
Atlantide, città stregata, “centro drammatico del destino occidentale”. Praga secondo Milan Kundera
Cultura generale
Amedeo Gasparini
Peter Flamm, fiamma ardente avvolta nelle ombre del tempo, è vissuto come un sospiro sommesso tra righe mai lette. Dal 1920, era solito bere del tè a casa di Thomas Mann, un rituale che divenne simbolo di profonda amicizia. Nonostante la distanza, i due rimasero legati da un affetto e una stima reciproci. Nel 1944, mentre si trovava a Pacific Palisades (USA), Mann leggeva la bozza di un romanzo di Flamm, poi andata perduta, e in una lettera scriveva:
“[…] Con gli scrittori molto giovani, l’aspettativa non è così impressionante; nel tuo caso, invece, dovrebbe far vergognare qualcuno. Quindi non solo grazie, ma anche congratulazioni – in felice attesa di un grande, meritato successo…”.
Ma chi era l’autore di tale scrittura infuocata, e perché per lui il “meritato successo” non osò mai ardere?
Peter Flamm, pseudonimo di Erich Mosse, fu uno psichiatra, ebreo d’origine, nato a Berlino nel 1891. Durante gli studi medici, pubblicò i primi scritti sui giornali dello zio, Rudolf Mosse, protagonista di un impero editoriale; nel 1926 S. Fischer pubblicò il suo primo romanzo “Ich?”. Il libro creò scalpore in tutta la Germania per la sua denuncia verso la Repubblica di Weimar e l’atrocità della guerra.
L’inno di lode feuillettonista elevò l’autore al primo rango degli scrittori tedeschi (il “Berliner Tageblatt” lo descrisse come “libro vulcano di passione e sofferenza”, mentre la “Neue Freie Presse” dichiarava con entusiasmo: “Le frasi tremano di eterna tragedia umana”). Nel 1931 Heinrich Mann raccomandava egregiamente l’ultimo libro di Flamm in cerca di fondi per la pubblicazione (non verrà mai pubblicato); Stefan Zweig parlava di lui nei suoi diari (22 novembre 1931):
«Erich Mosse, Peter Flamm, molto gentile e simpatico. Peccato che non abbia ancora capito cosa fare di sé stesso. Moltissimo talento, eppure non abbastanza».
Con l’avvento del nazionalsocialismo, Flamm fu obbligato a emigrare prima a Parigi nel 1933 e poi a New York nel 1934, dove si stabilisce come psichiatra di fama. Il libro di psicologia The Conquest of Loneliness e la disinvoltura con cui somministrava l’elettroshock elevarono il suo tenore di medico tanto che William Faulkner divenne suo assiduo paziente. Il salotto dei Mosse fu inoltre frequentato da figure come Charlie Chaplin e Albert Einstein. Nel 1959 tornò in Germania e tenne una conferenza a Francoforte sul Meno (tema: “La bella letteratura nell’età della scienza”). Il rientro nella sua terra natale suscitò però una profonda introspezione sul suo retaggio letterario ed ebraico, provocando una contemplazione sulla sua fuga in America:
“Cerco di vedere la luce accanto all’ombra. Ogni luce proietta la propria. Lo dico e lo scrivo con una sorta di fervida vergogna. Il vecchio amore si rifiuta ancora di morire: l’amore per il paesaggio e la lingua tedesca. A una cultura del passato che è rimasta il mio presente. A una vita che mi ha fatto sentire legato ad amici che ammiravo e che amavo. A volte vado in uno dei ristoranti tedeschi di New York. Rido della borghesia, del rumore, della birra e dei deliziosi bratwurst. E rido di me stesso. Di una ridicola malinconia e di una piccola tristezza sentimentale. Poi torno a camminare per queste strade notturne e con questo rumore pieno di meraviglia, e do la buonanotte a ogni stella. Andiamo a casa! Ma dov’è? Non si può tornare a casa”.
La morte si avventò su Erich a Manhattan nel 1963.
Il romanzo d’esordio, “Ich?”, smarrito tra gli anfratti degli archivi di S. Fischer, ha ritrovato la luce soltanto nel 2023. La stampa tedesca gli ha spalancato le porte evocandolo come un classico dai temi eterni che mai ha assaporato la gloria; così ne ha scritto “Tagesspiel”:
“Il romanzo di Flamm può certamente essere classificato accanto a classici come Niente di nuovo sul fronte occidentaledi Erich Maria Remarque o Nelle tempeste d’acciaio di Ernst Jünger”.
Con il titolo, “Io?”, il romanzo approda in Italia grazie alla traduzione di Margherita Belardetti per Adelphi.
«Io ho un nome che non è il mio nome, e tuttavia lo è, un destino che non è mio, che appartiene a un altro, che però si è abbattuto su di me, soffocandomi come fosse mio».
