugio vecchio di tre secoli, che cos’è, ora, il romanzo?

Ho letto centinaia di libri di critica, teoria letteraria, narratologia, e perfino qualche manuale in cui si insegnava come si fa (o come non si fa) a scrivere un romanzo. A me sembra che il romanzo sia uno spazio miracoloso abbandonato dalla febbre tecnologica, come un grande prato incolto in mezzo a una città. Spesso ci si accorge di stare scrivendo un romanzo verso la metà, se non verso la fine. A differenza di tutto il resto, il romanzo non ha una tecnica, è come uno spazio socratico, una scoperta graduale della nostra ignoranza, quel non-sapere che ci affascina e ci rende affini con i margini ultimi dell’universo. Non saprei dire diversamente. Credere che un romanzo sia un affresco della realtà è limitato: il grande romanzo squarcia gli affreschi. Da Philip Roth a Céline, o a Joyce, ce ne corre…

Da dove partire per leggerti? Io azzardo. “Le cose semplici”. Semplicemente, ti chiedo, qual è il tuo libro che ti ha chiesto più fatica, quello che ti infastidisce, che ti fa felice?

“Le cose semplici”, senza dubbio. Chi lo apre (sono 800 pagine) deve volermi già un po’ di bene. È anche il libro che mi fa più felice, insieme con “La conoscenza di sé”, che considero la mia cosa migliore dal punto di vista della riuscita letteraria (che non è, però, il solo valore che conti). Quanto al fastidio, ti dirò: se mentre scrivo un libro mi accorgo che mi lascia tranquillo, chiudo e cerco di scrivere qualcos’altro. Non posso mentire a chi mi legge, fossero anche in tre.

DoninelliSe non ho letto male, hai incontrato Testori quarant’anni fa. Cosa è stato, per te, il suo magistero, che valore ha, per tutti, Testori, nella letteratura italiana recente? 

Il magistero di Testori è stato un magistero di libertà fino alla spregiudicatezza, talvolta fino alla spudoratezza. Fino alla disperazione. Un maestro di eccesso, un maestro di errore, perché l’arte e la letteratura questo sono: eccesso, errore. Io penso che un maestro sia un maestro solo se fa così. Non ci sono maestri di regolarità, per quello ci sono già gli algoritmi.

Ma vorrei allargare il campo autobiografico. Quali sono i tuoi maestri ‘viventi’ (alludo agli incontri, ai dialoghi) e quelli ‘astratti’ (i libri che ti hanno formato o deformato)?

Dice il Vangelo: “Uno solo è il Maestro”. Posto che si riferisce a Dio, direi che il mio maestro terreno è stato Giovanni Testori, e mi fermerei lì. Tra gli scrittori, c’è per me un nome che sovrasta gli altri: Tolstoj. Non è un amore giovanile, ci sono arrivato a poco a poco. Quanto ai libri che mi hanno formato/deformato (ogni formazione comporta una deformazione) sono veramente troppi, equamente divisi tra narrativa e filosofia. Il primo in ordine di tempo: Le avventure di Pinocchio.

Scrivi, vendi a sufficienza, presumo, per scrivere ancora, per editori tra i più importanti del Paese. Che rapporto ha lo scrittore con il ‘mercato’? 

Lo scrittore non dovrebbe pensare troppo al mercato, ma solo a dire ciò che gli sta veramente a cuore. Il problema è che talvolta il mercato crede di essere lui a fare la letteratura, e considera gli scrittori come una massa di eterni adolescenti da gestire in qualche modo.

In che stato vive la letteratura italiana contemporanea? Te lo domando in riferimento a una tua ‘bordata’ pubblica contro il Premio Strega, dove, in qualche modo, misuri la distanza tra certi romanzi e la realtà viscerale, vivente del mondo, che chiede uno scatto narrativo alto, avido. 

Vale quello che ho detto qui sopra. Ho solo paura che, tra editori, giornalisti, blogger e accademici, siano veramente in pochi coloro che hanno saputo sviluppare un vero gusto letterario. Chi ha gusto letterario è magnanimo e largo di vedute, e sempre pronto, come diceva Wittgenstein, “a imparare qualcosa di completamente nuovo”, ossia qualcosa che vada contro le sue stesse premesse estetiche, ideologiche o quant’altro. Il gusto, la costruzione di un vero gusto, preciso, adulto e vasto: questo mi pare manchi.

DoninelliScrittura e potere. Tu scrivi. “Uno scrittore non gioca le sue carte migliori nel rapporto con il potere, ma nella larghezza, nella magnanimità, nella pietas che muove il suo sguardo sul mondo”. Non è un modo, politicamente, per ‘lavarsene le mani’? E lo chiedo a uno che nel cuore delle questioni, anche da commentatore culturale, c’è, sempre. Che rapporto hai con la politica, con il potere, appunto, che è anche potere (e protervia) editoriale, culturale?

Io penso che la cosa più rivoluzionaria del mondo sia la serietà con cui facciamo quello che ci è chiesto di fare. Stare caparbiamente al proprio posto, dire quello che dobbiamo dire, non rinunciare a parlare di fiori e di occhi celesti anche al cospetto del boia. Ciascuno di noi lavora in condizioni diverse, non paragonabili. C’è chi vuole farsi pubblicità, c’è una sinistra allo sbando, con i piccoli figli d’allevamento ora impauriti, perché sta crollando (ma forse non è vero nemmeno questo: c’è solo la paura che succeda) il mondo che era stato costruito intorno a loro. Sappiamo benissimo come vanno queste cose. Io non ho mai ricevuto dal potere nemmeno un caffè al bar e cerco di dire quello che voglio: ne soffro qualche piccolo svantaggio ma i vantaggi sono maggiori. Il potere esiste e non si può ignorare: ma la grande letteratura è l’esatto contrario del potere, è la vita contro il potere.

Qual è la tua visione del mondo? Qual è il tuo rapporto con Dio? Quale la dinamica tra solitudine ed espressione pubblica, tra lo scrittore che, come il Beato Angelico, incide i suoi affreschi nella cella e poi, comunque, va a patti con il mondo, con le creature? 

Non ho nessuna visione del mondo. Cerco di squarciare le visioni del mondo, questo è ciò che fanno tutti gli scrittori. Il mio rapporto con Dio è semplice: ogni giorno Gli chiedo di rendere utile quello che faccio al Suo progetto, che non è detto coincida col mio. Vorrei morire dicendo: ecco, sono un servo inutile. Per conservare, come hai detto bene tu, questa cella nel mio cuore e nella mia vita, sono disposto a venire a patti con tutto (anche perché per raccontare le cose occorre stringere un rapporto con esse) e non ho paura di essere giudicato incoerente. Per capire un uomo bisogna capire bene a chi o a cosa quest’uomo risponde della propria esistenza.

 

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