La formula va ripetuta fino all’eccesso: Alessandro Spina, uno straniero, ha scritto la più bella prosa italiana degli ultimi decenni. Eleganza levantina, occhi profondissimi, statuaria severità, Alessandro Spina dimorava in Franciacorta ma pareva un sapiente dei deserti, un satrapo della letteratura. Nato a Bengasi nel 1927, da famiglia originaria di Aleppo, maronita, Spina, cresciuto in Libia e studi a Milano, ha celato il suo vero nome fino alla morte, accaduta nell’estate del 2013. “Definitivamente al riparo da non immaginarie ritorsioni di Gheddafi che aveva nazionalizzato l’impresa di famiglia a Bengasi, costringendolo all’esilio (peraltro dorato) in Franciacorta in una villa seicentesca di cui gli eredi, alla sua morte, si sono sbrigativamente sbarazzati”, nel 2015 Cesare Cavalleri, che fu uno dei suoi editori più fedeli – l’altro era Vanni Scheiwiller –chiamò Alessandro Spina col nome di battesimo, Basili Khouzam.
Discreto, custode di rapporti esclusivi e di una mondanità ‘da camera’, mai esibita, autentico visir della scrittura, Alessandro Spina / Basili Khouzam nasce alla letteratura nel 1954 con L’ufficiale, racconto accolto da Moravia e Carocci per “Nuovi Argomenti”. Giugno ’40 – pubblicato nel 1960 da “Paragone” – inaugurò il legame epistolare con Cristina Campo (“Ho letto un suo racconto… Mi è sembrata una cosa di qualità molto rara, come da tempo non mi accadeva di leggere”, attacca CC, entusiasta, il 13 febbraio del 1961, avviando uno scambio che durerà fino al ’75). La Campo intuì in quello scrittore la qualità ineffabile del genio. Aveva ragione. Nutrito di letture astrali, estranee al comune canone italiano – tra tutti, Thomas Mann, Hugo von Hofmannsthal, Hermann Broch, mescolati alla poesia araba che patina i fatti di un’aura fatale –, Spina arrivava a noi con una potenza esatta, una voragine cristallizzata:
“La guerra, se può spingere al suicidio, può anche sostituirlo, commentò sobriamente il tenente Cossa ripiegando il giornale che dava la notizia della morte di una grande scrittrice. Il pensiero che la guerra fosse a suo modo una risoluzione lo aveva sfiorato più volte. Si era più volte sorpreso, lui che aveva orrore della guerra, a desiderarla: per seppellirmici, come la scrittrice nel fiume”.
Autore impeccabile, austero aristocratico della forma, Alessandro Spina ha compiuto una delle opere più possenti della nostra letteratura: raccontare, in un ciclo di romanzi e di racconti pubblicati tra il 1954 e il 1999, la storia della Libia – meglio, Cirenaica – dalla conquista italiana del 1911 fino alla Seconda guerra e l’indipendenza, dichiarata nel 1951. In sostanza, undici libri, originariamente pubblicati per editori di pregio – Mondadori e Rusconi – raccolti nel 2007 in un volume leggendario, edito da Morcelliana, I confini dell’ombra. Una sola, immensa, polifonica opera di oltre 1200 pagine, il Sahara costellato di specchi. Qualcosa, in effetti, di inaudito. Uno straniero che narra un pezzo di storia d’Italia in un italiano di nitida bellezza. L’unico paragone europeo possibile è con Joseph Conrad: l’epopea marinara scritta in inglese da un polacco.
La ‘colpa’ di Alessandro Spina, piuttosto, fu di aver sfidato due capisaldi della nostra letteratura. Intanto, sostituire il mito/dogma della Resistenza con il tema del colonialismo. Così ne scrive nel Diario di lavoro (Morcelliana, 2010):
“L’Italia ha gonfiato la Resistenza, se ne parla ogni giorno, e sgonfiato il colonialismo, non più di moda. Ci si vanta della Resistenza, ignorando ciò che la precede, tacendo che gli stessi uomini hanno servito il fascismo, sia pure, chissà, nolenti – e non ci si vergogna del colonialismo, senza accorgersi che è lo stesso atto, l’esaltare la Resistenza e il vergognarsi del colonialismo, soffocatore spietato di un’altra Resistenza. L’italiano rifugge dal senso di colpa (quel che ha pure impoverito il romanzo del dopoguerra)”.
Infine, rompere con l’ideologia dell’impegno, dello scrittore di parte, nutrito dal trogolo del partito: “Ho fatto l’errore negli anni Settanta, forse, di lavorare troppo per la Libia (per un supposto pubblico libico): libri che pubblicavo in Italia. Come se Sartre avesse edito i suoi libri non a Parigi, ma in Afghanistan, in quattro copie. Ma c’è forse un secondo errore: i libri engagés invecchiano presto, vedi il caso di Sartre. Il Doctor Faustus (lasciamo da parte il talento dell’autore, ben più grande e complesso) si rivolge a un lettore ignoto, non tenta cioè di operare nella realtà. Per quella, c’erano i suoi famosi appelli alla radio durante la guerra (che si rileggono non senza turbamento)”.