Nel caos della ritirata dalla Grande Guerra, il sergente Wilhelm Bettuch, ubriaco, si imbatte nel cadavere del dottor Hans Stern, e, rubandogli il passaporto, decide di calarsi nei panni del morto. Il suo ritorno a casa subisce un cambiamento radicale: non si reca più verso Francoforte, nella panetteria della madre, ma a Berlino, dove Stern esercitava la professione di chirurgo, viveva con la moglie Grete e il figlio piccolo. Tutti lo accolgono con grande felicità e nessuno si accorge dello scambio di identità, solo il cane Nerone lo azzanna come un estraneo.
Wilhelm si adatta sorprendentemente bene a una vita agiata e caratterizzata dal prestigio sociale, ma anche in questa ombra di menzogna persiste un’eco lontana che urla straziata:
“Sono come Kaspar Hauser e vengo da una cantina buia, vedo la luce per la prima volta, per la prima volta un albero, una nuvola, una pietra, un’altra persona, una donna, mia moglie, la memoria torna molto lentamente, bisogna darmi tempo, molto, molto tempo, sono come un malato, tutto mi appare nuovo, scopro tutto per la prima volta, e questo è terribilmente stancante, di tanto in tanto ricompare la grande mano nera e di nuovo copre tutto, di nuovo mi ritrovo molto solo, è tutto così orribile, il mondo e le cose e io stesso, soprattutto io stesso”.
Chi sono io? Sono vivo? Il protagonista continua a farsi domande ma è incapace di trovare risposte. Il lettore è tartassato da un flusso di coscienza delirante, caotico ed estremamente frettoloso; come se egli stesse ancora scappando dalla guerra, dalle bombe o da sé stesso.
“Ah, per me è atroce, non reggo più questa tortura, se solo potessi parlare, se solo fossi morto”.
Il fratello maggiore di Flamm morì a Verdun nel 1916. Si chiamava Hans, come il protagonista del romanzo:
“Sono nato ebreo, ma mi sentivo più tedesco di altri tedeschi. Parlavo tedesco, scrivevo tedesco, mi sentivo tedesco. Il mio ammirato fratello cadde nella Prima guerra mondiale come tenente bavarese davanti a Verdun. Si era offerto volontario alla testa della sua compagnia per una pattuglia senza speranza, mentre nessuno dei suoi compagni tedeschi voleva andare con lui”.
Una trama che si intreccia in un gioco perverso dove la verità si frantuma come vetri rotti e il lettore diviene inerme. Come una pioggia di granate, i pensieri del protagonista tessono una ragnatela di dubbi laceranti. Chi ci sta parlando? Wilhelm o Hans?
“Nato da nessun grembo, corpo eppure non corpo, io eppure un altro, un nome, un destino, ma non un essere umano. Dunque dov’è che inizio e dove ho fine? “
Il lettore è mitragliato da un protagonista confuso, traumatizzato dentro un oblio. È un uomo che non riesce a scrollarsi di dosso un fardello troppo pesante, che non riesce a cancellare la cicatrice di una guerra che lo ha dilaniato dall’interno; lo stridio delle granate, le urla di dolore, il sangue dei soldati.
Sin dalla prima frase si trova davanti a giudici reali e metaforici mentre tenta di espiare una colpa:
“non io, signori giudici, un morto parla per bocca mia”.
Un fiume in piena, un terremoto mentale, uno sciame di vespe che punge l’intelletto; con un espressionismo urgente che disgrega sintassi e Io(?) narrante, Peter Flamm tenta un libro senza confini di interpretazione, senza età.
“Scrittore o no, ognuno è condannato – o benedetto – a combattere le bolle spettrali che salgono dalle acque scure e gorgoglianti del proprio inconscio”.
Tommaso Filippucci
***
Un nome, una parola: che c’entra con me? Cosa sono un uomo e il suo nome? Come si può dare a un uomo il nome di una cosa, a una vita che muta, che è sempre diversa? Un uomo che è libero, in trappola dal giorno della nascita, bollato, segnato! Sempre sottomesso, a che pro essere forte, se poi si è sempre domati, a che pro lavorare, essere fieri e coraggiosi. Ma ora io ne sono fuori, sono un altro, ho un altro nome, sono un altro uomo, è semplicissimo, basta solo cambiare abito, i nomi fanno le persone, e ora io sono il dottore, il dottor Hans Stern, sissignori, lo sono, io, io sono un uomo istruito, sono ricco, ogni preoccupazione è alle spalle, cos’è mai un cadavere, ora che mi sono preso la sua fortuna!
Ecco che il cane si è alzato dal suo cantuccio, si aggira quatto quatto per la stanza come facendomi la posta, tiene la testa sghemba, gli occhi verdi sfolgorano. Ogni volta che finisce il giro della stanza, si ferma ai piedi del divano, si rizza, mi guarda, distende le zampe sul folto tappeto, ci appoggia la testa, e attacca a guaire, un lungo tormentoso lamento.
