Certo, c’è la storia della finestra, ma la sua intelligenza, come dire, era una cattedrale, un Leviatano punteggiato da diecimila porte, il re defenestrato. Nata nel gennaio del 1901 a New York City, Laura Reichenthal – il cognome tradisce genia ebraica: il padre, Nathaniel, era sbarcato dalla Galizia polacca – si faceva chiamare Laura Riding, per un tratto si era firmata Laura Riding Gottschalk, con il cognome del marito. Storico di talento – esperto in Rivoluzione Francese, autore di diversi studi sul Marchese di La Fayette –, Laura aveva scelto (perché in questa storia è sempre lei, con virilità senza bivio, a scegliere) di sposare Louis R. Gottschalk neanche ventenne. L’aveva conosciuto alla Cornell University, se l’era divorato: divorziarono nel 1925.
Nel frattempo, il genio lirico di Laura Riding era esploso. Fu pubblicata su “The Fugitive”, la rivista organizzata da Allen Tate insieme a Robert Penn Warren e a John Crowe Ransom. La sua originalità sorprese tutti: la dissero “la scoperta dell’anno”; Robert Fitzgerald – poeta e giornalista di peso, traduttore, tra l’altro, di Sofocle, Omero, Virgilio – perfezionò la lode: “Di tutte le poesie contemporanee che conosco, queste sono le più ardite, le più personali, le più pure”.
Non è poetessa semplice, Laura Riding: in lei agisce l’arte della sprezzatura, una sintesi senza sintassi, lo stigma di un’intelligenza nobile, a volte barbarica, che non cede alle moine del lettore. Alcuni – James Atlas ad esempio – riconobbero in lei una parentela con Emily Dickinson. Paul Auster – in Truth, Beauty, Silence, 2005 – la ritiene
“una delle forze preponderanti dell’avanguardia internazionale: nell’età in cui la maggior parte dei poeti comincia a trovare una propria lingua, lei era completa, matura… In poesia, cerca in qualche modo di strappare la pelle del mondo, di scorticarlo, per trovare uno spazio assoluto, inattaccabile, nel fervore di una ricerca metafisica senza quartiere né requie”.
Dietro il viso docile, dagli occhi ampi, la mascella come una voliera di veli, Laura Riding celava corvi, l’intransigenza di un intelletto pervicace, atroce, l’avvenenza della virago, come diceva Geoffrey Phibbs, poeta irlandese cascato tra le sue grinfie. Laura lo obbligò a vivere insieme al suo nuovo amante, Robert Graves, e la moglie, Nancy Nicholson, nello stesso appartamento, a Londra. L’esito del ménage, appunto, lo redige la finestra. Il 27 aprile del 1929 la Riding si getta dalla finestra di casa Graves, salvandosi dopo lunga degenza ospedaliera; l’episodio fece scandalo, e Graves, disarmato, mollò la moglie per lei. La congiunzione tra la Riding e Robert Graves si consuma a Deià, a Maiorca, e produce grandi cose: tra l’altro, una rivista, “Epilogue”, e una casa editrice, la Seizin Press, che pubblicò Gertrude Stein, Len Lye, James Reeves; Laura, autentica Lilith, riuscì a fare, scrivere, disfare.
L’idillio, dopo un certo viavai – dal ’36, con lo scoppio della guerra civile spagnola, la coppia vaga tra Inghilterra, Francia, Svizzera; nel ’39 si sposta negli Stati Uniti, in Pennsylvania – sfiorì. Nel 1928, in un saggio di cartesiana complessità, Anarchism Is Not Enough (ripreso e commentato, nel 2011, in un’edizione curata dalla University of California Press), Laura Riding ragiona sulla pochezza del linguaggio, sui suoi grigi compromessi. Tutto, in lei, mira alla rottura delle forme e delle formule consolidate, all’estremismo concettuale. Laura Riding, creatura impossibile, non accetta nulla, tutto passa al setaccio di un pensiero spietato. Stufa di Graves, lo molla, sposandosi, nel 1941, con Schuyler B. Jackson: si stabilì a Wabasso, Florida, non senza – è ovvio – criticare, con violenza, il suo antico amante. Di fatto, disse che il capolavoro di Graves, La Dea Bianca, era opera sua, “Per quando riguarda la Dea Bianca: è un’improvvisazione, scolastica, retorica, fraudolenta, di Robert Graves, in una cornice pretenziosa e ornamentale, rubata, di fatto, dai miei scritti e dal mio pensiero sulla poesia, la donna, la realtà cosmica, la storia delle concezioni religiose”. Graves non replicò: nel 1950 si era sposato con Beryl Hodge, collezionò otto figli; Laura restò vedova nel ’68.
