13 Febbraio 2025

“Una tempesta scuote la mia bocca”. Alfred Wolfenstein, il poeta della libertà 

Lago muto, bestia ruggente, cupa crepa malinconica in un mondo scosso dalla foresta dell’indifferenza; Alfred Wolfenstein è il cieco abbraccio che annienta il lampo improvviso dell’eternità, l’armonica dimora che acquieta il grido dell’anima. Misantropo oltre il velo, ha delineato l’Espressionismo tedesco dell’era guglielmina; un outsider nato che ha aggredito ferocemente il suo tempo ma che si è arreso all’austerità della clessidra.

“Su doghe e assi cigolanti
Arrampicandosi dritti come acciaio 
Su scale che ondeggiano

I muratori bianco gesso
Come nuvole all’orlo del tempo.”

Alfred Wolfenstein nasce il 28 dicembre 1883 a Halle ed è la stella di un movimento che lo ha gettato nel dimenticatoio. L’infanzia modesta e l’angoscia per la sopravvivenza gettano le basi di una vita in costante ricerca di un significato profondo, di una verità che, ironicamente, non avrebbe mai completamente rivelato neanche a se stesso.

«Ero amico intimo di Wolfenstein, uno degli uomini e poeti più puri e nobili che io abbia mai conosciuto». 

Rudolf Leonhard

Alfred si trasferisce con la famiglia a Berlino e si trova in un crocevia di solitudine e fervore artistico. Qui, nel 1914, pubblica la sua prima raccolta di poesie, Die gottlosen Jahre, grazie al sostegno di giganti letterari come Robert Musil e Rainer Maria Rilke. 

Rilke e Wolfenstein si incontrano per la prima volta nella sede della casa editrice Fischer-Verlag. I due erano già in contatto epistolare da almeno quattro anni, scambiandosi libri e manoscritti. La loro amicizia prosegue a Monaco e poi a Parigi, quando Wolfenstein fa visita al poeta gravemente malato. Immensa è la sua considerazione nel panorama tedesco dell’epoca.

“Il suo pallido corpo disteso cerca 
urlando tra gelidi buchi stellari, ci costringe
a rantolare nel buio, a sopportare, ci bacia,
e sopra di noi, con biancore che lacera, osserva
il carnoso e smussato cranio morto…”

Sin dal primo incontro con Rilke, però, Wolfenstein inizia a costruire una propria mitologia personale. All’epoca, aveva 28 anni, continuava a nascondere il vero anno di nascita, affermando di essere nato nel 1888 o nel 1885. Tra le pieghe affannose della sua esistenza, emerge un poeta che cerca di allinearsi a una gioventù che forse sentiva più vicina alle sue aspirazioni espressive. Nascondere la vera data di nascita è l’inizio di una vita segnata dalla riscrittura di sé stesso.

“Berlino divenne la spina per il grande conflitto tra affetto umano e solitudine.”

La capitale tedesca, con i suoi espressionisti e intellettuali, non è sufficiente a tenerlo a bada. Dopo lo scontro con personaggi come Kurt Hiller e Franz Pfemfert, Wolfenstein si trasferisce a Monaco nel 1916. Qui, in piena turbolenza post-bellica, si immerge nella fervente cultura intellettuale rivoluzionaria, partecipando al Consiglio degli intellettuali lavoratori. Durante questo periodo frequenta, tra gli altri, Johannes R. Becher, Oskar Maria Graf e Rilke. Wolfenstein viene accolto con entusiasmo. 

«Oh, noi due possiamo incendiare migliaia di persone».

Johannes R. Becher

Wolfenstein vive in un periodo in cui utopia e fratellanza sembrano essere a portata di mano; la sua rivista, Die Erhebung, è considerata una delle più importanti dell’espressionismo letterario. Il sogno personale, però, si frantuma con la feroce irruzione della realtà. Wolfenstein è un pacifista dichiarato, un uomo senza partito, ma con una visione chiara e delineata, e presto si trova nel mirino. Nel maggio 1919, quando le truppe della Reichswehr entrano a Monaco e rovesciano il governo, una vicina lo accusa di essere bolscevico per una frase: “Se oggi Cristo fosse vivo, sarebbe un comunista come ogni persona perbene”.

