Noi torinesi lo sappiamo, che nell’immaginario collettivo Torino è come la Nazaret dei vangeli, potrà mai venirne qualcosa di buono? Città ex-capitale, ex-operaia, ex-movidara, ex-olimpica, che vive un po’ come tutti il rimpianto di ciò che fu e di ciò che poteva – e svela i suoi tesori con discrezione, solo a chi si dà il tempo e lo spazio per guardarli.
In mezzo a questi tesori nascosti passa le sue giornate un professore di liceo, insegnante di Storia e Filosofia al liceo salesiano Valsalice, che risponde al nome di Giorgio Bruno e che ha come vizio non troppo segreto la frequentazione di Charles Péguy e che a questo vizio, a questa vocazione intellettuale, ha finalmente reso pubblico omaggio pubblicando un invito alla lettura per le edizioni Ares, Charles Péguy. Amico presente.
E a me che – lo dichiaro a mio vanto e per lealtà verso il lettore – conosco e stimo sia Giorgio che l’Ares da qualche anno, non è parso ci fosse occasione migliore per scambiarci qualche parola e riscoprire di chi e perché Péguy possa essere amico ancora oggi.
Giorgio, per cominciare una domanda dall’apparenza ovvia ma che per me non lo è. Perché hai scritto questo libro?
Per un desiderio che mi portavo nel cuore e che una serie di contingenze nell’ultimo anno ha svelato e reso possibile. Tutte le persone che amano leggere e studiare hanno degli amici, magari anche lontani nel tempo, a cui volentieri tornano, parole che sono loro di testimonianza e di aiuto. Péguy per me è quell’amico: per questo quando si è presentata l’occasione mi è sembrato bello poterlo presentare a chi non ne ha mai sentito parlare o tornare a parlarne a chi invece già lo conosce. Ho tentato di fare – fedele al suo spirito – una divulgazione popolare, di renderlo presente a livello popolare.
Il popolo, ecco un primo punto su cui insisti e che, ti confesso, mi lascia per certi versi interdetto. Nella descrizione che fai del pensiero di Péguy il popolo sembra una presenza attuale e operante nella sua vita e nel suo pensiero. Scrivi: «Péguy riafferma la vita contro il sistema. Questo significa riportarsi alla vita del popolo. Lavorare, amare, parlare, discutere, litigare, costruire un’opera con passione: tutto ciò contribuisce a rimanere strettamente vicini e innamorati del popolo a cui si appartiene e a coglierne il sentire, invece di giudicarlo in base a ciò che scrivono i giornali e i maîtres à penser». Ma – mi chiedo – questa esperienza di popolo, intesa come appartenenza naturale, esiste ancora? E Péguy stesso, nel suo socialismo parigino, la viveva davvero o scambiava la realtà di una più o meno agguerrita coscienza di classe con la nostalgia di un’appartenenza popolare?
A me sembra che lui abbia a cuore un popolo che esiste, che ha conosciuto e che anzi conosce, perché non ne parla solo al passato. Però è vero che per lui è importante ciò che ha vissuto da giovane a Orléans e soprattutto in casa e a scuola, coi suoi maestri e i suoi compagni… A Parigi non prenderà mai casa nei sobborghi più proletari, ma l’intensità con cui la vita di quei sobborghi lo colpisce, così come la lotta dreyfusarda, o il lasciare gli studi alla Normale per mettere su la libreria, il fondare i «Cahiers» e venderli a prezzi bassissimi, sono tutte azioni e sentimenti intrinsecamente popolari.
Però, scusa se ti contesto, se penso a opere come L’Argent, la narrazione del bene – dell’onore e della dignità del lavoro del popolo – sembra sempre legata a un tempo passato…
Sì, è vero, ma l’accusa di una concezione di sé perduta, se così possiamo chiamarla, è sempre rivolta a quello che lui chiama «partito intellettuale moderno», agli accademici che idolatrano il sistema, il metodo, e si allontanano dalla vita. Un po’ di nostalgia del passato c’è, ed è normale, perché la difesa di un modo di vita chiama sempre in causa la percezione di qualcosa di buono legato alla propria storia. Per certi versi non è troppo diverso dal Pasolini che lamenta la sparizione delle lucciole: sono eventi-simbolo, ma l’accusa che da questi eventi prende le mosse riguarda l’allontanarsi da una forma mentis e da un modo di vivere buoni.
