“Mi piace scendere in profondità”. James Purdy, il grande fuorilegge della letteratura americana
Letterature
Silvano Calzini
Tanti sono gli autori ancora da scoprire, nel vasto continente americano – anche oltre gli States. Uno nello specifico, però, tralasciando i soliti Carver e Bukowski, sembra meritare particolare attenzione – e, infatti, va progressivamente facendo breccia in Italia e nella sua terra –, Andre Dubus. Anch’egli, come i già citati, privilegia la forma del racconto.
In Italia lo scrittore è pubblicato da Mattioli 1885, coraggiosa casa editrice che ha deciso di proporne l’intera opera. Altro aspetto positivo è che la traduzione delle raccolte dubussiane è stata affidata all’ottimo Nicola Manuppelli – lo stesso che, in origine, propose l’autore. Non certo un improvvisato, come provano i suoi numerosi lavori grazie ai quali ha portato in Italia molta produzione americana altrimenti ignota, e un profondo conoscitore dello scrittore in questione. L’ultima sua fatica è appunto la trasposizione italiana del primo volume delle due raccolte di saggi pubblicati da Dubus in vita, Vasi rotti, un testo molto importante per approfondire la sua poetica.
Cominciamo da questo titolo così evocativo, Vasi rotti. Qual è il suo senso profondo?
C’è una scena nel testo in cui Dubus rompe un vaso. Quell’incidente funge chiaramente da metafora di quanto accaduto nella sua esistenza – esistenza invero piuttosto complicata. Per esteso, questo diventa il tema di quasi tutti i brani: lui, il protagonista, e le persone che gli ruotano intorno hanno a che fare con rapporti che si spezzano, pezzi di vita, frantumi di cose. Rispetto ad altri suoi libri, è interessante notare come, in questa raccolta di saggi, o meglio di scritti autobiografici, si riscontri un Dubus più leggero e ironico. Non che non lo fosse nei racconti, ma sicuramente non era il tratto principale, mentre in questo caso spesso abbiamo delle parti molto divertite. E ciò è paradossale, se si pensa non tanto a quando sono stati scritti, perché la loro stesura si svolge nel corso di diversi anni, ma al momento della loro pubblicazione. Era un periodo molto difficile nella vita dello scrittore, successivo all’incidente che lo aveva costretto su una sedia a rotelle – difficile sia economicamente che fisicamente e sentimentalmente (fu lasciato dalla moglie). Eppure ciò capita anche ad altri autori, quando passano alla scrittura autobiografica. Spesso rivelano questa vena più leggera e dimostrano una chiarezza maggiore. È il caso, per esempio, di un visionario ed ermetico come William Butler Yeats e anche di uno dalle liriche piene di immagini oscure come Bob Dylan.
Il testo in questione, come facevi notare, potrebbe essere considerato anche una sorta di autobiografia dell’autore ricostruita per episodi salienti. Ma volendo elencare in sintesi i punti nodali della vita di Dubus, quali momenti meritano a tuo avviso di essere menzionati?
Prima cosa, che passa un po’ sotto traccia nella sua biografia, per lui che viene immediatamente collegato al Massachusetts, è il legame profondo con il luogo natio, la Louisiana. Le contraddizioni e soprattutto la multietnicità che lo caratterizzano influenzano molto le sue tematiche. La seconda cosa è il rapporto con il padre. Dubus entra in Marina probabilmente per dimostrargli di essere un vero uomo – per quanto la sua sensibilità lo porti a essere una persona riflessiva. Da qui scaturiscono alcuni aspetti contrastanti della sua persona: il grande bevitore, quello delle risse nei bar, e l’uomo sempre con un occhio di riguardo verso il mondo femminile, molto religioso ma dalla vita sentimentale burrascosa. Altro importante passaggio è quello in cui entra a far parte, grazie a una borsa di studio, dell’Iowa Workshop. Viene così in contatto con altri autori importanti, che diventano il suo habitat letterario, da Kurt Vonnegut, a Richard Yates e Ralph Ellison. Vi è di seguito la pubblicazione di un romanzo, il solo da lui scritto, The lieutenant, che lo aiuta a capire come quella non sia la sua strada. Successivamente, in una casa isolata nel bosco, legge Cechov e si rende conto che la sua vocazione è la short story. A scandire la sua biografia nella sfera privata c’è la nascita dei figli, i divorzi etc. Poi, arriva la pubblicazione della prima raccolta di racconti. Continua così fino all’incidente che lo porterà a compiere delle scelte particolari come, per esempio, tenere lezioni private, a casa sua, per ragazze che hanno avuto problemi – era molto sensibile al tema, perché la sorella era stata aggredita ed è questo il motivo per cui girava con una pistola. Similmente fa per alcuni giovani scrittori. A questi incontri parteciperà anche Dennis Lehane e molti altri che diventeranno autori famosi negli States e oltre. Queste ritengo siano le note biografiche salienti per capire Dubus e la sua scrittura.
È molto interessante ciò che lo scrittore dice in merito al business della vendita dei racconti alle riviste, attività che certo a suo tempo era molto diffusa in America – non so oggi. Di fronte alla smania di controllo degli editor e alla loro tendenza a uniformare la produzione letteraria su un determinato standard, però, lui non sembra sentirsi a suo agio. Come vive tutto ciò, in realtà?