Alfred viene arrestato, ma grazie alla sua conoscenza con un ufficiale è rilasciato poco dopo. Molti conoscenti, come Kurt Eisner e Gustav Landauer, vengono uccisi. Questo provoca un cambiamento radicale nella visione di Wolfenstein: “La mia fase poetica è, per ora, alle spalle. Credo di iniziare a radicarmi sulla terra, […] con il dramma, che differisce dall’io lirico come una foresta differisce da un albero”.

La sua fede nella poesia perisce e la abbandona per dedicarsi al teatro e alla traduzione, tornando in quel di Berlino nel 1922. Qui si unisce al circolo di Carl von Ossietzky e vince il premio tedesco per la traduzione nel 1930: ha voltato nella sua lingua Rimbaud e Verlaine, Gèrard de Nerval, Victor Hugo, Shelley ed Emily Brontë.

Dopo la presa del potere da parte dei nazisti, è inserito nella “lista nera” del regime. Emigra a Praga per evitare l’arresto, ma nel 1939, con l’occupazione della Cecoslovacchia, deve rifugiarsi a Parigi, dove è sorpreso dall’invasione delle truppe tedesche nel 1940. Qui viene internato dalla Gestapo, ma rilasciato dopo breve tempo. Nel tentativo di sfuggire all’occupazione, fuggendo nel sud della Francia, viene travolto dalla guerra a Donzy: poiché il ponte sulla Loira era già stato distrutto, torna a Parigi, dove è fermato e detenuto nel carcere La Santé. Dopo il rilascio, Wolfenstein cerca di ottenere un visto americano da Nizza, ma nonostante gli sforzi di Stefan Zweig, Franz Werfel e Thomas Mann, vi riesce solamente nel novembre del 1942, quando ormai è impossibile lasciare la Francia. Nel febbraio del 1944 torna a Parigi, dove, sotto il falso nome di Albert Worlin, vive in condizioni precarie in un hotel. 

Negli anni trascorsi nella resistenza francese, sempre in fuga, sempre alla ricerca di un luogo sicuro, di un’identità stabile, il poeta cade in un abisso di solitudine e disperazione. Il fisico cede, la mente lotta contro demoni personali, la guerra incombe e la sua cardiopatia peggiora in maniera drastica. Il 22 gennaio 1945, a Parigi, città che ama, ma che pare averlo intrappolato, Alfred Wolfenstein si toglie la vita con un’overdose di sonniferi. 

Le parole di Wolfenstein sono profetiche, intrise di un’etica umanista e di una passione visionaria. Le sue poesie, tra cui la più conosciuta, Die Städter, parlano di solitudine, angoscia e ricerca di un senso nella folla anonima della metropoli, anticipando l’alienazione moderna. È un outsider nato, un uomo che, pur conoscendo tutti i grandi del suo tempo, preferisce rimanere in disparte, fedele solo alla sua ricerca interiore.

“Il mondo è nudo, anche tu vorresti esserlo!”

Forse è proprio questo che lo rende ancora così attuale: un poeta che vive tra i confini, non solo geografici, ma anche esistenziali. La sua vita, disseminata di crepe, è una continua lotta per riconciliare il sogno con la realtà, l’arte con la vita. In una delle sue autobiografie scrive “sono nato in molti giorni” e in ognuno di quei giorni ha cercato di riscrivere il proprio destino.

“Nel ghiaccio del pensiero più vuoto, canta la melodia dell’uomo”.

La sua poesia parla di salvezza, di un costante tentativo di sfuggire alla brutalità di un tempo in cui tutto pare immobile, opprimente. Ogni parola diviene cicatrice, ogni suono uno sciame di vespe, ogni poesia la misura del mondo; Wolfenstein è infelice fino alla morte.

“La tempesta scuote la mia bocca”.

Ma è dalla disperazione che nasce la bellezza, la sinfonia della forma, l’evasiva scusa che cancella l’orgoglio, la melodia di luce che scandisce il divenire. Forse l’unisono e la simmetria poetica non coincidono con il mondo temporale, forse la musica dell’uomo è muta nel brusio delle radici del mondo. Non fluttuare, ma danzare. Rinunciare a ogni armonia per riniziare ovunque; Alfred Wolfenstein è pervaso dall’inesorabilità del mondo, dall’istante perduto per sempre, dall’incapace sofferenza; la distruzione non può essere l’inizio, eppure, se ogni mormorio diviene un urlo di leggerezza, ogni odore un’aroma strappato all’oblio, ogni fiaccola una stella polare, ogni sospiro può divenire resurrezione.

