Negli ultimi anni ho scritto molto volentieri su ogni libro di Massimo Fini, dall’autobiografia Una vita (2015), alle raccolte dei suoi lavori così detti teorici La modernità di un antimoderno (2016) e poi così detti “esistenziali” di Confesso che ho vissuto (2018, titolo copiato da Neruda), persino su di un libro (mediocre) dedicato al calcio.
Dopo un entusiasmo e una stima più volte attestatimi tanto a voce quanto per iscritto dall’interessato, Massimo Fini si è incazzato male quando stroncai, sull’Intellettuale Dissidente, Il giornalismo fatto in pezzi (2021), un’antologia del suo mestiere, con più che solide e documentate motivazioni. In seguito a ciò avemmo un duro scambio epistolare, che dimostrò tutta l’acrimonia e l’ipocrisia rilevata, tra le altre cose, in quel mio ultimo contributo e già sperimentata a tu per tu. A riprova della scorrettezza umana e professionale sue, Fini fece pubblicare sulla sua pagina internet la rassegna stampa sull’antologia, comprendendovi anche un contributo di un collega uscito sulla medesima rivista, ma tenne fuori il mio articolo. Fini preferì evitare di sfidarmi pubblicamente sul merito dei miei rilievi un po’ per spocchia ma soprattutto perché se si fosse esposto, il re si sarebbe ritrovato non soltanto nudo ma anche scorticato, tanto le pezze con cui cerca di giustificarsi dalle mie osservazioni sono peggiori degli sbreghi suoi.
Ci si chiederà perché adesso, dopo tanto affare, invece di ignorarlo perda tempo ed energie – rischiando, come si vedrà, una querela – a scrivere su di lui e sul suo ultimo libro, Cieco, uscito da poco per Marsilio. Il motivo è semplice. Anche se la mia voce è piccola a petto di quella di Fini, che pur si sta spegnendo come una candela in fondo a una casa abbandonata, ho piacere che i lettori di questa rivista sappiano di che pasta son fatti certi personaggi e di sferrare qualche calcio negli stinchi a un guru, che si crede tale perché ha lettori esenti da spirito critico.
Prima di parlare di Cieco, però, mi preme commentare un paio di articoli di Fini usciti su un quotidiano italiano e poi ripresi come al solito dal suo sito personale. Nel primo, intitolato «Io non esisto e gli altri copiano» (4 aprile), Fini si lagna di esser stato depredato e poi censurato da diversi autori che si sono occupati dopo di lui di determinati argomenti. Verso la chiusura del pezzo, Fini dà in un ulteriore pianto greco: «È da vent’anni che non sono più invitato da alcun network». Ora, anzitutto quest’ultima è un’affermazione falsa, aggravata dal cattivo gusto dell’inglese: basta infatti controllare in rete per constatare quanto le presenze di Fini, benché non paragonabili a quelle per esempio d’uno Sgarbi, d’un Mughini o di un Feltri, sono numerose e non certo relegate a Tele Roccacannuccia. Forse Fini vorrebbe essere ancor più al centro dell’attenzione, ché come molti vecchi vanesi non si rassegna al tanfo della morte e del possibile oblio. E credo appunto che il suo malumore, o sarebbe meglio dire stizza e risentimento, per esser stato copiato e poi censurato derivi giustappunto da questo terrore di finire nella discarica dei dimenticati. Un atteggiamento poco nobile, soprattutto se sbandierato ai quattro venti, oltremodo puerile e che cozza con l’allure da duro che Fini si è sempre dato. Come se poi la (presunta) censura gli avesse procurato guai economici, cosa che per fortuna non risulta affatto. (So che non è elegante parlare di denaro; ma è anche peggio fingere che molte questioni umane non si rivoltolino nello sterco del demonio).
La verità è che Fini ha fatto il suo tempo, ripete da quarant’anni le stesse cose e per come va il mondo oggidì è solo un vecchio arnese che rifiuta la realtà. Egli lo sa benissimo, ma preferisce dare a intendere di essere una vittima del sistema a causa del suo ribellismo (alquanto di facciata, come ho scritto altrove).
Quanto a chi lo avrebbe ignorato e/o plagiato, bisogna valutare caso per caso. Capisco bene il disagio provato dal giornalista, lo dico sul serio perché è capitato persino a me di subire certi soprusi e vi posso assicurare che fa montare il sangue alla testa. Tuttavia, Fini dovrebbe esser più cauto prima di corrucciarsi.