Il tutto, insaporito da una sagace devozione per l’inattualità – Elogio dell’inattuale è un libro ‘da comodino’, ‘di culto’, edito da Morcelliana nel 2013, che raccoglie diversi articoli di Spina –, la perentoria distruzione dei falsi miti della letteratura italica (“Elio Vittorini, proconsole delle lettere, del romanzo italiano in particolare, apriva una nuova strada ai romanzieri invitandoli a occuparsi dell’industria… che sciocchezze”), e una sibillina poetica che propone “l’estraneità come metodo”. Il bello è che questa azione – possente perché avanzata da una che non aveva bisogno di essere accolto dal bel mondo dei letterati – la portava avanti un industriale, che aveva guidato l’azienda tessile di famiglia fino al 1979, finché Gheddafi non era diventato pericolo autentico. “Nella mia memoria non saprei in alcun modo dire dove finisce l’Oriente e dove l’Occidente e una mente è l’immagine totale di un mondo”, scrive Spina, “nella più nobile casa della città islamica comparivo come un familiare perché tale mi sentivo e come tale accolto”. Quando i giornalisti lo cercarono, in estro, per avere un giudizio sulle ‘primavere arabe’, lui s’era schermato, “Mi occupo di storia, non di cronaca… A questa età non c’è più tempo per orizzonti lunghi, non è più possibile incominciare alcunché”.
Era un eccezionale scrittore di lettere; a Cristina Campo pareva una specie di Lawrence,
“Non abbiamo mai parlato di Lawrence (T.E. naturalmente). Ho pensato a lui quando mi ha scritto della sua villa, di quella ‘militare eleganza’. Lawrence si costruì una casetta quand’era aviere. Un camino, nessun mobile, cuscini di cuoio in terra dappertutto. Librerie, s’intende. E dischi. Sull’ingresso aveva fatto incidere un piccolo motto greco: Ou frontis? (che vale? che importa?). Enormi fuochi ecc.”.
Nel numero di “Paragone” dell’agosto-dicembre 2010 vengono pubblicati i carteggi di Spina con Anna Banti, Elémire Zolla – a cui i racconti di Spina ricordano “la sicurezza del Lampedusa” –, Carlo Coccioli. In una lettera a Mary de Rachewiltz, Spina ricorda un pranzo con Ezra Pound, “bellissimo, immobile e muto”.
“I vecchi parlano da lontano”, mi aveva scritto, Spina, qualche anno fa. Era il solo scrittore che avrei voluto conoscere ‘dal vero’; non poteva apprezzare i miei libri; mancai l’appuntamento. Mi diceva, in un suo mondo per orafi dell’anima, da una Libia libraria, di Camillo Togni, insigne musicista, dei Mistici musulmani lettori degli scritti cristiani, uno studio di Sabino Chialà, delle lettere di Flaubert e di “un libretto di Edmond de Goncourt su Algeri”. Chi si era dato al mondo e ne aveva colto i frutti – cioè, le vaste economie – poteva permettersi, intendo, quell’elitismo d’acciaio.
“Dovrei strappare la lettera e scriverne un’altra. Cosa cambia? Sono le otto e mezza del mattino, mi sono svegliato al buio”: così terminava la lettera, come se mi scrivesse da Vienna, ai primi del secolo scorso, come se fossi una Anna Karenina, come se lui fosse donna.
Oggi i libri di Spina – è pazzesco –, miliari nella letteratura italiana del secondo dopoguerra, sono pressoché introvabili. “È mancata a Spina quella continuità e fedeltà editoriale di cui lui come pochi altri avrebbe avuto bisogno, vista la complessità dei suoi temi. È mancato, infine, un editore forte e continuo, forte per autorevolezza culturale o per penetrazione commerciale. È mancato, infine, un Adelphi, che avrebbe dato un’immediata riconoscibilità a una concezione e risultanza narrativa idealmente consona, per lo meno nel segno di alcuni numi tutelari, Elémire Zolla, e più ancora Louis Massignon e Henry Corbin”, ha scritto Piero Gelli in un numero di “Humanitas” dedicato monograficamente ad Alessandro Spina, era il 2010 (e presentato, con parole argentine, da Enzo Bianchi). Questo è vero, ma ciò che è accaduto pare una vendetta. Pare una sommossa di iene. Pare che di certi temi – la Libia italiana – non si possa parlare e in certi modi – di aurorale eleganza – non si possa scrivere.
Nel 1963, per Scheiwiller, Alessandro Spina traduce Storia della Città di Rame, una favola delle Mille e una notte; Cristina Campo scrive un saggio memorabile, poi raccolto da Adelphi in quel libro assoluto, Gli imperdonabili. “Dalle città torbide e insonni si è usciti nel deserto, regno di Dio”, scrive la Campo; e Spina ricorda, in un appunto, “Il lettore stia in guardia, la Città di Rame ha venticinque porte: il racconto si può leggere in venticinque maniere diverse e si è sempre ben lontani dall’averle scoperte tutte”. Ne deduco che la nostra vita può essere interpretata in venticinque modi, che il più veritiero è quello occulto – in uno di questi, dopo i veli dell’invidia, si giunge nella stanza del giusto. Lì, Alessandro Spina pare una torcia: è uno dei rari fari che inchiodano il canone alla sua veggenza.