30 Marzo 2022

“Dov’è la felicità?”. Solženicyn contro tutti. L’idolo di Putin e la solitudine di Stalin

Il 1974 è l’anno decisivo per Aleksandr Solženicyn. L’anno prima, a Parigi, era riuscito a pubblicare Arcipelago Gulag: seguì, come si sa, l’espulsione dall’Unione Sovietica. Ospitato, in Germania, dallo scrittore Heinrich Böll, si spostò a Zurigo e infine negli Stati Uniti, invitato dalla Stanford University. Il 10 dicembre di quell’anno, riuscì a ritirare il Nobel per la letteratura che gli era stato conferito nel 1970: il suo discorso, intitolato Il grido, è un inno alla lotta, ricco di asperità (lo si legge nel repertorio curato da Daniela Padoan, Per amore del mondo. I discorsi politici dei premi Nobel per la letteratura, Bompiani, 2018). Solženicyn fa un elogio dell’arte, della sua “sconvolgente influenza sugli esseri umani”, che sfiora l’eterno (“Siamo noi quelli destinati a morire – l’arte rimarrà”), critica l’ONU (“in un mondo immorale, ha finito per diventare immorale anch’essa”), richiama al compito eminentemente morale dello scrittore (“Se i carri armati della sua madre patria hanno inondato di sangue l’asfalto di una capitale straniera, gli schizzi macchiano per sempre il volto dello scrittore”), soprattutto, invita alla battaglia: “La menzogna può resistere a molte cose in questo mondo, ma non all’arte. E non appena la menzogna verrà dissipata, la nudità della violenza si rivelerà in tutta la sua bruttezza – e la violenza, decrepita, cadrà. Ecco perché, amici miei, sono convinto che possiamo aiutare il mondo nella sua ora cruciale. Non adducendo la scusa di non possedere armi né abbandonandoci a una vita frivola, ma andando alla guerra!”. Nel discorso, Solženicyn cita quasi unicamente Dostoevskij; il testo, prolisso, rabbioso, oceanico, dimostra, per così dire, le doti profetiche del grande scrittore russo.

Quello stesso anno, tra l’altro, un po’ in tutto il mondo occidentale viene pubblicata la feroce Lettera ai dirigenti dell’Unione Sovietica. In Italia, è Mondadori a pubblicarla – nel libro Vivere senza menzogna – insieme ad Arcipelago Gulag. Proprio quest’opera, immane, viene accolta schifiltosamente dalla critica italiana; il 20 febbraio del 1974 è il “compagno Giorgio Napolitano” – all’epoca “responsabile della Commissione culturale” del PCI – a definire la ‘linea’ del partito sul “Caso Solgenitsyn”. Secondo Napolitano – il testo è pubblico su “l’Unità” e su “Rinascita” –, l’opera di Solženicyn è brandita dalle forze ‘reazionarie’ per screditare le sorti dell’URSS (“Si cerca così di diffondere una visione deforme dell’Unione Sovietica e insieme di negare l’originalità della prospettiva che sta davanti al movimento operaio del nostro paese e dell’Europa occidentale”); il caso circoscritto di un singolo – che pure, singolarmente, mina le basi di un ‘sistema’ – non scalfisce la grandezza del tutto: “l’altra verità da ristabilire è quella relativa al punto cui era giunto il rapporto tra Solgenitsyn e Io Stato sovietico. Nessuno può negare che lo scrittore (come d’altronde si ammetteva tra le righe degli stessi articoli scritti nei giorni scorsi per esaltarlo) avesse finito per assumere un atteggiamento di «sfida» allo Stato sovietico e alle sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica, alle istituzioni, che egli non solo criticava ma si rifiutava ormai di riconoscere in qualsiasi modo. Non c’è dubbio che questo atteggiamento — al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici — di Solgenitsyn, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’URSS”. In sostanza: lo Stato sovietico ha fatto bene a eliminare la tenia, il virus, lo scrittore che lo combatte.

Già: Solženicyn è uno che sfida ed è con la categoria della sfida che va affrontata la sua opera, sfrontata; è uno che non sta buono, che non è cauto, che rompe i bicchieri e le scatole. Esercita il ruolo di scrittore come spazio di contraddizione permanente. Così, pur riparato in Occidente, critica con asprezza il sistema di vita occidentale. L’8 giugno del 1978, ad Harvard, Solženicyn sbatte in faccia agli americani le storture ‘spirituali’, ‘morali’ del proprio modo di vivere; eccone un brandello, di vigorosa nitidezza:

“Se mi chiedono se propongo l’Occidente, come è oggi, come modello per il mio paese, francamente rispondo negativamente. No, io non posso raccomandare questa società come ideale per la trasformazione della nostra. Attraverso una profonda sofferenza, le persone nel nostro paese hanno raggiunto uno sviluppo spirituale di una tale intensità, per la quale il sistema occidentale nel suo attuale stato di esaurimento spirituale non è attraente. Alcune caratteristiche della vita occidentale che ho considerato, sono estremamente tristi. Un fatto che non può essere contestato è l’indebolimento della personalità umana in Occidente, mentre in Oriente è diventata più ferma e più forte. In molti decenni siamo passati attraverso la formazione spirituale, molto in anticipo rispetto all’esperienza occidentale. Contrasti e conflitti spesso mortali, hanno prodotto personalità più forti, più profonde e più interessanti di quelle generate dagli standard del benessere occidentale… Dopo una sofferenza di decenni di violenze e oppressioni, l’anima umana desidera cose più elevate, più calde e trasparenti, rispetto a quelle offerte dalle abitudini di massa della vita odierna, introdotte da un’invasione rivoltante di pubblicità commerciale, da stupidi spettacoli tivù e da musica intollerabile. Tutto ciò è visibile per i numerosi osservatori provenienti da tutte le nazioni del nostro pianeta. Il modo di vita occidentale ha le minori probabilità di diventare un modello leader. Vi sono sintomi da cui si può vedere come una società sia in decadimento, quali ad esempio, il declino delle arti o la mancanza di grandi statisti. A volte i segnali sono molto espliciti e concreti. Ad esempio, se un paese resta senza energia elettrica per poche ore, e all’improvviso una folla di cittadini americani produce saccheggi e devastazioni, la superficie sociale appare molto debole, e il sistema sociale instabile e malsano. Ma il conflitto materiale e spirituale, nel nostro pianeta, è un conflitto di proporzioni cosmiche, e non una vaga questione nel futuro; esso è già iniziato. Le forze del male hanno iniziato la loro offensiva decisiva. Si può sentire la loro pressione, eppure gli spettacoli sugli schermi e le pubblicazioni sono piene di sorrisi costruiti e la gente si è tolta gli occhiali. Dov’è la felicità?”.

Quando ritorna in Russia, dal 1994, Solženicyn non lesina critiche al modo in cui è stata condotta la dissoluzione dell’Unione Sovietica: “Ho predetto il crollo dell’Unione Sovietica… ma ho sempre esortato a rifuggire da cambiamenti repentini, affrettati, che non potevano che essere deleteri. E non mi sarei mai aspettato che avremmo potuto abbandonare 25 milioni di connazionali in balia dell’arbitrio e della repressione all’esterno dei nuovi confini della Russia. O che le autorità centrali russe avrebbero tollerato e addirittura indirizzato con favore il saccheggio senza freni delle ricchezze nazionali da parte di avventurieri… Sono stati derubati milioni di cittadini e, quel che è ancor più sbalorditivo, lo Stato stesso, l’impoverito tesoro pubblico” (in: Aleksandr Solženicyn, Ritorno in Russia. Discorsi e conversazioni 1994-2008, Marsilio, 2019). Naturalmente, il profeta Solženicyn, nato in una famiglia di origini ucraine, ha scritto anche di Ucraina, in diverse circostanze (qui Aldo Maria Valli ne ha catalogato un repertorio). In particolare, nell’aprile del 1981, in una lettera all’Harvard Ukrainian Research Institute: “Trovo che questa feroce intolleranza nella discussione del problema russo-ucraino (fatale per entrambe le nazioni e vantaggiosa solo per i loro nemici), sia particolarmente dolorosa perché io stesso sono di origine mista russo-ucraina, sono cresciuto sotto l’influenza congiunta di entrambe queste culture e non ho mai visto né vedo tutt’ora alcun antagonismo tra di loro. Ho più volte scritto e parlato in pubblico dell’Ucraina e della sua gente e della tragedia della carestia ucraina; ho molti vecchi amici in Ucraina; ho sempre saputo che la sofferenza dei russi e degli ucraini era in entrambi i casi causata dal comunismo. Nel mio cuore, non c’è posto per un conflitto russo-ucraino, e se, Dio non voglia, le cose arriveranno alle estreme conseguenze, posso dire che mai, in nessun caso, né io né i miei figli ci uniremo a uno scontro russo-ucraino, non importa in che modo alcune teste calde possano spingerci gli uni contro gli altri”.

Dal dicembre del 2018 si scrive – lo hanno fatto più o meno tutti – che “è Solženicyn il vero ispiratore di Putin”: il Presidente della Federazione russa inaugurava, a Mosca, una statua in onore dei cento anni dalla nascita dello scrittore, morto dieci anni prima, “le sue idee e i suoi pensieri risuonano nei cuori della gente”, ha detto. Che Putin sia un fan dello scrittore non è una novità: la prima volta gli fa visita il 20 settembre del 2000, lo cita ripetutamente, il 5 giugno del 2007 lo premia con una onorificenza di Stato, “per il suo impegno esemplare nell’area dell’attività umanitaria”. L’anno prima, la televisione russa aveva sponsorizzato la riduzione cinematografica de Il primo cerchio, uno dei romanzi più noti e terribili di Solženicyn. Il film, andato in onda per dieci puntate consecutive, dal 29 gennaio, era stato un successo: “quindici milioni di spettatori di media hanno guardato ciascuno degli episodi, per sette ore e mezza di visione senza interruzione pubblicitaria. Lo scrittore, ormai anziano, si era occupato di redigere la sceneggiatura e i brani narrativi; aveva aiutato il regista a ricreare con perizia l’ambiente claustrofobico dei Gulag. Fu soddisfatto della resa. Alla prima, il regista, Gleb Panfilov, ha ammesso di aver visto lo scrittore in lacrime” (così Joseph Pearce in Solzhenitsyn and Putin, articolo pubblicato su “The Imaginative Conservative”).