Che diavolo ha questa bestia? Tutti sono buoni con me, tutti mi amano, degli sconosciuti mi mettono su un taxi, braccia estranee si allacciano al mio collo, mani estranee accarezzano tremanti il mio viso. Solo questo animale è cattivo, mi odia, mi strappa la carne dalla gamba facendola sanguinare, mi guarda con occhi di fuoco, un feroce e smanioso, ostinato nemico che mi fa la posta.
Bisogna cercare di farselo amico, è un buon animale. Di solito fa sempre il bravo, perché adesso no? Bisogna essere dolci con lui, accarezzarlo. Vieni, Nerone! Come faccio a conoscere il suo nome? Nerone? Sì, ecco, arriva, sì, tende l’orecchio, i ciuffi sopra le sopracciglia prendono a sussultare in modo strano, la testa si solleva, la coda si dimena, frulla, sferza tutt’intorno, all’improvviso salta sul divano, terrorizzato faccio per alzarmi, ma ecco che la sua testa è accanto alla mia, il morbido muso umido accanto alla mia guancia, e ora la lingua su orecchie, mento e mani. L’animale è fuori di sé, non è più in grado di trattenersi, il suo guaire diventa un latrato, la sua voce, rauca e violenta, scuote l’aria, salta su e giù dal divano, ruota su sé stesso come un pazzo, si rotola per terra, corre verso il tavolo, l’armadio, la finestra, trema in tutto il corpo, eccolo di nuovo accanto a me, fiuta, mi annusa una scarpa, i pantaloni, la benda, il latrato si placa, di nuovo un guaito lamentoso, straziante, si appiattisce a terra, sulle fredde assi del pavimento, sconsolato. Ansando, la lingua a penzoloni, le narici rosso scuro, la bava sul muso. « Nerone » lo chiamo con una voce che mi è del tutto estranea, mi alzo di scatto dal divano, sono da lui, per accarezzarlo, per poggiare la mano sul suo pelo, la testa accaldata vicino alla sua – ma il gesto resta sospeso, nello specchio vedo il cane, gli oggetti nella stanza, la sedia davanti al tavolo, e sopra il tavolo i libri, il posacenere, la lampada, vedo l’animale sul pavimento – e un estraneo lì accanto, capelli scuri sulla fronte, la testa sul pelo dell’animale, la mano – paralizzato alzo lo sguardo, anche l’altro solleva la faccia, due occhi mi guardano fisso, terrorizzato mi allontano dal cane, l’altro fa lo stesso – che succede, mi prendono le vertigini, anche l’altro impallidisce, barcollando si rialza insieme a me, si avventa verso lo specchio, mi giro per vedere, anche l’altro si gira… Nessuno, non c’è nessuno nella stanza tranne me, sono completamente solo, soltanto l’immagine nello specchio, e quello – sono io, io, non può essere altrimenti, sono completamente solo, sono isolato, orribilmente solo, mi palpo tutto il corpo, braccia, viso, una mano accarezza l’altra: io, io, io, un altro è me, io sono l’altro, il morto, che ora vive, faccia, corpo un altro, muscoli, carne, intestino, cervello e anima. Non io? Non più mio? Io non più io? Quello che ora vede attraverso i miei occhi, quello che le mie mani toccano, i miei pensieri, i miei intimi pensieri – non più i miei?
Mi afferra un vertiginoso terrore, provo a pensare, tutto è come raggelato, quiete glaciale dietro la fronte, dallo specchio mi fissa una faccia atterrita, bianca come marmo. All’improvviso un fremito, mi sento avvampare, come prima la mano tasta meccanicamente il taschino, ora tutto è chiaro: il passaporto, il nome dell’altro, il nome ha trascinato con sé l’altro, è misteriosamente congiunto a lui, indissolubili volto e nome, e ora io sono l’altro e devo vivere fino in fondo la sua morte, la sua vita, mentre lui giace laggiù sotto terra nel fango, e io mi infilo nella sua vita come in una cornice, ma so tutto, sto lì dietro come uno spettatore, eppure sono me stesso e mi guardo, io che sono l’altro eppure sempre io, un uomo dietro la sua immagine.
Ora su di me è scesa una calma, una strana quiete. Tutto è vuoto, non ho più paura, forse è stato troppo, sono stanco, non si può andare oltre un certo limite, l’attimo non lo cogli mai per intero, tutto quello che sai viene solo dal passato, va bene così, altrimenti l’anima andrebbe in pezzi. Una difesa, una barriera contro sé stessi, contro follia, sconvolgimento e delirio, va tutto bene, il passato completamente cancellato, niente più guerra, niente lavoro, non so più nemmeno com’era una volta, tanto è lo stesso, sono un uomo nuovo, inizia una nuova vita, un nuovo futuro. Ora, ora la felicità, ora, se varco quella porta, dietro c’è la felicità, dietro…
Peter Flamm
*In copertina: Peter Flamm (1891-1963) © Otto Kurt Vogelsang