Questo mi chiarisce un po’ la questione, però continuo a chiedermi: un povero è un povero, non è detto che sia o che si concepisca parte di un popolo. Se ripenso a come si viveva nelle case popolari in cui sono cresciuto, non mi torna in mente un popolo, ma al massimo una coscienza di classe marxianamente intesa – coscienza di classe durata peraltro solto finché non siamo diventati tutti borghesi comprandoci la casa. Se penso invece al termine «popolo», penso piuttosto ai corpi intermedi naturali come ne parla la Chiesa nella dottrina sociale…
Io non vedo così forte l’opposizione tra la coscienza di classe e la coscienza di popolo, anche se è vero che certe cose che il socialismo di Péguy sentirebbe come buone di fatto concorrono a corroderla. Una data cui lui fa chiaro riferimento in questo senso – un evento-simbolo, come ho detto prima – è la nazionalizzazione dell’educazione nel 1880. Perché da un lato la legge allarga a tutta la popolazione la possibilità di ricevere un’educazione. Ma quale educazione? Un’educazione in cui la persona è separata dal suo alveo e messa sotto l’egida della cultura di Stato. Ed è chiaro che questo, che lo si veda come un progresso o lo si veda come un regresso, di fatto contribuisce allo sfaldarsi di un mondo.
È un po’ ciò che ci dicevamo prima a registratore spento, la differenza tra un’aggregazione di persone e una massa di monadi?
Sì, quello è il discrimine. È se è vero che il processo secondo Péguy inizia almeno dall’accentrarsi dello Stato francese nel ’600, se non già da Enrico IV di Borbone, è vero anche che la Rivoluzione e la Terza Repubblica lo accelerano fino a questa data simbolica del 1880, che secondo Péguy si potrebbe indicare come data di nascita del mondo moderno.
Cosa c’è di così decisivo in questa legge in fondo meritoria dell’educazione nazionale?
Come dicevamo prima, c’è che la cultura di Stato diventa l’unica fonte di cultura a cui abbeverarsi e questo non può non tendere a favorire una sorta di omologazione e a far distaccare da quell’aspetto morale di vicinanza al lavoro, di passione per il lavoro, di passione per l’altro, di sistema in cui si va a lavorare cantando… Certo la colpa non è solo di quel provvedimento, anzi quel provvedimento è piuttosto un esito, un’espressione tra le altre dell’avanzare di una società borghese moderna, sempre più tesa a idolatrare il denaro.
Mentre parli di omologazione culturale, mi vengono in mente le riflessioni che riporti nel libro sulla competenza. La competenza è un po’ l’idolo dei nostri anni, in cui pare che serva una laurea in fisica anche solo per dire che il sole ci sembra arancione. Il che va bene, per certi versi, perché quando siamo su un treno ci piace che il macchinista sia competente e sappia condurlo; ma trasportato nel campo della riflessione, è un atteggiamento che mortifica terribilmente il valore conoscitivo dell’esperienza e del giudizio immediato…
È vero, ed è per questo – credo – che Péguy valorizza profondamente la competenza, ma legandola a un sapere vissuto e non meramente appreso. Lo dice bene in una delle Situations, dove scrive che «c’è competenza quando un uomo, un saggio, tutto ricco di scienza, di ciò che apprende, di insegnamenti, di erudizione, ha perfettamente incorporato tutto a tal punto che, invece di esserne carico, ne è nutrito». Quando, cioè, in lui «non c’è più alcuna differenza e non può essere fatta alcuna differenza tra il sapere acquisito e il naturale».
Questa non mi sembra la descrizione di un citoyen istruito, ma di una persona cristianamente intesa, di un individuo nato in un alveo e diventato se stesso in un intreccio indissolubile con quell’alveo…
Né di un citoyen, né di un erudito che pontifica in televisione… È quella che ancor non troppi anni fa veniva definita una persona saggia, sapiente, in cui il sapere è diventato vita, così vita che ha anche la semplicità di comunicartelo. La competenza per Péguy è proprio questa, un sapere che è diventato sangue e vita.
