E. M. Forster, o del fascino ineguagliabile dell’introverso
Letterature
Silvano Calzini
Un autore che non è più letto è un autore che non parla più. La sua voce è condannata al silenzio. Dimenticato, passato di moda (ma cosa c’è di più effimero e fuorviante delle mode letterarie?). Quando poi l’autore in questione si chiama Robert Browning, il poeta vittoriano che per oltre trent’anni fu, nonostante il suo genio, il «grande estraneo» della letteratura inglese, in quanto le sue opere venivano sistematicamente ignorate dal pubblico e stroncate dalla critica, può venire il legittimo sospetto che il destino si accanisca con certi artisti con una particolare determinazione. Eppure Browning è poeta grandissimo, senza il quale sarebbe impossibile comprendere autori del Novecento di primo piano, da T. S. Eliot e Ezra Pound, fino a Konstatinos Kavafis. Come mai, dunque, nessuno più lo legge? La prima risposta che mi verrebbe da dare è che è poeta troppo difficile per i nostri tempi (come altri poeti venuti dopo di lui poco o nulla letti, penso a Luis Cernuda, Hart Crane, Wallace Stevens). Tempi di semplificazioni, che rifuggono la complessità. E tuttavia Browning va letto e riletto (mi riferisco soprattutto ai suoi superbi «monologhi drammatici», e a tutta la produzione antecedente al poema che lo rese finalmente famoso, «L’anello e il libro», nel 1868), perché è dalla sua poesia che ha origine la modernità, così come la intendiamo oggi, così come la interroghiamo oggi, a dispetto della volontà di metterlo in soffitta. Così, dal momento che ruolo del critico è anche quello di ridare voce agli autori dimenticati, tenterò di farlo con una poesia di Browning, non la sua più importante, ma una di quelle a cui sono più affezionato, una poesia di estrema (ma solo apparente) semplicità, composta al ritorno dal suo secondo viaggio in Italia, nel 1845 (il terzo, e ultimo, lo compirà un anno dopo, nella sua fuga d’amore a Firenze con la moglie Elizabeth Barrett, appena sposata).
La poesia è The Englishman in Italy (inizialmente con il sottotitolo Autumn at Sorrento, che mi fa venire sempre in mente, per assonanza, il malinconico e cullante standard di Vernon Duke, Autumn in New York, cantato da Billie Holiday): è ispirata al soggiorno di Browning a Piano di Sorrento, sui Colli di San Pietro, dove probabilmente il poeta fu ospite presso il Castello Colonna. Seppure priva di quella spiccata componente narrativa e drammatica tipica delle poesie che Browning andava elaborando per la raccolta Dramatic Romances and Lyrics, pubblicata nello stesso anno, questa poesia prende chiaramente le distanze dall’astrazione e vaghezza shelleyana scaturita dai viaggi italiani, rovesciando il sublime romantico in un elogio della concretezza e dell’infinitamente piccolo, della semplicità e dell’osservazione minuta, che l’avvicina, paradossalmente, al «prose-poet» del mai amato Wordsworth, per il quale la poesia doveva scegliere «eventi e situazioni dalla vita comune» (ma, come vedremo, l’avvicinamento è solo un pretesto, perché in Browning nulla è mai ciò che sembra). Non c’è più traccia qui di identificazione del Soggetto con la Natura, la quale è riscoperta piuttosto con uno sguardo microscopico, con un’attenzione al dettaglio, all’elencazione precisa, alla catalogazione quasi pignola, alla «descrizione pura» che cancella ogni residua partecipazione sentimentale. La componente emotiva è invece tutta sviluppata sul versante delle sensazioni visive, uditive e tattili, come una gioiosa rapsodia sensoriale, un caleidoscopio di immagini, suoni e colori. In questo eden ritrovato che è l’emblema di quella «rara, traboccante bellezza d’Italia» di cui Browning parlerà nella tarda raccolta poetica Asolando, l’io lirico descrive a un’immaginaria bimbetta di nome Fortù, sullo sfondo autunnale di una giornata di pioggia e scirocco, le vivide immagini di un paesaggio e dei suoi natural objects, caratterizzate da un notevole dinamismo descrittivo, tra cui il cibo svolge una funzione di primo piano.
Così, mentre «fuori, sui tetti a terrazza /dove seccavano i fichi, /le ragazze mettevano i graticci al riparo», a causa del maltempo, non c’è lo spettacolo del pescatore che torna da Amalfi, con il suo cesto «tutto palpitante / di polpi grigio-rosei e frutti di mare», mentre attorno a lui si stringono «come diavoletti mocciosi nudi strillando, / bruni come i suoi gamberetti».
Intanto è cominciata la vendemmia:
Nel tino in mezzo al portico /ribolle sanguigno il mosto, / e vi danza a gambe nude tuo fratello, / finché ansando fa una smorfia, / stremato dalla fatica incessante / di pigiare l’uva; / e quando pare abbia finito /nuovo bottino riversano /le ragazze che vanno e vengono senza posa / con la gerla sulle spalle / socchiudendo gli occhi alla pioggia sferzante.
