“Gli scrittori non sono professori di morale: esprimono la condizione umana”. Un saggio di Simone Weil
Filosofia
Alessandro Burrone
Qualche giorno fa, “La Stampa” ha dato una notizia importante, passata di sbieco, come coriandoli sui cadaveri. La lince è tornata nelle nostre valli. In particolare, la bestia è stata avvistata nei boschi che si diramano dal comune di Montecrestese, nella Valle Isorno, sopra Domodossola. Nel Verbano Cusio Ossola, che ospita la zona forestale più ampia e selvaggia d’Italia, non si vedeva una lince dal 2015. Sono stato a Montecrestese qualche anno fa: la chiesa centrale, dedicata a Santa Maria Assunta, è affrescata in parte da Giuseppe Mattia Borgnis, nel primo Settecento. Borgnis è uno dei pionieri della pittura vigezzina, di queste valli violente: nato poverissimo a Craveggia, in una famiglia di pastori e contadini, dimostra talento innato per il disegno; ragazzino, vaga a Bologna, per perfezionarsi; per guadagnare qualcosa si applica a dipingere le chiese di montagna dei suoi luoghi. Cercherà fortuna a Parigi, il suo genio lo porta a West Wycombe, residenza di Sir Francis Dashwood, nel Buckinghamshire, dove realizza un ciclo di affreschi di ispirazione classica e muore, sessantenne, assassinato. I caratteri dell’incompiutezza e dell’evanescenza legano la lince alla stirpe di questi pittori, talentuosi e retrattili, d’alta quota. Nella chiesa di Montecrestese, chissà, un tempo si adorava la lince.
Da bambino, ero certo di aver visto una lince in Val Grande, non lontano da dove è stata avvistata dalla forestale. D’altronde, i segni rupestri, i graffi nelle necropoli, sembrano suggerire un’era aurea, in cui uomini e fiere passeggiavano al fianco. Credo sia stato mio padre – o uno zio – a convalidare la mia immaginazione: sì, hai visto la lince. Vedere la lince non è come incrociare una volpe, intuire la figura di un lupo, l’anatomia di un cervo, eventi rari ma non insoliti per chi pratica il bosco. La lince impone una chiamata, il contatto con il numinoso, un credito che va saldato.
La lince non si lascia aggiogare in una didascalia, non sosta sul cauto divano di un bestiario: ha l’abilità di trasformarsi, di fondere in sé, in mandorla, i caratteri del leone e del lupo, della pantera e del mostro. È invisibile, sorella della neve, spesso è scambiata per qualcos’altro: restia a mostrarsi, pare uccida per sortilegio. Più simile a una fenice, la lince appare dal manto nevoso come una Madonna: algida, alchemica, feroce, non le si addice il sangue. Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta che Linco, sovrano degli Sciti, fu mutato in lince da Cerere perché “preso da invidia”: voleva uccidere Triptòlemo nel sonno, dopo che costui gli aveva descritto i favolosi fasti della “famosa Atene”. Da lì, la lince è figura dell’invidia; confusa con Linceo, l’argonauta dalla vista acuta, indica l’invidia che scava nel demanio altrui, lo sguardo che sfonda muri e finestre, macula il mobilio del vicino di ira, ricatto, vile istinto di vendetta per ciò che non si ha. Eppure, gli Sciti di cui Linco è re sono il fiero popolo d’Asia che ha tenuto testa alle razzie di Alessandro: cavalieri liberi, contigui alla nebbia, capaci di celarsi agli occhi degli invasori – acutezza di vista si volta in capacità di essere invisibili. Nei loro gioielli, languide serpi s’incardinano nel corpo della fiera, cervi ruotano in pantere, il lupo smagrito dalla caccia, la lince che trotta leggiadra.
Anche Walter de la Mere, autore di languidi e moderni bestiari in lingua inglese, mantiene la diabolica associazione che connette la lince all’invidia:
“Questa casa è fredda. Bestie si aggirano sulla sua soglia;
una foresta di tenebre assedia la porta,
dove trama la lince, Invidia; il leopardo chiamato Malizia
e un lupo, famelico e magro, detto Odio”.
Il raffinato poeta britannico, va da sé, segue lo schema di Dante: tra le tre fiere che ostacolano il pellegrino all’ingresso della Divina Commedia – versione capovolta della trinità –, la lonza, appunto, “leggera e presta molto”, è quella più elusiva e strana. Si tratta di una lince o di un giaguaro (“di pel macolato era coverta”)?: pare che una creatura esotica, addestrata tra catene, si aggirasse nel palazzo del Podestà, in Firenze, per allietare gli ospiti e minacciare i creditori.
Secondo Marco Polo, il “Grande Kane” alleva, per la caccia, “leopardi assai, tutti buoni da prendere bestie”: in questo paddock di complici letali, spiccano i “cani mastini”, cioè, pare, le linci. Cani, lonze, giaguari: la lince è proteiforme come una profezia.