E infatti nelle pagine successive lo sintetizzi benissimo, quando dici che per Péguy «la competenza è una restituzione dell’organico» o che «Fidia per creare le sue statue non ha aspettato che l’istologia dicesse la sua ultima parola sul corpo umano». Questa sottolineatura, o l’altra che fai sulla «convinzione di un’intima connessione tra conoscenza e azione», mi sembra riporti il discorso alla polemica contro il partito degli intellettuali. Ricordo in Zangwill, di cui curasti l’edizione qualche anno fa per Marietti, la feroce polemica di Péguy contro lo storicismo e la sua pretesa – per dirla con Rodolfo Quadrelli – di ricapitolare in sé l’ultima parola sulla storia. E ancora qui, quando parla di Véronique e di come la musa della storia sia invece «sempre in ritardo».
Se proviamo a immedesimarci, vediamo che il filo è sempre lo stesso, che lui reagisce al peso di tanta cultura – cui comunque sa rispondere da par suo – che continua a dire che sei sapiente solo se sei erudito, che per conoscere qualcosa devi aver segmentato ogni particolare fino al dettaglio in sistemi, classificazioni, tabelle, procedure e che altrimenti non puoi parlare… Sembra uno degli infiniti dibattiti visti negli ultimi anni. E di nuovo: è chiaro che è bello che uno sappia di che cosa parla. Ma dover premettere il curriculum di pubblicazioni o, nel caso della storia, la classificazione fino al dettaglio di ogni registro e ritenere che solo questa sia la verità deve aver destato in Péguy – proprio in virtù dell’opposta esperienza di certezza che la vita gli ha dato – una voglia di controbattere che lo ha animato fino alla fine. E così come Fidia sapeva ben descrivere un muscolo nel marmo, così nella storia non si tratta di esaurire l’analisi di tutti gli archivi, ma di cogliere l’umanità – il presente – di ciò che si vive. È una mossa quasi più da artista, quella dello storico. Ed è così che, come scrive in una lettera all’amico Lotte, mentre per Clio è vita solo ciò che compare sui manuali di storia, ecco che invece Véronique, «un’ebrea da nulla, una ragazzina, prende il suo fazzoletto e raccoglie una traccia eterna del volto di Gesù». Lei è «capitata nel momento giusto. Clio», la supposta padrona della storia, «è sempre in ritardo».
È capitata nel momento giusto…
E ha colto il momento più importante della storia con quel gesto profondamente umano.
Come dicevi poco fa, il filo è sempre lo stesso.
Sì, sempre. È l’opposizione tra vita e classificazione, tra vita e sistema.
Iniziando la nostra conversazione, ti ho chiesto perché hai voluto scrivere di Péguy e hai risposto: «Perché è mio amico». Nel salutarci, ti chiedo allora: ma perché dovremmo leggerlo? Perché ti interessa che diventi amico nostro?
Per tutto ciò che abbiamo detto finora. Ma sintetizzando all’estremo, per tre ragioni: anzitutto, per una nobiltà nell’intendere e vivere la vita. Poi, per un modo di sentire e percepire la grazia, la fede e la vita cristiana con un’umanità, un’intensità, una profondità che un teologo come von Balthasar vedeva al livello dei padri della Chiesa – anche se Péguy dice che gli basta esserne l’ultimo dei figli. Infine, perché ha un dono di profezia rispetto al contesto in cui ci troviamo. Lui criticava il suo tempo, i primi abbozzi di una modernità successiva alla seconda rivoluzione industriale; ma è impressionante che nonostante tutto quanto abbiamo visto passare in un secolo dalla sua morte, tantissime delle sue battaglie restino del tutto pertinenti al nostro tempo.
Non hai scordato un punto?
La speranza, certo! Ma quello è il fondamento. Tutta la vita e l’opera di Péguy sono un inno e una testimonianza di speranza, di questa forza così sorprendente, così trainante che anche Dio, nel Portico del mistero della seconda virtù, se ne dice stupito.
Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce. Me stesso. Questo è stupefacente. Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio. Che vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina. Questo sì che è sorprendente ed è certo la più grande meraviglia della nostra grazia. Io stesso ne sono stupefatto. E bisogna che la mia grazia sia in effetti di una forza incredibile. E che sgorghi da una fonte e come un fiume inesauribile. Da quella prima volta che sgorgò e da sempre sgorga.
(Da Il portico del mistero della seconda virtù, 1911)