Ecco ad esempio cosa scrive: «Un paio di settimane fa Paolo Mieli ha recensito sul Corriere, il 6 marzo, un recente libro di Luciano Canfora, Catilina. Una rivoluzione mancata. Mica che Mieli abbia ricordato, anche solo di sfriso, che su Catilina io ho scritto una biografia (…) che precede di un quarto di secolo, anche se con tesi diverse, il libro di Canfora? Io non esisto».
Che cosa diavolo si aspettava Massimo Fini da Paolo Mieli? Egli sa benissimo che quel mondo funziona soprattutto così. E lo sa, attenzione, perché è il suo, perché anch’egli si comporta come un Mieli qualunque. Lo so io perché l’ho vissuto sulla mia pelle (da parte di Fini e anche di Mieli), lo sa anche Cesare Lanza, che nel gennaio 2017 scrisse un articolo su La Verità in cui diceva che Fini «se può aiutarti, non lo fa», e lo sanno molte altre persone. Inoltre Mieli ha scritto un articolo, non un saggio, e in un articolo non è obbligatorio, né talora c’è lo spazio, per passare in rassegna tutta la bibliografia su un argomento.
Non avendo poi Fini affermato il contrario, deduciamo che egli non abbia mai letto il libro di Canfora, uno studioso molto serio e competente; e se fosse davvero così, sarebbe disdicevole, ché bisogna leggere i libri altrui sui “nostri” argomenti, sennò si è solo degli invidiosetti e dei malmostosi. Nel caso invece in cui lo avesse letto, Fini ha evitato di rilevare un dettagliuccio da nulla, ossia che anche Canfora lo ignora. E questi ha i suoi buoni motivi, di cui potrà capacitarsi chiunque confrontando i due lavori sul rivoltoso romano. In fuga va purtuttavia sottolineato l’urticante malvezzo degli accademici di escludere chi non abbia una cattedra o qualche titolo ufficiale.
L’altro articolo è dedicato al «Familismo non solo negli atenei» (3 maggio). Qui Fini dismette i panni della prefica o del bambino capriccioso e viziato e indossa quelli del paladino della giustizia, anche se un po’ fiacco e, tanto per cambiare, ipocrita. Prendendo spunto dall’ennesima porcata di cattedre pilotate (questa volta sono state l’università di Milano e il San Raffaele) Fini punta la penna accusatrice contro la politica e l’imprenditoria, i cui sistemi familistici sono identici a quelli impiantati nelle università. Vero, verissimo: ma tu però senti da che pulpito! Solo i dabbene possono credere a un giornalista che si erga a Savonarola di questo sistema. Cosa credete infatti avvenga nelle case editrici e nei mezzi di comunicazione? La maggior parte dei giornalisti, dai molossoidi ai pinscher, sta dove sta perché “figlio di” (legittimo o meno), “amante di”, “nipote di”, “amico di”, “lecca e tirapiedi di”, garçon jouet (toy boy, per i più aggiornati), compagno di partito, etcoetera, etcoetera, etcoetera. Ogni tanto qualcuno senza protezioni riesce a emergere; ma sono mosche bianche. Ancora una volta, Massimo Fini sa benissimo tutto ciò; ma, ancora una volta, fa l’indiano. Un po’ lo capisco perché egli stesso – che, tengo a dirlo, un tempo aveva buone capacità – non solo è figlio di Benso Fini, giornalista di “chiara fama”, direttore del Corriere Lombardo, e molto altro, ma fu anche aiutato da un’iscrizione al Partito socialista (lo stesso che in seguito durante Tangentopoli Fini contribuì in notevole misura a fiocinare ed estinguere, allineandosi, il “ribelle” e il “bastian contrario”, alle posizioni del novantotto percento della stampa e dell’opinione pubblica).
Nessuno gli ha chiesto questo articolo, Fini agisce per sua fortuna in autonomia; ma, in caso contrario, visto che appunto può, si sarebbe dovuto rifiutare di scrivere quelle cose, così salvando quel poco di salvabile che ancora gli resti. Più che la corruttela, Fini denuncia di avere una coscienza sporca: mette alla berlina le malefatte altrui per ripulirsi i propri residui di coscienza, al contempo tentando di stornare l’attenzione dalla categoria giornalistica, ovvero da sé stesso, dando a intendere di essere un cavaliere senza macchia e senza paura. Le cose invece stanno esattamente a rovescio.