Attraverso queste descrizioni vivide, Browning accumula pennellate di tonalità, con accostamenti cromatici, come in un quadro: il rosso del pomodoro «polposo», il porpora delle «fette di zucca fritta», insieme al blu dell’uva, al bianco della caciotta che «si sfalda come una cipolla» e ancora al rosso della polpa del fico d’India. Ma qual è lo scopo del poeta? Questa scoperta componente pittorica, questo colorismo, che cosa nascondono? Per capirlo dobbiamo arrivare alla seconda sezione della poesia, che è anche la centrale e più ampia, dove viene descritta la scalata, a dorso di mulo, sul «Monte Calvano», ovvero il Monte Vico Alvano, un’altura di 613 metri nei pressi di Arola, una frazione di Vico Equense (un’escursione che mi è capitato di fare a piedi, in pellegrinaggio, per omaggiare Browning e questa sua deliziosa poesia).
L’inizio ha un tono dimesso, ironico, in perfetta sintonia con la serena e gaudente bonarietà dell’introduzione:
Ieri pomeriggio sono salito alla montagna: / tuo fratello, che mi faceva da guida, / presto mi lasciò / per rimpinzarsi di mirtilli / che offrivano sul ciglio della strada / le bacche nero lucide e succose / o per cogliere il tesoro dei sorbi, le biondo rosee mirabili / sorbe lanuginose. / Ma il mio mulo continuava cauto sul sentiero, sicuro e sobrio, / fermandosi solo a ragliare / quando scorgeva giù nella valle / i compagni per via, / carichi di barili d’acqua e di fascine.
I riferimenti espliciti alla lirica di Shelley Marenghi sono qui utilizzati più per prendere le distanze dai suoi toni poetici solenni che per rendere omaggio al suo modello. Ed è proprio questa distanza ironica la chiave di lettura dell’intero componimento. L’immagine della guida che abbandona il poeta per «rimpinzarsi di mirtilli» – laddove il cibo e l’atto del mangiare svolgono ancora una volta un ruolo centrale – è infatti scopertamente comica, e anche quando il registro si fa più elevato, nell’accenno al tesoro dei «mirabili» sorbi, subito dopo il tono si abbassa con la descrizione del mulo che prosegue ragliando. Poi assistiamo ancora a un mutamento di tono: nel continuare la descrizione dell’escursione, e in particolare il movimento ascensionale del percorso, la natura viene antropomorfizzata, ma non per farsi specchio dello stato d’animo del poeta, secondo il tradizionale canone romantico, al contrario per enfatizzarne l’alterità, la distanza dall’uomo, la separazione, perfino l’ostilità. L’atteggiamento del poeta di fronte a questo nuovo aspetto della natura non cambia: il suo occhio resta impassibile, e continua ad essere attento alle manifestazioni più minute della realtà, con un approccio quasi da botanico, annotando le piante selvatiche come la «fumaria», i «mirtilli», i «nespoli», i «sorbi», i «fichi», e i sempreverdi come il «rosmarino» e i «lentischi». Solo quando viene raggiunta la vetta del monte Browning sembra cedere al topos romantico dell’ascesa alla montagna che conduce a una visione rivelatrice: «L’abisso divino /era sopra di me, e attorno, a me le montagne, /e sotto il mare, /e dentro di me il mio cuore a testimoniare / ciò che fu e che sarà».
