14 Luglio 2022

“Ho ucciso mia madre in me”. Il romanzo sull’aborto

Oriri in latino è un verbo anomalo che sta a indicare il fatto di nascere. Con l’aggiunta di “ab” è venuta al mondo la parola aboriri, perire e “aborto” che, in questi tempi confusi, si pronuncia sottovoce, non senza una certa circospezione. Soprattutto di fronte al tramonto del diritto di abortire legalmente delle donne d’America, con l’abolizione della storica sentenza “Roe v. Wade” della Corte suprema federale (sentenza del 1973).

“La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto” recita la decisione della Corte suprema, di pochi giorni fa, passata con sei voti a favore e tre contrari. La parola, insomma, torna nel limbo dell’irregolarità, dell’illecito, nella zona d’ombra della mancanza di libertà, e di scelta. Siamo in America, d’accordo, ma guardiamo un momento alla vecchia Europa. Riprendo in mano un libro potente della scrittrice francese Annie Ernaux, qui l’aborto dà il titolo al romanzo: “L’evento”. Pubblicato da Gallimard nel 2000, il romanzo autobiografico è stato pubblicato – traduzione a cura di Lorenzo Flabbi – da L’orma editore nel 2019 (anno in cui molti stati americani hanno adottato leggi contro l’aborto) e, nell’inverno scorso, è arrivato in Italia il film La scelta di Anne, vincitore del Leone d’oro all’ultima mostra del cinema di Venezia, curiosa e infedele traduzione dell’originale L’évenément. Un libro necessario oggi per illuminare quello che non si vuole dire, per dare voce a chi attraversa un dolore pazzesco, a chi sceglie di non scegliere la maternità:

“Se non andassi fino in fondo a riferire questa esperienza contribuirei ad oscurare la realtà delle donne schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo”.

Nell’ottobre 1963, in Francia, l’aborto è illegale e la giovane studentessa di lettere ventitreenne Annie ha cercato disperatamente qualcuno disposto ad aiutarla in questa strada clandestina. Per la scrittrice fare i conti con il passato – un passato che si fa presente – è scendere nel buio tormento di quei giorni mai dimenticati.

“Da anni giro attorno a questo avvenimento della mia vita. Leggere in un romanzo la narrazione di un aborto mi fa trasalire, mi getta in uno sbigottimento senza immagini né pensieri, come se istantaneamente le parole si facessero sensazione violenta”.

La Ernaux ripercorre sensazioni e situazioni di una ferita che, nonostante il tempo, non smette di sanguinare.

“Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che «le cose sono cambiate». Ciò che è accaduto resta coperto dallo stesso silenzio di prima. È proprio perché nessun divieto pesa più sull’aborto che, mettendo da parte la percezione collettiva e le formule necessariamente semplificate imposta dalle battaglie degli anni Settanta – «violenza sulle donne» eccetera –, io posso affrontare, in tutta la sua realtà, questo evento indimenticabile”.

Perché era proibito l’aborto? “Era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male o se era un male perché era proibito”. La gravidanza era il frutto di un amore passeggero e senza futuro con uno studente di Scienze Politiche e la giovane studentessa si era fatta fregare “all’ultimo degli ardori”, perciò sentiva forte la bruciatura, “il fallimento sociale”. I ragazzi, gli studenti, i medici, in questa dolorosa avventura, sono troppo inclini al rispetto della legge, assai poco empatici e interessati all’evento come uno spettatore al cinema che non vuole perdersi il finale, senza contare l’improvvisa possibilità di provarci: hanno ben poco a cuore la situazione della ragazza. In fondo “i figli dell’amore sono sempre belli” commenta sbrigativamente il dottore che la visita.

Annie non è spaventata dalla prospettiva dell’aborto in sé, le sembrava una prova che non richiedesse chissà quale dose di coraggio.

“Una prova come le altre. Bastava seguire la strada sulla quale legioni di donne mi avevano preceduta. Sin dall’adolescenza avevo accumulato narrazioni, lette nei romanzi, origliate nei pettegolezzi di quartiere. Avevo acquisito vaghe conoscenze sui metodi che venivano utilizzati, il ferro da maglia, il decotto di prezzemolo, le iniezioni di acqua saponata, l’equitazione”.

