Nel 1928 apparve in Francia il primo numero della rivista «Le Grand Jeu», un progetto che, suscitato dall’esposizione alla sapienza dell’India vedica, avrebbe segnato il progressivo allontanamento dei suoi fondatori dal mondo surrealista. Fra questi, un appena ventenne René Daumal pubblicò in quel primo numero il saggio Libertà senza speranza. L’autore cominciava in quei mesi la sua immersione nel sanscrito (cui avrebbe poi iniziato Simone Weil), ferito e forsennato dall’unica esigenza che lo avrebbe accompagnato fino alla fine: giungere alla vita assoluta.
Come avviene nell’Etica di Spinoza, questo scritto giovanile può essere considerato la prima, centrale ‘proposizione’ – da cui tutte le successive riflessioni daumaliane derivano (come scolî o dimostrazioni), e a cui sempre ritornano, per trovare il proprio cuore pulsante. Il riferimento a Spinoza non solo non è casuale; è doveroso. Leggendo e rileggendo l’Etica, Daumal vi scorse un ‘non-dualismo’ perfettamente assimilabile all’Advaita Vedānta di Śaṅkara, e un’analoga dottrina della liberazione dall’errore (mokṣa) – ed è quello il nucleo della riflessione: «La libertà non è libero arbitrio, ma liberazione; è la negazione dell’autonomia individuale… La coscienza, è il suicidio perpetuo».
Vi è una falsa liberazione: quella dell’ingannato, che prima ancora di credersi qualitativamente al di fuori dell’umanità, crede all’esistenza e all’autosufficienza del proprio io. Contro questa idea Daumal tornerà a scagliarsi nel ’40, con lo scritto La Guerra Santa, che è, appunto, quella che ognuno deve in ogni istante condurre contro se stesso:
«“Io sono…, io voglio”. – Menzogne! Menzogne incise sulla mia carne, ascessi che mi gridano: “Non inciderci, siamo dello stesso sangue!”, pustole piagnucolanti: “Siamo il tuo unico bene, il tuo unico ornamento, perciò continua a nutrirci, non ti costa poi tanto!”».
Opposta alle menzogne dell’io, sta la vera liberazione, l’unica, consistente nel gratuito donarsi senza riserve (il puro, positivo consumarsi che qualche anno dopo Bataille avrebbe chiamato dépense), il non voler conservare nulla, di sé, per sé. È la liberazione spinoziana del singolo (accidente) che rifluisce nel tutto (sostanza), e che solo in esso scopre la propria singolarità come divina:
«donarsi completamente in ogni azione… Attraverso questo dono, tutto ciò che costituisce la forma dell’individuo viene riportato all’unità dell’esistenza… Questa unità ritrovata… la chiamo Dio, Dio in tre persone».
Ma il Dio qui nominato non è la sostanza-natura dell’Etica; è il Dio cristiano, verso il quale l’impalcatura vedantica dell’anima di Daumal mostrò una strana tentazione, quasi un tentennamento. Meditando Mt., 27, 1-26, il frammento Gesù davanti a Pilato, dall’incerta datazione (comunque successivo al ’35), parla dell’amministrazione (l’impero romano), del clero (Caifa) e del popolo (la folla che reclama Barabba) come dei «tre poteri» soffocanti davanti ai quali Pilato (e, come lui, ogni uomo) non può che lavarsi le mani.
«Ognuno, qui, è prigioniero della propria funzione, del proprio travestimento, e ognuno guarda attraverso la propria maschera l’unico che è senza maschera, l’unico che guarda al centro di sé la verità vivente: quella verità il cui solo nome preoccupa tanto il povero Ponzio Pilato».
Il saggio sulla libertà continua dicendo che non appena l’uomo avrà rinunciato alle proprie maschere (i desideri-capricci dell’io) «si sentirà condotto per mano dallo spazio, [e] allora comincerà a sapere che cosa significa essere libero». Farsi condurre per mano dallo spazio: formula enigmatica, che può forse essere sciolta ricordando che nelle Upaniṣad lo spazio, la sostanza che attraversa e vivifica ogni cosa (brahman), coincide con l’etere (âkâsha). È l’atmosfera luminosa della vetta del Monte Analogo: luogo della liberazione compiuta, la contemplazione della verità – l’unico apice, visionario e biografico, a cui l’uomo deve voler tendere.
Ma la liberazione generata dall’atto di rinuncia alla propria individualità non si compie mai una volta per tutte, perché «è un sacrificio perpetuo della rivolta». E questo ‘lavoro su di sé’, per Daumal, vale, al tempo stesso, per l’uomo e per la società intera (se non vogliono ridursi rispettivamente a individualista e a Stato nazionalista):
«L’uomo e la società devono essere in ogni momento sul punto di esplodere, in ogni momento devono rinunciarvi, e rifiutare sempre di fermarsi a una forma definitiva».