Dopo Una giornata di Ivan Denisovič, pubblicato nel 1962, Il primo cerchio è forse il romanzo più noto di Solženicyn. Pubblicato nel 1968, immediatamente tradotto da Pietro Zveteremich – il grande traduttore di Guerra e pace, Anna Karenina, Il dottor Zivago – per Mondadori, è memorabile nelle parti dedicate al delirio della solitudine di Stalin. I maligni dicono che quei passi, letti oggi, paiono ricalcare i modi di Putin. D’altronde, tutto è una recita, un atto unico.

*

“Stalin si alzò e si mise a camminare nel suo piccolo e amato studiolo notturno. Si avvicinò alla piccola finestra che, al posto dei vetri, aveva due lastre di corazza giallastra trasparente e, fra essi, uno strato ad alta pressione. Al di là delle finestre c’era un piccolo giardinetto recintato, dove, soltanto il mattino, si recava un giardiniere sotto la sorveglianza del corpo di guardia e poi per tutto il giorno non c’era più nessuno.  Al di là dei vetri impenetrabili, nel giardinetto, si librava la nebbia. Non si vedevano né la Terra, né l’Universo.

Metà dell’Universo, del resto, era contenuta nel suo petto ed era armoniosa e chiara. Solamente l’altra metà, la realtà oggettiva, si contorceva nella nebbia cosmica. Ma lì, in quel suo studio per la notte, fortificato, guardato a vista, difeso, Stalin non aveva alcun timore di quell’altra metà: sentiva in sé il potere di piegarla come voleva. Solamente quando doveva attraversare con le sue gambe questa realtà oggettiva; quando, per esempio, doveva recarsi a un grande banchetto alla Sala delle Colonne, percorrere con le sue gambe il pauroso spazio fra l’automobile e la porta, e poi, sempre con le sue gambe, salire la scala, attraversare il ridotto ancora troppo vasto e vedersi ai lati gli invitati entusiasti, riverenti, e tuttavia troppo numerosi, Stalin provava un malessere, si sentiva completamente indifeso e, addirittura, non sapeva come meglio servirsi delle proprie mani da tempo inadatte a una vera difesa. Le congiungeva sul ventre e sorrideva. Essi pensavano che l’Onnipotente sorridesse per compiacenza verso di loro ed egli invece sorrideva perché era smarrito… […]

Egli non si fidava di sua madre. E non si era fidato di quel Dio davanti al quale per undici anni da fanciullo aveva fatto inchino sino alle lastre di pietra sul pavimento. Non si era fidato dei suoi compagni di partito, specialmente di coloro che parlavano bene. Non si era fidato dei compagni di deportazione. Non si era fidato dei contadini: che avrebbero seminato il grano e l’avrebbero raccolto senza che li si obbligasse e li si controllasse. Non si era fidato degli operai: che avrebbero lavorato senza che si fissassero delle norme. Non si era fidato degli intellettuali: che sarebbero stati capaci di costruire e di non nuocere. Non si era fidato dei soldati e dei generali: che avrebbero combattuto senza battaglioni di punizione. Non si fidava dei suoi intimi. E non si era fidato delle sue mogli e delle sue amanti. E non si fidava neanche dei suoi figli. E aveva sempre avuto ragione di non fidarsi!

E si era fidato d’un uomo solo, di un unico uomo in tutta la sua esistenza piena di sfiducia. Di frnte a tutto il mondo quest’uomo era stato così risoluto nella benevolenza e nell’avversione, si era portato così avanti e, da nemico qual era, gli aveva proteso una mano amichevole.

E Stalin aveva avuto fiducia in lui!

Quest’uomo era Hitler.

Stalin aveva seguito con approvazione e maligna gioia come Hitler avesse invaso la Polonia, la Francia, il Belgio; come i suoi aerei avessero offuscato il cielo d’Inghilterra. Molotov era arrivato da Berlino pieno di spavento. Gli agenti del controspionaggio riferivano che Hitler concentrava truppe ad est. Hess era fuggito in Inghilterra. Churchill aveva avvertito Stalin dell’attacco. Tutte le cornacchie dei tremoli della Bielorussia e dei pioppi della Galizia strepitavano di guerra. Tutte le comari del mercato nel suo stesso paese predicavano la guerra da un giorno all’altro. Il solo Stalin restava imperturbabile e sereno.

Egli aveva fiducia in Hitler!

Per poco quella sua fiducia gli era costata la testa. Tanto più adesso egli definitivamente non si fidava più di nessuno!”.

Aleksandr Solženicyn

 

 

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