Prendiamo una rivista come il “New Yorker”. Questa ha un processo di editing piuttosto deciso. Tutti gli autori che grazie alla rivista hanno avuto successo subiscono un simile trattamento. Dubus, però, ritiene di non trarre vantaggi da una simile prassi, a parte i guadagni. Ma questi stessi soldi li può racimolare insegnando, evitando così di snaturarsi come scrittore. C’è da dire che il processo che sta alla base del suo lavoro, di una parola come di un punto, è complesso, meditato, studiato. Perché dunque lasciarlo nelle mani di una persona che non ha altrettanta consuetudine col testo? Meglio tenerlo in un cassetto – in tal senso, è molto drastico. Carver, invece, si piegò al processo – il famoso “sacrificio di Carver”. Di fatto i suoi racconti vengono rifatti, tagliati, inventando a tavolino il Minimalismo. Tutto ciò è dal suo punto di vista una sofferenza. Dubus non lo può accettare. Questa prassi dell’uniformare è un qualcosa che esiste tuttora negli Stati Uniti e anche in Italia. Tanti romanzi sono simili l’uno all’altro. Non dico che siano decisi a tavolino ma, certamente, la situazione che viene a crearsi è che se ne pubblica uno originale e duecento che gli somigliano. Ciò va a discapito di coloro che, o fanno come Dubus e tengono gli scritti nel cassetto, oppure si adattano e diventano qualcosa che non sono. Poi, magari, le persone che stanno dietro a simili processi sono le stesse che si ritrovano a osannare uno come lui. L’americano aveva capito bene come andavano le cose e non voleva sottostare. Meno male! Altrimenti oggi avremmo un autore molto meno significativo.
Mi ha colpito molto, leggendo il testo, la grande umanità di Dubus e il fatto che, al cospetto delle tragedie che segnano la sua esistenza, resti comunque fedele alla speranza – cosa che in lui comporta anche una costante apertura verso il trascendente. È forse questa la cifra distintiva del suo sentire?
Nella prima raccolta uscita in Italia facevo un confronto tra lui e il Dostoevskij di Delitto e Castigo, un testo che, nonostante i drammi narrati, vede comunque una luce finale. Nel caso di Dubus, la cosa è addirittura programmatica: lui costruiva le raccolte in modo che l’ultimo racconto fosse sempre quello che lasciava maggiore speranza. Questo puoi farlo se hai un certo atteggiamento verso la materia che tratti. Puoi narrare anche la cosa più triste del mondo ma, se hai calore ed empatia coi personaggi, ti ostini a cercare la positività. Un tipo di letteratura che lui non amava era quella che si diverte a trovare la tragedia ovunque, anche se sta raccontando qualcosa di non troppo importante. Tornando al paragone con Carver, Dubus è labirintico. Infatti, non è minimalista ma il suo contrario. Lui non ha mai la frase pronta. Cerca e ricerca. Scrive questi paragrafi che durano per pagine, perché è come se stesse continuando ad aprire fino a che non riesce a trovare qualcosa a cui aggrapparsi, un pezzo di speranza. Nel caso del Carver editato – ci tengo a precisarlo, perché Carver di per sé è un altro discorso –, si tronca il paragrafo e l’immagine lasciando questa sospensione che dovrebbe dare drammaticità. Ma non è sempre una cosa positiva dal punto di vista letterario. La ricerca di Dubus, perciò, sembra più profonda. Egli, insomma, dà vita a paragrafi lunghi e complessi perché persegue sempre questa ricerca, che ovviamente incide sul suo modo di scrivere.
Dietro la scelta di tradurre questa raccolta dubussiana, vi è da parte tua e dell’editore la necessità di fornire i mezzi al lettore italiano per meglio assimilare l’autore? Insomma, l’opera di Dubus sta finalmente conoscendo una diffusione anche nello Stivale?
Quando abbiamo cominciato a tradurre Dubus, la cosa è andata così: io ho proposto un autore che era assolutamente sconosciuto, Mattioli ha deciso di assecondare questa follia e di provarci. All’epoca, Dubus, negli Stati Uniti, era considerato di nicchia. Dopo molte pubblicazioni italiane, è iniziata una riscoperta anche nel suo paese natale. Infatti hanno pubblicato tutti i racconti in tre volumi, con qualche chicca come le introduzioni di Richard Ford e di altri autori. Insomma, paradossalmente, il rilancio è avvenuto dopo quello italiano. All’inizio ha fatto molta fatica a imporsi qui da noi, perché aveva poca eco già in patria e dietro non c’era una casa editrice importante. Poi, man mano, ha cominciato ad andare da solo, a essere riconosciuto. In principio, andavo spesso in giro per parlarne e farlo conoscere. Adesso può anche non servire, perché ha i suoi lettori che lo diffondono. È stata una battaglia vinta che ha portato a pensare di proporre l’opera completa, comprese due raccolte di saggi – ce n’è un’altra che uscirà a breve. E poi, successivamente, anche il romanzo e qualche racconto inedito. Questo il programma per quel che lo riguarda. Ma dicevo che è stato molto difficile a suo tempo, perché le persone devono arrivare a fidarsi di queste proposte, del gruppo di persone che le porta avanti. E se lui, adesso, ha preso piede, non dobbiamo dimenticare che ci sono altri autori a cui stiamo cercando di far fare breccia nel cuore dei lettori. È gratificante quando si arriva al risultato che lo scrittore funziona autonomamente. Quello è il momento in cui lasciarlo andare e portare avanti la causa di altri.
Matteo Fais