Perenne e viva metamorfosi: nessuna forma che, fissata cadavericamente, possa dire ‘eccomi!’; perché in questo universale donarsi-perdersi-ritrovarsi si riafferma quel nodo spinoziano che lega la liberazione del singolo (il suo aumento di potenza, nel linguaggio dell’Etica) alla necessità con cui la sostanza-natura infinitamente agisce: «La libertà è donarsi alla necessità della natura, e la vera volontà non è che un’azione che si compie. Questa rassegnazione è, all’opposto dell’abiezione, la potenza stessa». (Tommaso Scarponi)
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Libertà senza speranza
L’occhio fisso e lucente vede porte dappertutto, e l’uomo vi si butta dentro, con la fronte in avanti. Vede il cielo vuoto e lo spazio libero. Per lui ogni oggetto è un segno di potere. Ma cosa sceglierà? Divinità tiranniche vengono a guidarlo e a sollecitarlo: desiderio, interesse, amore, bellezza, ragione. Vuole scegliere liberamente e da solo. Non vuole più accettare alcun motivo per agire. Un obiettivo è per lui un padrone. Vuole volere per il gusto di volere, vuole agire per puro decreto. L’«atto gratuito» è, dice, l’unico atto libero; e l’unico valore che può risiedere nell’anima umana è la volontà che decide liberamente un atto, non guidata dalla ragione né guidata verso un fine.
È qui che lo spirito di ribellione comincia a morire, perché non appena si crede di aver scoperto una strada da esplorare, una nuova realtà da raggiungere, le azioni diventano indifferenti e il mondo estraneo. Chi è arrivato a questo punto si muove nel mondo e compie le azioni naturali per l’uomo con questo pensiero costante: «Essendo molto diverso da tutti questi esseri, simili a me solo in apparenza, dato che sono un angelo e solo questo conta per me, perché agire in un modo piuttosto che in un altro»? Allo stesso tempo vede che agire contro una legge significa comunque agire secondo quella legge; che agire sistematicamente contro il desiderio significa comunque obbedirgli. È l’attrazione della terra che fa allontanare il palloncino dalla terra. Quest’uomo, che crede di essere solo un uomo travestito, ad ogni suo atto dice a se stesso con un riso interiore: «Sì, sto agendo davvero come un uomo».
Non ride delle proprie azioni con il riso abietto di un uomo sconfitto, ma con il riso disperato di chi, pronto a suicidarsi, ha ormai giudicato inutile premere il grilletto. Questo divorzio dal mondo, che rende il mondo indifferente allo spirito, è spesso vicino alla disperazione; ma è una disperazione che ride del mondo. Se la mente si separa dalle cose, allo stesso tempo il corpo si separa dagli altri corpi; il suo irrigidimento lo isola e copre il suo volto con la maschera muscolare dell’ironia. Il ribelle crede di aver trovato la pace, spesso pensa anche di mantenerla per tutta la vita, ma è chiuso in questa rigida maschera di disprezzo. La mente prende l’abitudine di dire a tutto ciò che il corpo subisce o fa: «Non è importante». E l’uomo crede di aver trovato la salvezza. L’esistenza e i beni di questo mondo perdono il loro valore, nulla è da temere, e l’anima continua la sua ricerca di purezza in questo irrigidimento dell’orgoglio, quello dello stoico.
Solo una cosa importa, dice l’uomo arrivato a questo punto, ed è la pace interiore. Crede di ottenerla grazie a questa tensione della volontà che rifiuta di partecipare alla vita umana. Ma nulla può arricchire l’anima in questo esilio; essa si è solo ripiegata su se stessa; nella sua prigione astratta, è separata dal cielo come dalla terra. La noia pesante e l’aridità, con il loro corteo di tentazioni, le faranno sentire la loro immobilità e il loro sonno.
