Presentendo la fine, William Butler Yeats ha cura di sistemare la propria opera, confidando nei posteri. Revisiona A Vision (1937), il folle libro mistico in cui riteneva di aver scoperto la chiave per carpire il sortilegio del tempo e i caratteri dell’uomo; raduna i reperti autobiografici (Autobiography, 1938), pubblica The Ten Principal Upanishads (1938), testimonianza del suo interesse – pur sempre naif, da druido che odora il sacro sotto ogni muschio – per l’India. Lo aveva aiutato Shri Purohit Swami, postulante, introdotto ai misteri induisti, che da anni aveva fatto ingresso nei meandri misterici di Yeats, era il suo guru tascabile (nel 1932 il poeta aveva introdotto il libro di Shri, The Autobiography of an Indian Monk). Soprattutto, dopo un silenzio poetico durato a lungo, Yeats pubblica i New Poems, nel 1938. Il libro registra l’estrema giovinezza di Yeats, una nuova ‘fase’: il poeta riesce nell’intento di morire bambino, cioè pronto a superare ogni rinascita.
Tra le poesie – alcune miliari nel ‘canone Yeats’, Lapis Lazuli, ad esempio, e Under Ben Bulben, con quei versi lancinanti: “Molte volte l’uomo vive e muore/ Fra le sue due eternità” – spiccano i testi ispirati da Margot Ruddock, Sweet Dancer e A Crazed Girl. Nella giovane Margot Ruddock – era nata nel 1907 – Yeats carpisce i caratteri della menade illetterata, della pura folle, della posseduta che danza e che nel ballo fa accadere il mondo (Let her finish her dance, implora il poeta, Let her finish her dance). Lui, Yeats, faceva il poeta, contemplava; lei era la poesia, la maniaca, la donna che si fa vuoto e vaso, l’invasata. Yeats può soltanto registrare i verbi della posseduta, come i sacerdoti a Delfi le parole sgangherate della Pizia. Eventualmente, può pensare di giocare a Orfeo, ed eleggere al canto l’Euridice Margot perduta tra traumi d’Ade. Lei, Margot, come tutte le possedute, dà la vita a ciò che la possiede, il demone; libera dal dio, scevra dalla poesia, declina lungo i declivi della follia. Resta un nulla, vuoto vaso senza più genio.
The Oxford Book of Modern Verse, uscito nel novembre del 1936 e costantemente ristampato – una seconda edizione esce il mese dopo, poi praticamente ogni anno fino alla fine della Seconda guerra – dovrebbe costituire la summa del pensiero critico di Yeats in merito alla poesia odierna, del suo tempo. Come sempre, WBY realizza il compito distrattamente, con distacco e passione, tra rigore e civetteria: alcuni autori dimostrano il fiuto totale di Yeats – George Barker, ad esempio, oppure Hugh MacDiarmid e Louis MacNeice, oltre alla canonizzazione di Gerard Manley Hopkins (che pure non gli piaceva) –, altri sono amici suoi (Lady Gregory, Dorothy Wellesley, per altro poetessa eccezionale, e naturalmente il guru portafortuna, Shri Purohit Swami). La scelta più sconcertante, però, è quella di Margot Ruddock, installata tra i talenti del tempo, W.H. Auden, Ezra Pound, Thomas S. Eliot, James Joyce, Rudyard Kipling. Nell’introduzione all’antologia Yeats scrive che i versi di lei le ricordano le atmosfere di Emily Brontë – più che altro, è probabile, vi avvertiva il principio di qualcosa di intangibile, di perentorio, la tragedia che incombe.
Tra le poesie che figurano nell’Oxford Book of Modern Verse – sette,tratteda un’opera complessiva che ne conta venti –, la più lunga s’intitola Love Song. Il testo è un esagono di zucchero per i critici. Nell’antologia, Love Song è composta da quattro stanze di quattro versi ciascuna, nel libro della Ruddock, The Lemon Tree – pubblicato poco dopo l’antologia, nel 1937 –, ne restano tre. Dall’epistolario tra Yeats e la Ruddock – pubblicato da Roger McHugh come Ah, Sweet Dancer nel 1970 – scopriamo che lei, l’11 novembre del 1935, gli invia Love Song in una versione più lunga, ha otto stanze. Ecco com’è la poesia in origine:
Canzone d’amore
In solitudine
silente ospite
giace la mia anima
sul tuo petto.