Per un tot, pubblicò moltissimo. La raccolta dei Collected Poems edita da Random House nel 1938 conta quasi 500 pagine. Poi, mollò tutto, era nel suo stile. Arrivò al punto da ritenere la poesia insignificante e i letterati inutili. Dal 1940, non scrisse più versi. Molti anni dopo, in pubblico, disse che:
“All’inizio degli anni Quaranta presi la drastica decisione di rinunciare alla poesia: vedevo ostacoli inamovibili nel realizzare in pieno la potenza del linguaggio, nel tracciare tramite il linguaggio umano ciò che intendo per ‘stile della verità’. Vedete, il mio lavoro sul linguaggio si accompagna a uno sguardo che dalla poesia e dalla letteratura dilaga verso l’intera scena umana, storica, odierna, per giungere alla percezione che è del tutto insoddisfatta la responsabilità che gli esseri umani hanno di raccontare la sola storia del loro essere e del mondo”.
Ogni tanto usava lo pseudonimo Madeleine Vara, che pare Beatrix Kiddo: non sarebbe insolito immaginare la Riding con una katana. Morì nel 1991, poco dopo aver ricevuto il Bollingen, che prima di lei era andato a Ezra Pound, a Allen Tate, a Robert Frost, a Robert Penn Warren e a John Ashbery. Sapeva smarcarsi da tutto – figuriamoci ritirare un premio, a novant’anni, poi…
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L’anarchia non basta
Il linguaggio è una forma di pigrizia; la parola è un compromesso tra ciò che è possibile esprimere e ciò che non lo è. Per questo, esprimersi, in sé, è uno stadio di pigrizia, pura indolenza. La causa dell’espressione è un’incompleta capacità di capire e di comunicare: intelligenza distribuita in modo diseguale. Il linguaggio non lima questa diseguaglianza, la accetta, e, più che altro, realizza una media matematica tra intelligenze diverse. I gradi estremi dell’intelligenza, così, sono ignorati: eppure, sono i più importanti.
La prosa è la matematica dell’espressione. La parola è una convenienza numerica, una formula per far convivere gli sconosciuti in uno spazio che accomuna chi sa e chi non sa. La parola in prosa non distribuisce intelligenza; si limita a dichiarare la diseguaglianza, dunque, come espressione, non è reale, è cifra vuota.
La poesia è il tentativo di dare al linguaggio qualche cosa di più; di metterlo in moto; di seminare intelligenza per mezzo della parola. Se vi riesce, il problema della comunicazione scompare… La distribuzione deve avere luogo all’interno dell’intelligenza stessa. La prosa elude il problema, produce equazioni sciatte, banali, che paiono risolte proprio perché sono inesatte. La poesia lo affronta di continuo e, di norma, va incontro al fallimento. Ma anche se fallisce, almeno è al cuore del problema, che non tratta come una difficoltà del pensare, ma come pensiero.
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Il solo progetto produttivo è ripudiare il progetto, devastarlo. Il risultato di ogni progetto è la risoluta distruzione di colui che progetta: non puoi aggiungere nulla; tutto è ed è fatto. Energia che tenta di dare senso e di aumentare la somma numerica delle cose realizzate, spesso si ritorce in sé, irritante, inutilizzabile. Il fine di una presunta felicità provoca una inattesa, imprevedibile infelicità. L’energia consapevole dell’impossibilità di costruire è dedita a un’ordinata dissipazione, allo spreco di sé: ecco l’approccio più prossimo alla felicità. Infelicità senza progetto e felicità architettata significano anarchia. L’anarchismo non basta.
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La primavera ha molti silenzi
La primavera ha molti suoni:
pattini graffiano il pavimento, macinando polvere.
Gli uccelli ritagliano l’aria in brevi melodie.
Il vento dimentica di essere occasione metereologica
e sussurra antichi aforismi estivi.
Il mare si allunga
scricchiola dolcemente, si rompe le ossa…
La primavera ha molti silenzi:
i germogli slegano il loro segreto
dal senso remoto
i boccioli non dicono nulla.
Ci sono cose che nemmeno il vento può tradire.
La Terra mette un dito sulle labbra
e allenta il suo moto, inquieto, cauto…
Non meravigliarti
se sto in silenzio
la notte di aprile è al tuo fianco.
La primavera è fitta di silenzi.
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Sì e no
Lungo un continente immaginario
che non poi scoprire ora
su questo pianeta del tutto interpretato
non esistono più candidati affidabili
ahimè –
Corre una bestia non zoologica
priva di fato e di fatti
intacca la sua epopea privata
contro tutte le parodie
della cronaca anatomica.
Né vista né invisibile
esiliata dalla notte senza giorno
ha mai volato a terra
dalla fantasia alla luce
nello spazio, per sostituire
la morte mai inscritta?
I minuti scintillano dentro e fuori
vengono e vanno, dentro e fuori
uno per uno, da niente a nessuno,
ciò che sappiamo è ciò che non sappiamo.
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Io e il mondo
Non è esattamente ciò che intendo
non più che dire: il sole è il sole.
Come comprendere con più precisione
se il sole splende appena approssimato?
Che mondo difficile!
Quanto sono ostili i sensi!
Forse è questo il senso
di ciò che levita in sapienza.
Eppure credo che io e il mondo
viviamo come estranei, e così moriamo –
amore crudo, che dubita su cosa
ci sia poi da amare nell’altro.
No, è bene che entrambi restiamo
abbastanza sicuri di ciò che siamo –
con esattezza io, con esattezza il mondo
senza mai incontrarci per scambiare una parola.
Laura Riding