Una sera, l’uomo si sporge dalla finestra e guarda la campagna. Cose pallide e brulicanti, nebbie o spettri, emergono dalla terra arata e scivolano verso le case; un gatto imita il canto di morte di un bambino che viene strangolato, e al chiaro di luna i cani trovano in gola la grande voce dei lupi della steppa. L’uomo alla finestra sente un mostruoso e selvaggio desiderio animale di ululare e danzare al chiaro di luna, di correre tremando sotto la luce gelida, di avventurarsi nelle case per spiare il sonno degli uomini e forse rapire un bambino addormentato. Un animale, un lupo, rinasce in lui e cresce, gonfiando la gola e il cuore. Inizierà a ululare. No! È forte! Con un gesto brusco si getta all’indietro, chiude la finestra e cerca di convincersi che stava solo sognando a occhi aperti. Ma qualcosa nella bocca dello stomaco si stringe, proprio come quando era bambino e pensava alla morte. Ha paura. Ma questo non è degno di lui; non è armato contro di essa? «Che me ne importa?», cerca di dire. Ma dubita. Va a letto, ma se cerca di resistere all’angoscia, non riuscirà a dormire. A poco a poco perde la fiducia in se stesso; cede alla sonnolenza e subito i demoni fanno il loro ingresso; i suoi compagni notturni sono la succube lebbrosa e senza naso, l’uomo-rana dall’odore di pesce e la vile testa gonfia di sangue viola che si dondola sui suoi piedi d’anatra. Il mondo disprezzato si vendica sulla sua gola contratta, sul suo cuore che non è sicuro di battere, sul suo ventre dove i mostri affondano i loro artigli. Al mattino, trova la sua fede in se stesso vacillante.
Le tentazioni della sofferenza, della paura o della noia, che invitano l’anima a superarle o a lasciarsi schiacciare, rendono felici coloro che le ricevono, affinché riconoscano il loro errore. Una soluzione astratta non risolve nulla; l’uomo può essere salvato solo dalla sua interezza; solo la comprensione può dividerlo in corpo e spirito, perché la comprensione conosce, e separa secondo metodo per darsi un oggetto. Una soluzione astratta non è nulla nemmeno nella società; là opera lo stesso meccanismo di repressione. Vediamo nazioni che sembrano ben controllate, ma dove c’è solo una repressione degli istinti che, sotto la costrizione violenta di una polizia rigida, riescono a malapena a manifestarsi; ma possono trovare libero sfogo in coloro che possono più facilmente sfuggire alla costrizione, per esempio in coloro che sono gli agenti di questa polizia. Questi uomini diventano gli strumenti della crudeltà animale risvegliata; nelle stazioni di polizia, questi difensori dell’ordine legano con delle corde un uomo arrestato, con un pretesto qualunque, in una manifestazione pubblica, e gli schiacciano gli occhi, gli strappano le orecchie tirandole coi pugni; o gli bruciano i piedi finché non confessa ciò che vogliono che confessi. Questi segni indicano che questa società non è stata in grado di controllare le passioni che si sviluppano al suo interno, senza dubbio perché vuole risolvere il problema della giustizia applicando alle relazioni umane soluzioni proposte da lontano da certe intelligenze; questo è un avvertimento per la società che è in balia del minimo fallimento; fortunata se riesce a riconoscere questi segni! Così è per l’individuo; dopo queste rivelazioni, deve ritrovare la fede che aveva creduto di avere.
Alla base di questo altezzoso disprezzo per il mondo c’era un immenso orgoglio. L’uomo vuole affermare il suo essere al di fuori di tutta l’umanità, e così si incatena, non solo per l’orgoglio che congela il suo spirito nella sola affermazione di sé, ma anche per il potere del mondo che voleva disprezzare. La sola liberazione è donarsi completamente in ogni azione, invece di fingere di acconsentire ad essere un uomo. Che il corpo scivoli tra i corpi secondo il percorso tracciato per lui; che l’uomo scorra tra gli uomini secondo le leggi della sua natura. Il corpo deve essere dato alla natura, le passioni e i desideri all’animale, i pensieri e i sentimenti all’uomo. Attraverso questo dono, tutto ciò che costituisce la forma dell’individuo viene riportato all’unità dell’esistenza; e l’anima, che supera incessantemente ogni forma ed è anima solo a questo prezzo, viene riportata all’unità dell’essenza divina, attraverso lo stesso semplice atto di abnegazione. Questa unità ritrovata sotto due aspetti e in un unico atto che li unisce, la chiamo Dio, Dio in tre persone.
L’essenza della rinuncia è accettare tutto negando tutto. Nulla di ciò che ha forma è me; ma le determinazioni della mia individualità sono rigettate nel mondo. Dopo la rivolta che cerca la libertà nella possibile scelta tra diverse azioni, l’uomo deve rinunciare a voler realizzare qualcosa nel mondo. La libertà non è libero arbitrio, ma liberazione; è la negazione dell’autonomia individuale. L’anima rifiuta di modellarsi a immagine del corpo, dei desideri, dei ragionamenti; le azioni diventano fenomeni naturali e l’uomo agisce come un fulmine cadente. In qualsiasi forma io mi presenti, devo dire: io non sono quello. Attraverso questa abnegazione, rifiuto ogni forma della natura creata e la faccio apparire come un oggetto. Tutto ciò che tende a limitarmi, corpo, temperamento, desideri, credenze, ricordi, voglio lasciarlo al mondo esterno, e allo stesso tempo al passato, perché questo atto di negazione è creatore della coscienza e del presente, atto unico ed eterno dell’istante. La coscienza, è il suicidio perpetuo. Se conosce se stessa nella durata, è comunque attuale, vale a dire atto semplice, immediato, fuori dalla durata.