Solo lì trova amore
alieno da sofferenza,
pace priva di dolore
finché non si districa,
pudore impaniato a tenerezza
di tale gioia
lei fa convivio
lavoro a giornata.
Svezza il cuore
da tutto: non da Dio
fino a che
non sia purificato.
E quando il mio cuore
sarà libero da nodi
lo renderò
ancora a Te.
Se ti penso
gioia mi trafigge,
ti amerò
per non pensarti,
il tuo cuore
è il mio riparo
eppure fuggo
dal tuo abbraccio,
l’anima essuda
dolore inesauribile
ma inseguirò
soltanto Te.
È vero: Yeats emenda, cancella, suggerisce, disorienta. Fa sì che per la Ruddock la poesia sia cerchio sacro – dunque, una condanna, un levitico. Ama la donna, desidera la ragazza, ammaestra la poetessa. Ma la Ruddock non è figura che ammetta bordature retoriche: non vuole fare la poetessa, non è lì il punto di emersione, di eversione. Vita e poesia si annodano fino all’ago elettrico del silenzio – versi-tagliola.
Allo stesso modo, Autumn Crystal Eye appare ridotto – nel libro e nell’antologia – a due stanze da quattro versi: in origine – la Ruddock la invia a Yeats sempre l’11 novembre del ’35 – la poesia è molto più lunga, articolata, introversa; suona così:
Tu, il vivente
volto in carne
altro dal mio cuore morto
rinato a nuovo
In crude profondità
brucia la giovinezza
come l’anno che cambia
mendicando il vero.
Come un bimbo lacero
primavera improvvida,
derelitta, ti prendo per mano,
creatura perduta nel pianto.
Arso respiro d’estate
ti trascina a fondo
tra braccia assurde
giaci nel sonno.
Autunno, occhio di cristallo
guardami:
come te sono
passione coniugata al gelo,
una verità più severa voglio
proprio ora
desidero il bianco
ramo raggelato.
Gelidi rivi di pace
che scorrono lucidi:
un inverno dell’anima
bello da sopportare.
Mentre l’anno sfida
la frusta invernale
flirtando con le stagioni
io diffido dalla carne
L’anima saprà volare
luce dotata di forza propria
nessuna estate la rivendica
nessuna primavera.
L’opera maieutica di Yeats è chiara: vuole esasperare, della Ruddock, la tonsura epigrafica, visionaria; di lei ama la stranezza, l’ossessione, lo sguardo compulsivo e incompiuto. Come scrive nell’introduzione a The Lemon Tree – pubblicato per la prima volta in Italia dalle edizioni Magog come Vita, l’assalto –, Yeats è sfidato e perturbato dai pensieri di Margot Ruddock. Ritaglia alcuni concetti delle sue lettere, “frasi spezzate… frammenti d’ogni sorta” in cui “albergava una potenza espressiva del tormento spirituale assolutamente unica per la sua generazione”. La ritiene, ancora, prima che poetessa una baccante, ragazza estranea al proprio tempo, rara Iside, icona di una religiosità viscerale, sciamanica, maniaca – ormai inaccessa. Così, nel maggio del 1936, scrive a Olivia Shakespear – antica amata, la cui figlia, Dorothy, era diventata la moglie di Ezra Pound – a proposito di Margot:
“Disse che era venuta per scoprire se le sue poesie valevano qualcosa. La conoscevo da diversi anni e le avevo detto di smettere di scrivere, perché la sua tecnica stava peggiorando. Restai stupefatto di fronte alla tragica magnificenza di alcuni frammenti, e glielo dissi. Uscì sotto la pioggia scrosciante, pensando, come disse più tardi, che se si uccideva i suoi versi sarebbero vissuti al suo posto”.
