23 Settembre 2018

“Talvolta inseguo solo il desiderio di lasciare tutto in ordine, ma i fogli hanno la stessa sveltezza dei pesci…”: una lettera inedita di Alessandro Spina, lo scrittore più grande (lo dice Cristina Campo)

Cristina Campo, si sa, scriveva lettere magnifiche, che costituiscono, in fondo, l’apice della sua opera. In quella lettera del 13 febbraio 1961, poi, scritta al “Gentile Signore”, scritta “senza conoscerla”, sulla cima di un’estasi estetica – origine delle migliori amicizie – la Campo registra, con anomala, animalesca lucidità, le caratteristiche necessarie al capolavoro letterario. Intanto, “indifferenza per il lettore”, segue “la qualità musicale… del succedersi delle emozioni”. E poi, “quel fondo di grazia, di libertà e di orrore”. E infine, “il sentimento dell’abitudine come morte vivente, la forza di volerla spezzare”. Da quel giorno, da quel giudizio comincia il rapporto epistolare tra la Campo, donna di violenta vertigine – in una lettera del 1963: “come tutte le creature liminari io perdo spesso il senso totale delle cose” – e Basili Khouzam, libico di origini siriane, imprenditore tessile a Bengali, che come Alessandro Spina è stato uno degli scrittori italiani più alti di sempre. In particolare, Cristina Campo – ergo Vittoria Guerrini, nata 95 anni fa e di quattro anni più anziana di Spina – era rimasta folgorata da Giugno ’40, “un racconto perfetto. Non ce n’è molti così, forse solo tre o quattro, negli ultimi 20 anni in Italia… ma questo è unico, non ha precedenti estetici italiani, stabilisce una musica, un ritmo, una danza, che non c’erano prima, qui da noi” (24 dicembre 1961).

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Il Carteggio tra Alessandro Spina e Cristina Campo (Morcelliana, 2007) è l’ingresso in un’aula senza tempo, arabescata, aristocratica. Vi si leggono confessioni allarmate, allucinanti, come questa, di Cristina, nel novembre del 1964: “scrivo di tanto in tanto qualche rigo… leggo antichissimi libri di celestiali eremiti il cui fiato vivente brucia le pagine: Antonio l’Egizio, Pacomio, Pier Damiano. Non vedo anima viva se non talvolta – forse una volta al mese – il monaco contemplativo di cui parlammo una sera. Mi piacerebbe dire che è il solo amico che abbia, in questa città di quattro milioni d’anime, se la parola avesse un senso con simili personaggi: che danno ma non ricevono, che non hanno alcun bisogno di noi, che ci sono, probabilmente, amici, ma dei quali non si può essere amici”. Il rapporto tra Cristina Campo e Alessandro Spina si trasfonde in un libro pubblicato da Scheiwiller nel 1963, Storia della Città di Rame. Spina traduce dall’arabo quella novella delle Mille e una notte; Cristina annota.

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Giugno ’40 è effettivamente un racconto di anormale bellezza, ecco l’incipit, per capirci: La guerra, se può spingere al suicidio, può anche sostituirlo, commentò sobriamente il tenente Cossa ripiegando il giornale che dava la notizia della morte di una grande scrittrice. Il pensiero che la guerra fosse a suo modo una risoluzione lo aveva sfiorato più volte. Si era più volte sorpreso, lui che aveva orrore della guerra, a desiderarla: per seppellirmici, come la scrittrice nel fiume”. Altezza stilistica, ingresso immediato nella vicenda narrata, censure, cesoie – la scrittrice suicida nel fiume, Virginia Woolf – la morte, la guerra. Con inedita nobiltà, tutto, la vita, la morte e l’ignoto, raccolto in tre frasi. Il giudizio di Cristina Campo, lettrice infallibile, è necessario per ribadire un compito generico, totale: riscrivere la storia della letteratura italiana (e non). Rassettando, ricucendo, facendo giustizia a sforbiciate.

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Alessandro Spina comincia a pubblicare con Garzanti, poi Mondadori, con Rusconi, con Scheiwiller, infine con Ares e Morcelliana. Definitivamente in Italia dalla fine degli anni Settanta, Alessandro Spina ha scontato, se così si può dire, la scrittura troppo aristocratica ed ‘europea’ – ergo: poco impegnata, per nulla impegolata in foschi affari politici, sociologici, sessantotteschi – e la distanza dai ‘giri’ letterari che contano. Alessandro Rivali, che lavorava in Ares, me ne parlava come del “vecchio, indomito leone”. Nel giugno 2006 atterrò nella redazione de Il Domenicale il volume oceanico (1270 pagine) de I confini dell’ombra che raccoglieva l’opera omnia di Spina: il tomo era dedicato da Spina medesimo ad Angelo Crespi, il direttore. Angelo lo girò a me, per scriverne. Io mi innamorai di Spina.

