06 Agosto 2020

“Hiroshima è come una ferita aperta su tutto il genere umano”. Il reportage dello scrittore premio Nobel Kenzaburō Ōe

Il 6 agosto del 1945 l’atomica devasta Hiroshima; il 9 agosto cade su Nagasaki. Uno dei ricordi più profondi – per portata etica – della tragedia è il film di Akira Kurosawa, “Rapsodia in agosto” (1991). In quel caso, il tema è la sequela della memoria (cosa ricorda chi non ha visto, chi non c’era?), il rapporto con i ‘nemici’, la natura della tradizione. L’anziana Kane – sopravvissuta, ha perso il marito a Nagasaki – vive in un tempo fuori dalla storia, non ha brama né bisogni, lacera di ricordi, sfida la tempesta. La bomba atomica le appare come un occhio di fuoco che squarcia il cielo. Viviamo per salvare i nostri morti, in un gesto eccessivo, contro natura, si direbbe. Molti sono i libri intorno all’atomica: cito “Diario di Hiroshima” di Michihiko Hachiya e “La pioggia nera” di Ibuse Masuji. Per autorevolezza e sguardo sul futuro, però, preferisco il libro di Kenzaburō Ōe, Nobel per la letteratura nel 1994, scrittore eccezionale, forse troppo complesso per i nostri criteri editoriali (leggete, se li trovate, “Gli anni della nostalgia”, “Un’esperienza personale”, “Insegnaci a superare la nostra pazzia”). Nel 2008 Alet Edizioni pubblica “Note su Hiroshima”, frutto di un reportage che Kenzaburō Ōe realizza negli anni Sessanta. I temi del libro sono, dunque, decisivi: nonostante il disastro le potenze si riarmano, ostentando il bicipite della bomba nucleare; che senso ha, allora, la memoria? Il libro nasce intorno a un momento di dolore. “Un nostro comune amico si era tolto la vita impiccandosi a Parigi, sopraffatto dal terrore della minaccia nucleare e di una guerra mondiale estrema – un’ossessione che si era insinuata nella sua coscienza giorno dopo giorno, fino all’annichilimento totale”. Inoltre, il figlio di Kenzaburō Ōe, gravemente malato, nato nel 1963, “giaceva tra la vita e la morte, senza la minima speranza di guarigione, in un contenitore dalle pareti di vetro”.  In queste circostanze, lo scrittore parte per Hiroshima e scopre il miracolo della dignità umana. 

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In questa nostra epoca di armamenti nucleari, in cui, come affermano con piena sincerità i fautori del libro bianco sui danni della bomba atomica, viene rivolta maggiore attenzione al loro potenziale distruttivo piuttosto che all’infelicità che provocano, e in cui le attività dell’uomo tendono sempre più alla loro rapida proliferazione, cos’è che noi giapponesi dobbiamo… O meglio, cos’è che io stesso, come singolo individuo, devo continuare a ricordare?

Inutile dire che si tratta di qualcosa che ha a che fare con Hiroshima, ovvero con la tragedia umana di questa città. Inutile dire che si tratta di qualcosa che riguarda il complicato processo innescatosi in seguito al tentativo di superare questa tragedia, nonché il nuovo umanesimo della gente di Hiroshima. Ma al di là di tutto, mi chiedo, quali principi e quale e quale morale sono ancora oggi degni di fiducia?

In tempi come questi, è necessario più che mai dare forma concreta ai pensieri dello straordinario popolo di Hiroshima, luogo unico al mondo. Hiroshima è come una ferita aperta su tutto il genere umano, e al pari di tutte le ferite, anche questa pone due possibili sviluppi: la speranza di guarigione da un lato e il pericolo di un’infezione fatale dall’altro. Se noi giapponesi di oggi non perseveriamo nel ricordare l’esperienza di Hiroshima, i segnali di guarigione che affiorano flebilmente da questo luogo unico al mondo cominceranno in breve a marcire, condannandoci alla degenerazione finale… Nel corso della notte in cui la Cina ha dato inizio ai suoi esperimenti nucleari, sono stato svegliato di continuo, fino all’alba, dalle telefonate dei giornalisti. Tuttavia, in questo scritto tento di ricostruire una mia personale immagine di Hiroshima. Questa immagine verterà in particolare sulla dignità umana, perché si tratta del concetto più importante che ho scoperto in questa città, nonché ciò di cui ho bisogno io stesso per dare supporto alla mia vita. Ho appena affermato di aver scoperto la dignità umana a Hiroshima, tuttavia occorre precisare che questo non significa che sia in grado di spiegarla adeguatamente a parole. Direi anzi che la realtà di questo concetto trascende il nostro linguaggio, e aggiungo che ho cominciato a persuadermene fin dai tempi della mia fanciullezza…

Ho già scritto, per esempio, della tenace combattività di quell’anziano signore che, preso dall’indignazione, tentò invano il suicidio in segno di protesta contro la ripresa degli esperimenti nucleari; e ho poi raccontato di come le sue lettere di protesta furono del tutto ignorate e di come quell’uomo continuasse a ripetere: “Povero me, condannato all’eterna vergogna!”. A dispetto dal senso di fallimento da cui era afflitto sono convinto che avesse dignità umana da vendere, quel tipo di dignità che m’intriga e mi spinge a riflettere. Per dirla in altri termini, quell’uomo era rimasto in possesso di nient’altro che della sua dignità umana. Se penso al tentato suicidio, alla protesta ignorata, al tempo passato in un letto d’ospedale e m’interrogo sul significato della sua vita, la risposta mi viene spontanea: il significato e, dunque, il valore dell’esistenza di quell’uomo giacciono proprio nella straordinaria dignità umana perseguita negli ultimi mesi di vita grazie a quei penosi eventi. Confinato in un letto d’ospedale con una grossa ferita sull’addome scarnito, quell’uomo possedeva finalmente la forza necessaria per sostenere con dignità lo sguardo di tutti gli esseri umani senza cicatrici e cheloidi. Questo è senza dubbio un magnifico esempio di ciò che intendo per dignità umana.

Kenzaburō Ōe

*In copertina: la fotografia da Hiroshima, nell’estate del 1945, è tratta da qui

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