La soluzione sembrava quella di scovare uno dei medici detti “cucchiai d’oro” oppure una donna di quelle che venivano chiamate “fabbricanti d’angeli”. Le confidenze ai compagni di studi si rivelano spesso fonte di nuovi crucci e di infelicità per la giovane Annie. Infine, trova una fabbricante d’angeli, la vecchia signora P.-R., sospesa tra tenerezza e ferocia. E arriva a narrare “l’evento”.

“Vedevo la finestra con le tendine, le finestre del palazzo di fronte, la testa grigia della signora P.-R. tra le mie gambe. Non avevo mai immaginato che, un giorno, mi sarei potuta trovare lì. Forse ho pensato alle mie compagne di università che in quello stesso istante erano chine sui libri, a mia madre che canticchiava stirando, a P. che camminava per Bordeaux”.

In quel momento, quel drammatico evento le ha permesso di nascere, venire al mondo e provare a desiderare dei figli.

“È come se questa donna che si dà da fare tra le mie gambe, che introduce lo speculum, mi stesse facendo nascere. Ho ucciso mia madre in me in quel momento”.

Il dolore è stato atroce. “Lei diceva «su, piccina, la smetta di urlare» e «devo pur fare il mio lavoro», o forse altre frasi ancora che avevano un solo significato, l’obbligo di andare a fondo. Frasi che in seguito ho ritrovato nei racconti di donne che avevano abortito clandestinamente, come se non ci possano essere, in quel momento, parole diverse da quelle della necessità e, talvolta, della compassione”. La donna che ha fabbricato il suo angelo ha i contorni di una strega, con le pantofole ai piedi.

“Mi sentivo abbandonata da tutti, con l’unica eccezione di quella signora anziana dal cappotto nero che mi scortava come se fosse mia madre. Nella luce della strada, fuori dal suo antro, con la sua pelle grigia, mi suscitava avversione. La donna che mi salvava assomigliava a una strega o a una vecchia ruffiana”.

Quando il bambino – è un maschio, forse – esce dal suo grembo sembra un bambolotto e ha una strana pesantezza. Senza censure questo evento rende il romanzo imponente e spietato, inequivocabile.

“In mezzo alle cosce vedevo le piastrelle del pavimento. Spingevo con tutte le mie forze. È zampillato all’improvviso come lo scoppio di una granata, in un fiotto d’acqua che si è allargato fino alla porta. Ho visto un piccolo bambolotto penzolarmi dal sesso, appeso a un cordone rossastro. Non avevo immaginato di avere dentro di me una cosa così. Dovevo camminare portandomelo dietro fino alla stanza. L’ho preso in una mano – aveva una strana pesantezza – e mi sono trascinata lungo il corridoio stringendolo tra le cosce. Ero una bestia”.

La strana “bambola indiana”, con il corpo minuscolo e il testone viene infilato in un sacchetto di biscotti vuoto. Forse l’ultima dolcezza prima della sua scomparsa. In bagno, capovolge il sacchetto sopra la tazza e tira lo scarico. L’aborto clandestino non viene compiuto completamente perché dopo averlo reciso grossolanamente, il cordone ombelicale non smette di sanguinare. Così viene ricoverata all’ Hôtel-Dieu.

L’incontro con i medici, uomini essenzialmente, non è mai felice. Il vero sacrificio, ieri come oggi, è delle donne, così come la sofferenza e il pesante giudizio morale. Anche nella clinica di Rouen dove viene curata, il dottore che l’effettua il raschiamento la maltratta, e poi se ne vergogna dal momento in cui scopre che è una studentessa di lettere. Anche la ragazza madre dei quartieri poveri di Rouen che ha deciso di tenere il bambino non si guadagna un trattamento migliore di Annie che, invece, ha abortito.

Annie Ernaux non ha mai smesso di pensare alla vecchia signora P.-R. e ha cercato anche di tornare nei luoghi in cui si è compiuto “l’evento”, pensando che, forse, le sarebbe successo qualcosa. È a lei che pensa dovrebbe dedicare il romanzo.

“Senza saperlo, quella donna forse venale – ma viveva in una casa povera – mi ha strappata a mia madre e mi ha gettata nel mondo”.

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