Parlare di Cesare Zavattini, per convenzione, significa ricordare i grandi capolavori del Neorealismo: il De Sica da Oscar di Sciuscià e Ladri di biciclette, il Visconti di Bellissima, e altre decine di film (a partire da Darò un milione di Camerini nel 1935, fino a tutti gli anni Settanta). Ma è una limitazione: l’opera di Zavattini non si è mai esaurita nella sceneggiatura. Purtroppo, come accaduto con Ennio Flaiano, grande sceneggiatore di Fellini, ma dimenticato come romanziere; come capitato perfino con Pasolini, il cui lavoro da cineasta ha semi-cancellato il grande poeta; l’enorme contributo artistico di Zavattini a Cinecittà ha finito per metterne in ombra il lavoro di scrittore.
Guido Conti, saggista e scrittore di Parma, dunque praticamente conterraneo di Zavattini (che era nato a Luzzara), qualche anno fa ha curato un’opera sullo scrittore, riportandone alla luce gli esordi letterari, i primi articoli (Dite la vostra, Guanda, 2002). Adesso Conti ha pubblicato un nuovo libro: Cesare Zavattini a Milano (Libreria Ticinum Editore). Quasi un seguito di quel libro su Zavattini a Parma, ma dedicato stavolta agli anni milanesi dello scrittore, tra il 1929 e il 1939: un periodo di formazione e risultati che rischiava di restare un’altra “zona d’ombra” sulle sue attività pre-cinematografiche.
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Per chi ricorda e ha amato lo Zavattini trasferitosi a Roma (trasferimento che segnò il “passaggio epocale” della sua vita e lo trasformò in protagonista), per chi ne conosce l’immagine nelle fotografie di lui già diventato famoso come sceneggiatore del Neorealismo, già di mezza età, un po’ rotondo, calvo, le lenti spesse al naso, magari accanto all’immancabile De Sica, una delle cose più sorprendenti del nuovo libro di Guido Conti è ritrovarlo da giovane nelle primissime pagine: dritto, magro, senza occhiali, e non solo con i capelli, ma addirittura con una chioma folta e ondulata. Ma non è che l’inizio, lo stuzzichino-antipasto di un volume dal valore inestimabile, che si è incaricato di questo: scrostare gli stereotipi e i “dati” (o pregiudizi) dati-per-scontati, e reintegrare a tutto tondo la figura artistica di Zavattini, illuminandone la maturazione: non solo cinema e letteratura, dunque, ma articoli per riviste e rotocalchi, partecipazioni alla radio, contributi nel campo dell’editoria, della fotografia, della pittura e persino al mondo dei fumetti. Il tutto fornendo testi, fotogrammi, immagini (decine di immagini), interviste, poesie, ricordi, lettere e rapporti con gli editori, recensioni, analisi critiche, e un serio apparato di note che punteggia il racconto.
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Il libro di Conti, che oltre ad essere autore è promotore culturale, fine critico e accurato biografo, rappresenta uno sforzo di ricostruzione e documentazione enorme, sorprendentemente ricco di documenti, di aneddoti, di curiosità, di fotografie, di riproduzioni di ritagli d’epoca. È chiaro che il sostegno ricevuto dal figlio, Arturo Zavattini, curatore dell’archivio di famiglia, deve essere stato fondamentale; e ha indubbiamente lasciato il segno. La ricerca è riuscita, e soprattutto (cosa importante da sottolineare) ha prodotto un libro non solo per specialisti, ma leggibile da tutti.
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Caro vecchio “Za”, che gioia riscoprire la genesi e la molteplicità dei tuoi interessi, la complessità di opere e pensiero, la storia meno conosciuta della tua vita. Un letterato, anzi: uno scrittore “eccentrico” alle tendenze dominanti della cultura italiana (da qualsiasi lato si voglia misurarla). Zavattini resta comunque estraneo; ai contemporanei uomini di lettere, alla categoria dei giornalisti di cui pure fu parte, persino ai registi-primedonne del cinema dei suoi anni: un intellettuale, un artista, un creativo sempre in anticipo sui tempi, tangenziale, imprevedibile, estraneo in fondo a tutti se non a sé stesso. Lui lo sapeva, quanto sia difficile essere presi “sul serio”, se racconti le miserie dell’umanità con surreale “umorismo”.
Flaminio Di Biagi