Versi come acquazzone, poesia che reclama morte e postumi di posterità. Il libro pubblicato nel 1937, in qualche modo, ‘libera’ Margot Ruddock dalla poesia – e Yeats dalla posseduta.
Alcune poesie-canzoni di Margot, scritte nel 1935, codice privato tra lei e Yeats e preludio al libro, prendono spunto da Songs of Silence, una collezione di canti ideati da Shri Purohit Swami nel 1931. Eccole:
Bimbo, non serrare
il cuore: anche se
amare comporta
il pianto, il pianto
ti condurrà al mio
amore per te,
piangi, bambino
piangi per il
mio amore.
Amore, fammi in lacrime
per te e dammi
una sola lacrima
di puro amore
per sciogliere il cuore
di Dio.
*
Signore, fa’ che oda la tua voce
benché benedetto sia il silenzio
fa’ tacere i cuori, perché
è nel silenzio che rompi in pianto.
In un paio di lettere appaiono versicoli, lecerti di versi, pure escoriazioni verbali che Yeats riceveva tra appropriazione e riprovazione:
14c Westbourne Gardens [senza data, probabilmente tardo febbraio del 1936]
Caro Yeats,
Dare tutto
perché tutto sarà mio
berrò la Terra
come un vino d’annata!
Ecco una poesia. Il sole mi fa felice, sto meglio, non più così depressa. Era frutto dell’orribile nebbia, credo. Come stai? Non ho notizie se non che nella mia testa accadono cose straordinarie! A volte in merito a certe persone. Ho un nuovo tappeto in salotto dai colori vivaci, mi rallegra.
Con tutto il mio amore,
Margot.
E poi:
14c Westbourne Gardes, ottobre 1935
Ci sarai allo spettacolo di domenica? Voglio che tu veda “The Hangman”, se hai tempo. La produzione pare buona, un lavoro estasiante sul bene e il male. Ti scriverò presto, amore, tua, Margot.
Tutto il sommo Dolore
dovrebbe essere dolce
e l’Amore deve avere
i piedi congelati.
Grazie per la lettera di questa mattina. Tutto bene, solo, credo di avere scritto male, ed è così,
La mia anima è un uccello marino
ma noi ci appollaiamo nel mare.
Yeats riuscì, con un garbo screziato da illuminazioni andine, a ‘sistemare’ tutto. “So per certo che mi resta poco da vivere. Ho messo da parte tutto quel che si può mettere da parte in modo da poter dire quel che ho da dire… Sono lieto”, scrive a Elizabeth Pelham, il 4 gennaio del 1939. Morì il 28 di quello stesso mese. La Ruddock era stata l’avvisaglia dell’altro mondo, la personificazione, aggressiva e fragile, della poesia. Yeats preferì non impazzire – fissò la pazza. Dalla fine del 1937 Margot comincia un solitario calvario tra diversi manicomi: morì nel 1951. La figlia di Margot, Simone Lovell, nacque nel febbraio del 1934, quando la madre aveva scelto di legarsi a Yeats, mollando la famiglia. La carriera da attrice regalò a Simone qualche sceneggiato per la tivù – tra cui The Adventures of Robin Hood e The Count of Monte Crist – e sporadici film, in parti minori, per lo più tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ebbe tre figli, da un matrimonio finito male – un cliché ricorrente.
Dopo aver conosciuto Yeats e la Ruddock, a Maiorca, e aver soppesato il travaglio di entrambi, Shri Purohit Swami pensò che la sua missione in Occidente fosse terminata. Nel 1938, per la Faber, appronta insieme a Yeats una versione dello Yoga Sūtra di Patañjali. Poi tornò in India, dove morì, poco dopo, nel 1941.
Un tempo di anarcoidi e lirici vagabondaggi tra religioni e mondi era terminato per sempre: non si scorgevano più maniglie nell’ombra, porte improvvise che danno verso l’aldilà, spettri che parlano, angeli con la doppia spada nel petto e donne ipoteticamente illuminate, autentica apocalisse incarnata. I folli venivano rinchiusi negli ospizi, la parola dei poeti aleggiava nell’indifferenza patria, scoppiò la guerra.