Lo spazio è la forma comune a tutti gli oggetti; un oggetto è ciò che non è me; lo spazio è la tomba universale, non l’immagine della mia libertà. Quando l’orizzonte cesserà di essere l’immagine sfuggente della libertà, quando non sarà che una sbarra posta sugli occhi, e l’uomo si sentirà condotto per mano dallo spazio, allora comincerà a sapere che cosa significa essere libero. Tra i corpi non c’è posto per la libertà. È smettendo di cercare la libertà che l’uomo si libera; la vera rassegnazione viene da chi, nello stesso atto, si dona a Dio, corpo e anima.
Ma parlare di rassegnazione non è un incantesimo che porta improvvisamente alla pace e alla felicità; molto spesso, non sono i rassegnati, ma i deboli, a credere di aver conquistato la calma interiore. Ripetono come un incantesimo le poche regole di comportamento che gli sono state insegnate, e così vivono in una tranquillità abissale. Accettano tutto, ma non rinnegano nulla, e con questo consenso vogliono solo vivere questa vita, adornata da speranze sfuggenti che divertono la loro viltà. La rassegnazione può essere solo l’abbandono volontario di una possibile rivolta. Il rassegnato deve essere sempre pronto a ribellarsi; altrimenti la pace si stabilizzerebbe sulla sua vita, ed egli dormirebbe e tornerebbe ad acconsentire a tutto. L’atto di rinuncia non si compie una volta per tutte, ma è un sacrificio perpetuo della rivolta.
Ecco perché è pericoloso predicare l’umiltà alle anime deboli: le allontana ancora di più da se stesse. L’individuo, congelato e ripiegato su se stesso, può prendere coscienza del suo destino solo attraverso la rivolta. Lo stesso vale per una società. Come l’individuo si chiude a dormire vigliaccamente dietro mura di speranze e giuramenti, così la società si confina dentro le mura delle istituzioni; l’individualista cerca la pace racchiudendosi in confini chiari e solidi; lo stesso fa lo Stato nazionalista. Nessuno dei due può trovare la sua vera strada, quella in cui può avanzare liberamente, se non nella rivolta che rompe i limiti. L’uomo o la società devono essere in ogni momento sul punto di esplodere, in ogni momento devono rinunciarvi, e rifiutare sempre di fermarsi a una forma definita. La libertà è donarsi alla necessità della natura, e la vera volontà non è che un’azione che si compie. Questa rassegnazione è, all’opposto dell’abiezione, la potenza stessa, perché il corpo ricollocato nel mondo partecipa allora dell’intera natura. Il Nitchevo dei Russi spiega il successo del marxismo in Russia. – «Non è niente», come a dire: niente di tutto ciò che mi spinge ad agire è me. E lo sforzo della volontà non consiste nel voler compiere un’azione, ma nel lasciare che essa si svolga in un continuo distacco. Accettare il materialismo storico era per i rivoluzionari russi trovare la libertà.
L’uomo, prima di arrivare alla rinuncia, passa sempre attraverso questi tre stadi: l’accettazione stupida, anzitutto, di tutte le regole, di tutte le convenzioni, che gli danno riposo; poi la rivolta contro in tutte le sue forme, lotta contro la società, misantropia, fuga nel deserto, pirronismo; e infine la rassegnazione, che non cessa di presupporre costantemente un potere di rivolta.
La rinuncia è una distruzione costante di tutti i gusci con cui cerca di rivestirsi l’individuo; quando l’uomo, stanco di questo lavoro più duro di quello della rivolta, si addormenta in una pace facile, questo guscio s’ispessisce, e solo la violenza può distruggerlo. Rifiutare incessantemente tutte le stampelle della speranza, infrangere tutte le stabili creazioni dei giuramenti, tormentare incessantemente tutti i propri desideri e non dare mai per assicurata la vittoria, questo è il cammino duro e sicuro della rinuncia.
È necessario far disperare gli uomini, così che gettino la loro umanità nell’immensa tomba della natura, e che lasciando l’essere umano alle sue leggi proprie, ne escano.
(1928)
René Daumal
*La cura e la traduzione del testo sono di Tommaso Scarponi