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Nel 2011 feci un ‘pezzone’ su Libero intorno all’opera di Alessandro Spina. Erano accadute parecchie cose editorialmente importanti. La pubblicazione del Diario di lavoro per Morcelliana, il numero monografico ad “Alessandro Spina” della rivista Humanitas (maggio-giugno 2010) e quello “Per Alessandro Spina” di Paragone (agosto-dicembre 2010). Eppure, Spina restava un maestro riconosciuto per pochissimi. “Alessandro Spina è il più grande scrittore italiano vivente. Ancor più: è il nostro Joseph Conrad”. Così attaccavo l’articolo, su Libero. Giusto per dire che su certe cose, almeno quelle, resto saldo. Il titolo dell’articolo, pubblicato il 9 luglio 2011, è Un leone del deserto contro la casta letteraria.

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Con gli scrittori, tranne casi rarissimi, trattengo rapporti ‘professionali’: di stima – e sospetto – reciproco. Di solito, gli scrittori con cui m’intrattengo sono miei pari – Spina, invece, un ‘classico’, decise di scrivermi, nell’agosto del 2011. La lettera è quella che ricalco, da straordinario conversatore, da austero letterato. Ritirato in una villa, in Franciacorta, costretto all’esilio da Gheddafi, Spina attendeva una mia visita, concordata diverse volte con Rivali. Ebbi l’ardire di inviargli un mio libro, davvero imperfetto. Mi scrisse di non capirne del tutto la novità, con una generosità impareggiabile. Io fui colto dall’orda del lavoro e da un pizzico di delusione – uno aspetta sempre che un altro gli dica, ‘sei un genio!’ – così Spina se ne è andato e a me non resta che il rimpianto.

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A me quella lettera pare una pagina di letteratura: paterna, già, ma soprattutto propria di un uomo che sa di ‘fare teatro’ quando si relaziona con i suoi simili. E che, con andatura verticale, vuole lasciare un buon segno di sé, tracce utili – per quanto dispari – a identificarne la via terrena.

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La lettera, in realtà, segue lo spartito canonico delle lettere di Spina: attacco intimo (“…l’aspetto qui in Franciacorta quando crede”), il piccolo sketch narrativo, un po’ di bibliografia (per lo più libri francesi e relativi al mondo arabo), il motto finale e la chiusa piena di pathos retorico (“dovrei strappare la lettera e scriverne un’altra”). Quasi che, in fondo, il grande scrittore non scriva che a se stesso.

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Forse è la morte a sigillare un affetto plateale. Di un incontro mancato è lecito fare romanzo. (Davide Brullo)

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Spina
La lettera di Alessandro Spina al “Caro Brullo” datata 4 agosto 2011

Rodengo, 4 agosto 2011

Caro Brullo, che gradita sorpresa il suo articolo su Libero, serio come un discorso pubblico e intimo come una lettera. Ne parlavamo domenica scorsa con Cavalleri e Rivali. In verità si è fatto più vivo il desiderio di conoscerla di persona e, ripeto, l’aspetto qui in Franciacorta quando crede. C’è anche la curiosità di un quasi ottantaquattrenne per una nuova generazione (e, se non è presunzione, per coloro che saranno nostri eredi).

Malgrado l’incerta salute sono sempre al lavoro. Non certo per un grande progetto. Talvolta sembra di inseguire solo il desiderio di lasciare tutto in ordine, ma i fogli hanno la stessa sveltezza dei pesci e sfuggono sempre di mano in ogni direzione. Una vecchia che abitava in questa casa e che accompagnavamo di fretta in ospedale ci confidò per rassicurarci: “Ho lasciato la casa tutta in ordine”. L’addio confuso con l’ordine: che sia un’espressione metaforica? Sulla scrivania c’è un po’ di tutto: delle carte che concernono un musicista, Camillo Togni, persona insostituibile, ne parlo in un breve scritto di questi giorni in ricordo di Giovanni Morelli, esemplare direttore dell’Istituto di Musica della Cini. Poi c’è un saggio di un monaco di Bose, Sabino Chialà, su “I mistici musulmani lettori degli scritti cristiani”. Un amico francese qui ospite mi ha lasciato un libretto di Edmond de Goncourt su Algeri che annega nel pittoresco, e, gaffe considerata la mia età, “La morte di Balzac” (ha notato che la stupidità nazionale quasi non stampa più Balzac?). Poi c’è il quinto volume dell’epistolario di Flaubert (Pléiade). Sono convegni disposti dal caso (sapiente). C’era ah quel che c’era è l’avvio canonico di tanta fiaba araba.

I vecchi parlano da lontano. Un abbraccio, Spina.

Dovrei strappare la lettera e scriverne un’altra. Cosa cambia? Sono le otto e mezza del mattino, mi sono svegliato al buio.

Gruppo MAGOG