16 Ottobre 2024

“Il segreto dei segreti”. La scrittura glaciale di Coetzee

Ogni volta che leggo un libro di Coetzee o con Coetzee, ogni volta che faccio esperienza del suo stile di scrittura resto ammirato e sballottato, assiderato.

La buona storia, Piccola Biblioteca Einaudi, di Coetzee e della Kurtz, è del 2015, di un Coetzee che ha vinto il Nobel nel 2003, quindi da parte sua firmare un libro assieme ad Arabella Kurtz è pure un gesto galante, oltre che intelligente, oltre che un modo per dirigere l’attenzione verso temi a cui tiene. Dubito al di fuori dell’ambito specialistico avrebbe mai potuto circolare il nome della Kurz, Senior Clinical Tutor inglese. E dubito Coetzee avrebbe voluto i loro due nomi apparissero accanto non la avesse stimata al punto dal voler pubblicare i loro confronti in merito a “verità, finzione e psicoterapia”. Considerando quanto schivo Coetzee sia, o per quanto passi che sia, non c’è da immaginare attestato di stima maggiore da parte sua, come è stato un attestato di stima la pubblicazione delle lettere scambiate con Paul Auster.

Ad Auster non mancava la visibilità, probabilmente ne aveva e continuerà ad averne più di Coetzee, più seguito, più lettori, ma nel mio caso non avrei stornato lo sguardo verso Auster se Coetzee non lo avesse reputato un valido interlocutore. Coetzee è decisamente uno scrittore più epocale di Auster, che è un ottimo scrittore. Coetzee crea più di una dimensione coetziana: crea una temperatura del pensiero coetziana. Coetzee agisce sulla forma romanzo ma ancora prima sulla scrittura che informa il romanzo, e prima ancora: sul pensiero che informerà la scrittura.

Il libro è bellissimo perché non indulge in nessuna sintesi consolatoria, rabbonente: le prese di posizione, di pensiero, tra Coetzee e Kurtz restano separate, divaricate, in più di un punto inconciliabili. La Kurtz, da psicoterapeuta, cerca l’armonia, la strada che riconduca il tu-paziente a una possibilità di benessere. Coetzee, scrittore, non fa e non si fa sconti, il suo tu-lettore, il suo tu-tu, il suo tu-io-compreso, resta abbandonato nella contraddizione di esistere, nudo ed esposto al gelo dello stile coetziano.

“Ma se il vero segreto, quello inammissibile, il segreto dei segreti, fosse invece proprio che i segreti possono essere sepolti, dopodiché è possibile vivere per sempre felici e contenti?”

Coetzee è restio a tutto ciò che può sapere di riparatorio, di metafisicamente giustiziato, di resa dei conti. Il Polacco, il suo ultimo romanzo, per dire, è il capolavoro del come non ci siano mai conti che tornano, e tante volte non ci sono proprio conti, nessuno li ha veramente aperti. Eppure, c’è storia comunque. In assenza, o meglio: perché non si può vivere in assenza di storia, e ce ne si racconta una anche laddove proprio non c’è, non può esserci.

Certi commenti di Coetzee sui più enfatizzati personaggi da romanzo:

“la pretesa di Stavrogin di una completa consapevolezza (…) è solo un’elaborata copertura che serve a nascondere la banale ambizione di un giovane ozioso a diventare famoso nel modo più facile.”

La scrittura raggelante di Coetzee può cristallizzare persino la scrittura demoniaca di Dostoevskij, mandarla in frantumi. 

Mi soffermo sulla qualità di Coetzee per parzialità, perché imprigionato nel suo stile, non perché la Kurtz non sia altrettanto intelligente, raffinata, precisa nel linguaggio, lo è – però resta il linguaggio specialistico, della studiosa del suo campo. Per Coetzee chi va in terapia va a cercare consenso per l’autobiografia che vuole raccontarsi mentre per la Kurtz ci vanno coloro che “vogliono essere aiutati a superare il loro discorso”, che vogliono “sbloccarsi. Essere bloccati vuol dire generalmente avere avuto un’esperienza (o più esperienze) ed essere incapaci di capire cosa è accaduto”. Leggo Kurtz e ho voglia di leggere Melanie Klein, Wilfred Bion, Menzies Lyth, Donald Winnicott, per approfondire, capirci dippiù. Leggo Coetzee e voglio continuare a leggere Coetzee, a rileggerlo, o a leggere o rileggere Dickens o Hawthorne o Cervantes o Dostoevskij ma attraverso lo sguardo polare di Coetzee.

“Ma sono convinto, in modo sempre più irriducibile, che anche i nostri bisogni e desideri siano analogamente fittizi. Siamo noi stessi ad assegnarceli.”

Che infine lo sguardo più clinico sia dello scrittore Coetzee e non della Senior Clinical Tutor Kurz? Coetzee guarda la persona umana azzerata, spogliata dagli alibi, dalle storie che si dà da bere per non inorridire della sua aridità di fondo. Il suo è uno sguardo più clinico o più cinico?

Scrive Coetzee:

“Nella visione più pessimistica della realtà, la guerra esiste in quanto istituzione sociale che permette ai maschi giovani di ammazzarsi a vicenda.”

La sua domanda resta inevasa: chi siamo quando non siamo indaffarati a raccontarcelo pur di non doverlo mai venire a sapere?

antonio coda

*In copertina: Kazimir Malevič,Composizione suprematista con triangolo blu e rettangolo nero, 1915

Gruppo MAGOG