Al mito di lince nel mondo americano, Claude Lévi-Strauss ha dedicato un libro, Histoire de Lynx; spigando tra i canti dei nativi, ho trovato questo testo, Piccola Lince:
Piccola lince
ha perso la sua famiglia
se ne va da sola
a imparare le cose
sola, è partita.Una primavera ammira
l’arrivo degli uccelli
che vengono dal sud.
Ne assale uno:
impara il gusto.Un’estate prova a
nuotare, scopre il suo viso
per un lungo momento
riflesso nel lago.
Impara ad avere un volto.In autunno è grande
come i suoi genitori:
pensa a loro,
impara la memoria.Un giorno, nel gelo d’inverno
trova un uccello nel ghiaccio
immobile.
Impara le lacrime
con cui inonda l’uccello.
S’inchina sul suo corpo,
molto a lungo.
Conosco la sua storia
so cosa ha imparato.
Conosco ogni cosa.
Le ripeto mentre piango:
mi chiamo Piccola Lince.
Come si conviene a una bestia che non si lascia irretire in un simbolo univoco, è rada la tradizione letteraria della lince. A lei, Charles Edward Eaton, poeta prolifico, amico di Robert Frost, vice console in Brasile, dedica una poesia, The Lynx, di cui traduco alcune stanze:
“Cagliamo le nostre vite nel fiume –
ruvido, crudo, rapinoso, lunga camminata di seta,
la lince in bilico sulle rocce, che nuota nei nostri sogni alati.La lince conserva l’ambra, ha il petto bianco, come una mandorla –
La mente vacilla al cospetto di quel simbolo: la diga
si dissigilla, traboccherà quando ci sdraieremo lungo la notte.Nuotiamo, nuotiamo, procediamo ovunque –
la signora dalle unghie rosse di sangue potrebbe
inseguirci: il riflesso delle sue fauci che sbadigliano nello stagno”.
Nel 2005 Libri Scheiwiller pubblica un libro di Rino Cortiana, Lynx lynx, che ricorre all’enigma e al bestiario per calibrare la poesia. Che strane coincidenze: nel 2018 la casa editrice José Corti ha pubblicato un romanzo di Claire Genoux, Lynx, che inizia con la morte del padre:
“Il corpo di Padre era scomparso in una forra di rovi uncinati, da cui emergeva soltanto il suo volto, limpido. Il terreno è piano, con alcuni punti di difficile accesso; la foresta si affaccia sul fiume. Si è mosso con la motosega. Lo abbiamo trovato nel tardo pomeriggio, dopo ore di ricerca, quando la luce era già usurata. Lince ha dato l’allarme. Ha sentito il crollo dell’albero – nient’altro. Ha accompagnato i vigili del fuoco, che per trovare il luogo hanno dovuto lottare con nodi di nebbia. Il viso pareva staccato dal corpo; la bocca scomposta. Hanno concluso che si trattava di un incidente. Lince è rimasta da sola”.
Morto molti anni fa, mio padre risposa in un cimitero di montagna, in luoghi ospitali alla lince.
In una poesia del 1979, Vision, Robert Penn Warren riconduce la lince nel sacrario:
“La visione verrà – la Verità sarà rivelata – ma
nemmeno la sua più vaga natura ti è chiara – ah, la verità:
ma quale? Nel cupo buio che sibila
della tua mente, un’irregolare certezza
brilla come la volpe nel gorgo del bosco, dove,
lontana, grida la lince e il gufo balbetta,
congela il sangue in un fremito metafisico…
Un evento può avviarsi dal tuo profondo
quando sei solo e la pioggia lacera i tetti,
quando cambia la stagione e il letto è troppo ampio.
Durante una crisi, illogica. In ogni
istante può accadere: quando il passato
non è più appannato, ha tracce di
bestia, e si scende, come al mare”.
Proprio perché invisibile, costantemente estinta, la lince è segno del divino: che se ne fraintenda la forma – è leopardo o mastino o gatto di bosco o coyote – è consuetudine celeste, arcana; Cristo è preso per Elia, per uno dei profeti, per un altro. Il cosiddetto “Bestiario moralizzato di Gubbio”, del XIII secolo, dedica un sonetto alla lince, il “linceo”:
“Linceo è una fera molto fina,
e de belle virtudi e gratiosa,
e spetialemente de la urina
se crea et fasse petra pretiosa”.
Si fa riferimento da subito al lincurio, topazio leggendario, pietra miracolosa, prodotta da urina rappresa di lince, capace di sanare e di esaltare. Secondo l’anonimo moralista, il lincurio è il cardine che unisce l’uomo a Dio, pura giuntura mistica: “petra virtuosamente/ ke lega e tene ciascheduno canto:/ natura humana con divinitade”.
Strofinare il lincurio sulle lapidi, per ravvivare l’interrogativo dei morti; pietra che permette ascesa, fa levitare nel morso molosso di Iddio. Instradarsi nella foresta, intridersi di mistero, auscultare la lince, all’ombra dei bronchi boscosi: non c’è più salutare attività, non altra salvezza.