Chi non lo conosce soffre di cecità al cospetto dello stupore. In Patagonia uscì nel 1977 e divenne un classico della letteratura di viaggio – e quindi della letteratura tout court, perché scrivere è sempre mettersi in cammino verso l’ignoto. Bruce Chatwin, con quel viso angelico, cristallino, nelle fotografie ha spesso gli scarponi spessi appesi su una spalla. Quel libro, In Patagonia, che aprì la via a un ‘genere’ – la letteratura ‘di viaggio’, appunto, nobilitandola – ma soprattutto a una nuova forma di turismo – godere la verginità paradossale di spazi all’apparenza incontaminati – comincia, per chi lo ricorda, con un dinosauro. In realtà, comincia con “un pezzo di brontosauro”, custodito dentro un armadietto “nella sala da pranzo della nonna”. Il brandello preistorico apparteneva a un bestione “vissuto in Patagonia, regione del Sud America all’estremo limite del mondo”, capitato, molte migliaia di anni dopo la sua morte, tra le mani del cugino della nonna di Chatwin. Dalla curiosità verso il mostro – il brontosauro – nasce nella zucca del piccolo Bruce l’idea di partire per la Patagonia.
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Il secondo libro di Chatwin – visto che ormai si sente uno scrittore maturo – è un romanzo, s’intitola Il vicerè di Ouidah è ambientato in Africa, parla, con tratti fluorescenti, della tratta degli schiavi, è pubblico nel 1980 e capita tra le mani di Werner Herzog mentre il regista tedesco sta girando il suo film più grande, Fitzcarraldo. Finito il film, Herzog contatta Chatwin, che nel frattempo è in Australia. Gli chiede di scrivere con lui Dove sognano le formiche verdi. “Ascetico, con un paio di logori pantaloni militari e una maglietta che lasciava vedere il teschio ridente tatuato su una spalla”: così Bruce descrive Werner, è il loro primo incontro, a Melbourne.
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Chatwin, che osserva gli uomini come fossero paesaggi, ha inquadrato subito Herzog. “Era un compendio di contraddizioni: tremendamente coriaceo ma vulnerabile, affettuoso e distaccato, austero e sensuale, piuttosto insofferente delle tensioni della vita quotidiana ma quanto mai efficiente nelle situazioni d’emergenza” (il ritratto, Werner Herzog nel Ghana è raccolto in Che ci faccio qui?, Adelphi, 1990). Chatwin si nega alla proposta di Herzog, che rilancia, “un giorno ne farò un film”, dice il regista, riferendosi a Il vicerè di Ouidah. Il film, in effetti, qualche anno dopo, nel 1987, con altro titolo, Cobra verde, si farà. Il film non è tra i più belli di Herzog, ma è noto perché sancisce la fine dei rapporti del regista con Klaus Kinski, “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli”, così lo ricorda Chatwin.
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Chi ricorda In Patagonia ricorda invece che l’autore, per prima cosa, va a La Plata “per vedere il miglior museo di storia naturale del Sud America” e sincerarsi dell’esistenza dei dinosauri della Patagonia. La stessa cosa, oltre quarant’anni dopo, ha fatto Werner Herzog, qualche giorno fa. La visita di Herzog – con telecamera – avrebbe dovuto restare in incognito. Il regista pensava di fare qualche ripresa e di filarsela via. La generosità lo ha fregato. Una paleontologa del Museo de La Plata, infatti, fan dichiarata di Herzog, ha chiesto al regista il fatidico selfie. Lui s’è messo in svogliata posa – lei ha ghignato un sorriso – la foto è stata postata e tutta l’Argentina ha saputo che Werner era a La Plata.
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D’altronde, nell’arte, solo i progetti abortiti, fallimentari, senza gloria vanno percorsi: bisogna affrontare l’insperabile, credere che il dinosauro diventi pantera.
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Già. Ma che ci fa Herzog a La Plata? Risposta ufficiosa. “Sta lavorando a un nuovo progetto”. Non ci vuole un’aquila a capire di che progetto si tratti. L’anno prossimo sono i 30 anni dalla morte di Bruce Chatwin e la BBC pare abbia incaricato Herzog di realizzare un documentario. Conoscendo Herzog, però, l’idea di partire dove parte In Patagonia per un lavoro filmico più complesso, inadempiente, furibondo, non è peregrina.
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“Herzog? Non si imbarchi mai in un viaggio con lui”, pare abbia detto “un grosso nome di Hollywood” a Chatwin. Ma è proprio per vincere quel mai, per affrontare viaggi senza meta, inenarrabili, che si vive, che si crea. (d.b.)