Tommaso Filippucci

**

Casa delle Bestie

Scivolo, attorniato dalle oscure bestie in gabbia,
Attraverso la casa ruggente, spinto qua e là tra le sbarre,
Scorgo lontano nel loro sguardo come oltre il mare,
Verso la loro libertà… che i belli mai perdono.

Il ritmo persistente della densa città e dell’umanità si conta
Sulle dita, ma le solitudini sciolte camminano
Sul ginocchio della tigre, e i suoi lati a strisce d’albero
Non sono sposi di strade, ma soltanto della terra stessa.

Ah, il mio volere sente le loro anime pure e ardenti,
E mi sciolgo pieno di desiderio come una donna.
I lampi del giaguaro, gialli nel suo corpo di notte,
Avvolgono il mio viso di neve e la mia misera pupilla.

L’aquila siede immobile come una statua,
E sale, sale, in un movimento immenso!
Il suo slancio mi afferra e mi tiene sotto il suo controllo –
Rimango fermo, sono di pietra, è solo lei che vola.

Si alzano alti i grigi ghiacci degli elefanti,
Montagne abitate solo da giganti spiriti:
Sono circondato dall’impeto e dalla brace del selvaggio cosmo
E rimango rinchiuso nel loro libero cerchio.

*

Cittadini 

Dense, come crivelli, stanno
Fitte le finestre, serrate a forza
Case così dense che le strade
Paiono grigie e gonfie come strangolate.

Assieme, incatenata,
Siede nei tram la gente delle due facce,
Dove gli sguardi si scontrano
E i desideri si urtano, si insinuano.

Le nostre pareti sono tanto sottili
Che ognuno condivide il mio pianto,
Sussurri penetrano come urla sgraziate:

Eppure, muto, in una grotta chiusa,
Incontaminato e ignorato
Ognuno è lontano e si sente: solo…

*

Il Cuore

Dimenticato giaceva il cuore nel nostro petto,
Per quanto tempo! Un sasso nei piaceri del volere,
Solo con specchianti mani fresche nell’acqua 
Talvolta sfiorato, inconsapevolmente.

Ermetico e chiuso in sé, così piccolo,
Non necessario per la pietra senza lacune
Della grande città e per il trono d’acciaio del denaro,
Il colmo cuore non s’incastra nell’acuto ingranaggio.

Ma un giorno finisce la corsa senz’anima,
Mai la luce sale dall’ambiente circostante,
Ciò che ci circonda non è mai cielo! Il mattino
Sorge da dentro l’uomo –

Il cuore – che brucia sottile come un sole,
Ma che chiama a sé stelle con i suoi raggi,
Il piccolo cuore guarda sconfinato
Dal firmamento dell’anima umana!

O fronte, porta il segno di questo cuore,
Pensieri, risuonate più profondi al suo battito,
Il cuore diverrà l’unità possente interiore!
Nel cosmo brilla come il giorno dell’uomo.

*

Sigaretta

Il vento fuma una sigaretta,
Giace sul bordo del posacenere
E fuma, come avesse fiato,
Attraverso la stanza, senza bocca né mano.

La mano trovò nel bianco letto,
non grigia cenere ma gioia blu:
La sigaretta fuma il vento,
La libera bocca bacia una donna.

*

Coro

Stringete le dita: sentite il vostro pensiero,
Toccanti come violini, cantori nervosi,
Ma dal cuore pulsano i timpani,
Sordi lottatori della vostra fortuna.

Non desiderate di star fermi, sciogliendovi nell’ascoltare,
Formate con i piedi un sentiero montuoso,
Lottando la terra vi soffia contro,
Ritorna selvaggio il sospiro dentro di voi.

Freschezza stellare, ardore dell’anima,
Solitudine, amore – oh, sentiteli entrambi!
Una voce in cammino si unisce alle altre,
Amici dissodano deserti in felicità.

Gruppo MAGOG