Si noti da ultimo una cosetta; ossia che Mieli e Fini si conoscono da una vita (facevano addirittura un giornale insieme negli anni Ottanta, «Pagina»); ma Fini non si perita di lamentarsi per non aver ricevuto sostegno e aiuto da un vecchio compare, salvo poi fare il “giustiziere cartaceo”. Delle due, l’una: o l’età sta mettendo a dura prova Fini tanto da impedirgli di ricordare cosa scrive da una volta all’altra, oppure è il solito furbetto, che confida nella distrazione dei suoi lettori e nella supina o interessata acquiescenza di chi lo pubblica. Io propendo per la seconda ipotesi.
Altro che cieco, Massimo Fini ci vede benissimo, ma solo quando vuole. Peccato solo che ciò avvenga assai di rado e quando non gli fa comodo egli è più orbo di Mister Magoo, come peraltro dimostrai con dovizia di particolari nel mio succitato articolo, e credo anche in questo.
Ecco: di fatto avrei così già parlato del suo ultimo libro. Ma voglio pur spendere ancora due parole e rilevare ad esempio che, sebbene ormai da decenni Fini se la dia da filosofo (esisterebbe, dice lui, persino un Fini-pensiero), da romanziere impegnato (Il dio Thot, illeggibile), da biografo di filosofi (la peggior biografia di Nietzsche è la sua), da cogitatore a mezzo tra esistenzialismo e nichilismo, Cieco non raggiunge nemmeno da lontano i risultati estetici e filosofici delle grandi riflessioni, anzi. È una cronaca a mezzo tra egocentismo e vittimismo, tipici di Fini, senza uno straccio di riflessione. Tutto resta in superficie, sempre.
Da un “pensatore” come lui, che peraltro si è sempre piccato, rinnovando le arie anche in Cieco, di aver scritto la biografia di un filosofo con seri problemi di vista, ci saremmo attesi qualche riflessione se non profonda almeno utile. E invece niente di niente. C’è solo tanta amarezza e la solita, stancante smania di mettersi in mostra anche nei momenti più imbarazzanti. Per via delle sue origini russe, penserà di essere Tolstoj, che morì davanti a una ingente folla nel letto della stazione ferroviaria di Astàpovo. In realtà Fini, poiché non ci vede più, ha ancor più bisogno di prima di essere rimirato dal prossimo.
Peraltro questo (ennesimo) piagnisteo stride fortissimamente, come ho detto sopra per altra faccenda, col piglio di uomo di mondo, da hombre da film western che Fini ama cucirsi addosso in ogni occasione. E dire che proprio lui, dico lui, ha intriso la biografia nietzscheana di insolenze e sfottò contro il grande filosofo, a suo giudizio «apolide dell’esistenza», una mezza cartuccia lagnosa e malaticcia. Con quel libro Fini dimostra non solo di ignorare Nietzsche ma anche di essere un animo meschino abitanto dal ressentiment sferzato proprio da Nietzsche. Cieco è una presa in giro del lettore anche per altri versi: settantacinque pagine (ufficialmente 84, ma il libro inizia da pagina 9) in corpo molto grande, penso 16 o giù di lì, per un totale di 98mila battute: in pratica un raccontino spacciato per un libro, per giunta esteticamente pretenzioso e ridicolo, ché rilegato con una copertina rigida spessa quanto il testo.
Voglio ancora aggiungere un particolare. Da un po’ di anni Fini andava dicendo di aver esaurito le cartucce, di non aver più alcunché da dire e quanto sarebbe stato bello tacere anziché andare in giro a farsi compatire. Invece no. Per sopperire all’impotentia cogitandi e irritato dall’idea di essere allo svolto terminale, ha dovuto ripiegare prima su un libro, assai breve e per giunta scritto a quattro mani, sul calcio, poi con l’antologia giornalistica e adesso con questa cosa indefinibile di Cieco. Ma i colpi di coda pare proseguiranno, ché proprio in Cieco minaccia un’ulteriore fatica cui starebbe pensando: un libro, niente meno, sulla scia della Teoria dei colori di Goethe.
C’è da augurarsi che qualche saggio amico gli faccia cambiare idea, risparmiandogli l’ennesima brutta figura.
Ma forse il problema non è di Fini. Il problema è mio, che credo di vedere un uomo e uno scrittore di cui valga la pena di occuparsi là dove invece c’è solo la sua ombra sfuggente.
Luca Bistolfi