I versi qui rievocano l’immagine del quadro di Caspar David Friedrich, Il viandante sul mare di nebbia, divenuto poi emblema del Romanticismo, e naturalmente della Ehrebung di matrice kantiana. Non c’è più traccia di «common life»: il tono sembra adeguarsi ora al travelogue poetico, a quel genere, cioè, del diario di viaggio in versi tipico del periodo romantico, dal tono uniformemente solenne, ispirato proprio dal Grand Tour in Italia, come il celebre Childe Harold’s Pilgrimage di Lord Byron, o Italy di Samuel Rogers. Anche la citazione biblica cui Browning ricorre, quando accenna al «terrible crystal» del cielo, riprendendo l’immagine da Ezechiele, è tipico del genere. E l’invito rivolto a Fortù di rinnovare l’avventura di Ulisse con le sirene, di fronte alla visione degli isolotti dei Galli, è un chiaro riferimento all’Italia immortalata come terra del mito e dell’antichità, come vuole la tradizione. Ma siamo sicuri che Browning non stia ancora parodizzando il suo modello? L’ironia, in effetti, è qui nascosta, ma continua ad agire ed è corrosiva. L’intero brano della poesia, infatti, assomiglia molto di più a un congedo definitivo, a un ultimo e tardivo omaggio a un periodo storico-culturale ormai chiuso del tutto, non a caso inserito proprio all’interno di un componimento che si confronta con un modello della tradizione romantica solo per prenderne le distanze, in un audace rovesciamento parodico. E difatti, chiusa la parentesi solenne della Ehrebung, Browning ritorna bruscamente al tono minore della prima parte, quasi a ricordarci la reale dimensione della sua poesia, fatta di notazioni minute, di personaggi umili, di distanziazione ironica: la comparsa in scena del «fabbro calderaio», che «ha piantato il suo fornello a mantice / e si è subito accovacciato / a martellare là sotto il muro» dilegua il climax romantico per contrasto, come se una miniatura avesse preso il posto di un affresco, con un procedimento non troppo dissimile da quello che utilizzerà di lì a poco Gustav Mahler nelle sue Sinfonie, opponendo triviali marcette militari e canzoni popolari a temi più «alti». Ora la scena è occupata interamente dai preparativi per la processione della Vergine del Rosario, con gli «addobbi apparecchiati» in chiesa – le colonne e gli stipiti decorati con «bandierine rosse e azzurre», la volta che «è uno sventolio di nastri», gli altari che brillano di ceri – e il palco pronto ad accogliere i musicisti che suoneranno indifferentemente Auber e Bellini. Browning indugia al pittoresco, ma la descrizione, animata e ricca di dettagli, va letta ancora una volta in chiara funzione ironica e oppositiva rispetto alla maestosità della «visione» sulla cima del monte. Così la «Madonna dai capelli di stoppa», condotta «in pompa magna / attraverso Piano», e i fuochi d’artificio esplosi a chiusura della «processione sgargiante» lasceranno il posto, a notte, alle «vampe di falò» che guizzeranno «dalla cresta del Calvano» e ad altri scoppi. E il racconto dell’io lirico si conclude, non a caso, con un altro invito alla fanciulla Fortù: stavolta, però, il poeta non le chiede di unirsi a lui per partire sulle tracce del mito di Ulisse, ma molto più modestamente – e l’abbassamento drastico di tono ha ancora una volta una funzione parodicamente antitetica – a vederlo «battere con una zappa sull’intonaco / finché non cade uno scorpione / dalle grandi pinze irose», come se l’unica odissea possibile fosse quella da vivere all’interno del proprio «orto», dove le fatali sirene da affrontare sono trasformate in un piccolo scorpione.
Quell’Italia che Byron definiva nel suo Childe «garden of the world», con tutto il suo carico di mitologie e fascinazioni è qui ridotta dunque a «garden» familiare, domestico, recintato da un muretto. Un microcosmo di piccole cose e di eventi minuscoli. «Bazzecole», come le definisce la stessa Fortù – «Such trifles!» – alle quali non resta che contrapporre, a chiusura della poesia, un riferimento concretissimo, cronachistico, alla discussione sull’abolizione del dazio sul grano – ancora il cibo come topos ricorrente, rivelatore direi – prevista in quegli stessi giorni nel Parlamento inglese. Una sorta di ritorno forzato in patria, un’Itaca non desiderata, che incarna il freudiano principio di realtà, a sancire una volta per tutte la fine del «sogno italiano». Il viaggio, l’evasione, l’alterità non sono più possibili. La fine dell’utopia, del mito, del Romanticismo, si celebra qui nella familiarità dello sguardo, nella reticenza dell’immaginario, nella percezione che il mondo finisca là dove la vista può estendersi. Un passo avanti, e siamo già alla vita misurata «con cucchiaini da caffè» dal Prufrock di Eliot. Anche per questo Browning è un grande poeta. E per questo va letto, dunque, per questo bisogna lasciare che la sua voce ritorni a parlare, la voce dei suoi fanatici religiosi, ciarlatani, artisti rovinatisi con le proprie mani, amanti traditi, cattivi poeti, insani uxoricidi, sofisti, mascalzoni di varia natura, viaggiatori caduti in disgrazia, truffatori; la voce del suo Pictor Ignotus, che si fa una ragione del suo anonimato, vi si arrocca dentro come se fosse una corazza, e finge di averlo scelto volontariamente; la voce del suo adorabile Fra Lippo Lippi, l’artista del corpo e dell’esperienza, convinto che, nonostante tutto, il mondo abbia pur sempre un significato «intenso» e «buono»; la voce del suo Orlando, il cavaliere in cerca della Torre Oscura, con la sua vocazione al fallimento. Solo così si può riscoprire il genio sorprendente di questo poeta vittoriano che, forse, ci può aiutare a guardare al nostro presente da una prospettiva più sghemba, più ardita, più imprevedibile, e soprattutto più ricca. In fondo, non è ancora questo lo scopo della poesia?
Fabrizio Coscia
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(La traduzione dei versi della poesia è di Angelo Righetti, tratta dal volume: R. Browning, Poems-Poesie, Mursia, 1990).